domenica 19 ottobre 2014

DA TAMBURRINO A PELVI: MATERIALI PER LA STORIA


MONS. FRANCESCO PIO TAMBURRINO 
VISTO DA VICINO



1. IL PRIMO INCONTRO 

DA L'ATTACCO DEL 22 giugno 2014

Il primo incontro con mons. Tamburrino è stato nel settembre del 2003.  Ero in partenza per gli Stati Uniti come d’accordo con mons. D’Ambrosio. Lo andai a trovare nel suo lussuoso appartamento in Vaticano. Mi era parso una persona mite, timida e introversa, con una paura di essere sempre sotto giudizio. Gli dissi apertamente che se c’erano prospettive per me, potevo anche rinunciare al periodo di fidei donum e impegnarmi nuovamente per la diocesi, superando lo shock provocato da mons. Casale, e soprassedendo alle tante connivenze dei vari mons. Coco, Ricciotti, Cendamo, Colagrossi e altri suoi collaboratori, che non opponendosi a quello stile disinvolto e spregiudicato, avevano pur avuto vantaggi e riconoscimenti. La sua risposta fu “vada pure negli USA, e poi si vedrà”. Già l’uso del “lei” mi dava un certo fastidio, e poi nella risposta era fin troppo chiaro l’atteggiamento che si esplicitò nel 2005, quando feci ritorno dal soggiorno americano.  “Mi dicono che lei sia piuttosto aggressivo e sempre polemico”. Anche quel “mi dicono” mi aveva fatto particolarmente irritare. L’impressione di anni prima si andava materializzando. Avevo davanti la classica personalità del “sentito dire”, incapace, per pigrizia mentale, di verificare di persona il “si dice”. Come da carattere non ci pensai due volte e risposi: “anche di lei, si dicono tante cose, sa. Dobbiamo continuare così o vogliamo parlare di cose più serie?”. Personalità debole e intelligenza notevole, docente di teologia liturgica, autore di libri e saggi di un certo peso, prestigioso incarico in una congregazione romana, sbattuto a Foggia per divergenze con il cardinale suo superiore, e aveva ragione lui, Tamburrino, ma impacciato e incapace di relazioni autentiche, avvezzo al sussiego e all’accondiscendenza cortigiana. Rivedevo in lui in quei momenti i monaci certosini, conosciuti a Serra san Bruno, tanto santi e oranti in coro, e tanto infantili e pettegoli fuori dal coro, da mandare quotidiane lettere delatorie, ai superiori maggiori, per ogni qualsivoglia piccola infrazione alle regole da parte dei loro confratelli. Le comari al loro confronto sono angeli salottieri. Che Tamburrino sia un raffinato uomo di cultura, con posizioni persino d’avanguardia, nel campo della liturgia, è fuori di dubbio. I suoi libri, articoli scientifici, lettere pastorali, e omelie (anche se lette noiosamente a mono-tono) mostrano una cultura profonda e a lungo digerita, da monaco appunto. L’italiano è solitamente scorrevole e le sue aperture delineano orizzonti significativi e stimolanti, in controtendenza, rispetto a tanti altri vescovi, praticoni e ciammattoni, anche loro, ahimè, con il vizio del copia-incolla, al primo click di google. La sua personale collezione d’icone bizantine, valutata in parecchie migliaia di euro, e di altri pezzi d’antiquariato religioso, inizialmente promessi a un mai realizzato museo diocesano, e ora destinati a Montevergine, mostrano un animo sensibile all’arte e alla bellezza, uno degli elementi teologici emergenti nella cultura cristiana del nostro tempo: “Dio è bello, ancor prima che buono e tre volte santo”. Il carattere tutto sommato remissivo (il nome di Pio, dato alla prima professione monastica, questo sta a indicare), completano un quadro, che involontariamente rischia di prendere le movenze e le sembianze di un “santino”. Ma non è così. L’idillio si sgretola non appena l’analisi si sposta alla sua azione pastorale, al rapporto con le realtà culturali e sociali del territorio, al governo della diocesi e alle relazioni con il clero e i laici. I dieci anni di Tamburrino a Foggia hanno brillato per una totale assenza dal dibattito culturale cittadino (se si eccettuano le annuali relazioni ai convegni organizzati dal prof. Marin sulla teologia dei padri della Chiesa e gli autores antichi). Un retaggio della vita monastica e religiosa, tutto comunità, preghiera e liturgia, quando non ammantata di devozionismo, specie se di formazione preconciliare. La lettura dei quotidiani, che non sia il cattolicissimo “Avvenire” e la passione per il tempo presente, tra filosofia e letteratura, sono un optional nei monasteri e nelle case religiose. Si vive da monazontes (da solitari), fuori del mondo, fisicamente e culturalmente. Un tempo ci si faceva religiosi per “fuggire” il mondo, un vezzo non ancora del tutto sopito. Insomma ai monaci moderni, quelli riemersi, solo verso la metà del XIX secolo, da un lunghissimo periodo di decadenza e dispersione, e finiti nel novecento fino a giorni nostri, a reggere, spesso controvoglia, santuari e parrocchie, il mondo che li circonda rimane marginale, più che risorsa è percepito come disturbo e intralcio al loro solenne e lento celebrare e salmodiare liturgico. Non si nota letteratura laica e contemporanea negli scritti di Tamburrino. Le immagini, quelle più ricche e fascinose, sono citazioni di seconda mano, dai padri della chiesa, che al contrario del monachesimo moderno, sapevano molto di mondo, del quale, specie nel medioevo si sono fatti lievito e strumento di salvezza culturale. Non diverso il giudizio sulla sua azione pastorale, prevedibile e fin da subito fattasi irretire in un’organizzazione curiale, datata e sterile, ancora oggi “vuota e inoperosa”, come il grande deserto dei monaci certosini. I vescovi-monaci, prima sono monaci e difficilmente diventano “diocesani” e “pastorali”. Il caso prima di Tamburrino fu quello di Magrassi, sradicato dal suo bel monastero di Noci, e catapultato direttamente nella complessa realtà di Bari-Bitonto. Non ha retto per molto, e a nulla è valsa la sua cultura che ne faceva un grande del monachesimo italiano. Il monastero è una cosa, la diocesi un’altra. Anche a Magrassi si rimproverava di essersi progressivamente chiuso in una turris eburnea, relegando al “cerchio magico” dei suoi collaboratori, scelti a sua immagine e somiglianza, il rapporto con il clero, l’intera diocesi e le realtà sociali.  Lo stesso è capitato al monaco-vescovo Tamburrino, circondatosi di collaboratori, di “scarso spessore teologico e pastorale”: sono parole sue.  Ricordo attorno al 2006 d’averlo sentito, molto rammaricato, lamentarsi dei suoi collaboratori, inerti e senza idee. Si lamentò anche della scarsa considerazione da parte dei politici locali verso il suo operato e i suoi interventi in campo sociale. Gli risposi che dopo le allegre scorribande di Casale e gli interessi non sempre solari con cui affrontava “gli affari cittadini”, non ci si poteva aspettare più di tanto dalla classe politica. La scottatura non era da poco, per chi pretendeva grandi progetti per lo sviluppo della città di Foggia ma al tempo stesso banchettava allegramente e solo con gli Zammarano, i “costruttori di Dio”, all’epoca asso pigliatutto dell’edilizia cattolica foggiana e non solo. I politici locali riferendosi a preti e parrocchie dicevano spesso “i tinimme fatte”: quattro soldi per abbellimenti di facciata, soprattutto preelettorali, e il gatto è nel sacco. Questo nuovo “cerchio magico”, per giunta raccogliticcio degli ultimi ciuchi rimasti sul campo (diceva “ma sono quelli più votati dal clero”…bastasse questo per renderli capaci!), dopo che erano stati spazzati via i cavalli di razza, e che mai Casale aveva preso in seria considerazione, pur essendo miei coetanei, una volta fatti tutti monsignori, si sono sentiti qualcuno, pur restando i vacui e tronfi uomini di sempre. “Ma quelli sono i miei collaboratori” aveva replicato Tamburrino alle mie rimostranze per tali inutili onorificenze, scandalose e premature, come già quelle di Casale. “Lei ha ragione, risposi, in effetti, io e gli altri sacerdoti lavoriamo per il diavolo in questa diocesi”. Gli dissi, in quel frangente, “ma se sono così inetti e incapaci, perché non li manda tutti a casa e si circonda di nuovi soggetti”.  Di giovani generosi e ben disposti ce n’erano e ce ne sono ancora a Foggia, bastava dare loro fiducia. Ricordo ancora il suo sguardo perso nel vuoto e la frase angosciata: “e come faccio, ora?”. Riemergeva l’eterno conflitto tra l’intellettuale, capace di analisi acute e spregiudicate, e il pavido uomo d’azione incapace di trarne le dovute conseguenze. Penso sia iniziato in quel momento il progressivo distacco nei suoi confronti. Gli accademici salottieri mi hanno sempre lasciato indifferente. I restanti 5 o 6 anni della sua permanenza a Foggia, erano ancora tanti, ma, ormai, pastoralmente segnati e ripetitivi: aveva dato tutto quello che poteva. Da quella data fu tutto un “tirare a campare”. Tanto valeva allora aspettare, e lasciar scorrere il tempo. Ultimo sussulto, la visita pastorale: vero canto del cigno. Le visite pastorali da che mondo è mondo, nelle diocesi sono pensate in vista di un programma e progetto per gli anni a venire. Porla alla fine del mandato non ha molto senso. E così è stato. Meglio stenderci un velo pietoso. Fra un paio di mesi, vista la consultazione, a tamburo battente, avviata dalla nunziatura apostolica, Tamburrino se ne dovrà andare. Lui vorrebbe restare in Diocesi, cosa del resto permessa dal diritto canonico, a certe condizioni. Tornare in monastero non se ne parla: l’uccello uscito di gabbia difficilmente ci fa ritorno. Non so quanti ne sentiranno veramente la mancanza. Forse quelli del suo cerchio magico e qualche prete suo lacché, pronti a giurare e spergiurare che loro non c’entrano nulla con i fallimenti pastorali di Tamburrino: un’antifona tristemente nota in quel di Foggia, l’hanno inventata con Casale. Su tutto vale il giudizio smaliziato dei giovani preti foggiani: “la nostra diocesi, dopo dieci anni, è ancora sede vacante”, e se lo dicono loro, c’è da crederci. Prima del 6 gennaio si contavano i mesi, le settimane e infine i giorni. Ora si contano le ore. In questa carrellata ho volutamente lasciato da parte il gran casino combinato nel seminario diocesano, con tre dipendenti del Liceo Sacro Cuore, cacciati, come non si può più fare in Italia, neanche con i cani. Ma questa è ormai storia di tribunali e di avvocati: ultimo profondo cono d’ombra sul suo operato. Addio Tamburrino e felice e dorata pensione: tremila euro tutto spesato. Addio senza rammarico e senza astio. Ci resteranno la sua intelligenza, i suoi libri, le sue lettere pastorali e le sue dotte omelie, ci mancheranno molto meno la sua azione pastorale e un pastore spesso distratto e lontano dal suo clero e dal popolo affidatogli. Sperare in uno nuovo, più adatto a un gregge non certo facile come quello foggiano, è per lo meno doveroso. Se proprio “non ci resta che piangere”, che almeno ci sia lasciata la speranza in un cambiamento, alla papa Francesco. Neanche questo?

                                                                         
2. L'EREDITA' PASTORALE DI MONS. TAMBURRINO

ARTICOLO APPARSO SU L'ATTACCO DEL 31 DICEMBRE 2013....

"Un ricordo personale. Quando ero ancora seminarista a Molfetta, il vescovo Lenotti mi chiese un giudizio sul rettore. Gli dissi “una risposta diplomatica o quello che pensavo veramente?”. “Quello che pensi veramente”, rispose. “E’ un cretino, e prima lo togliete da quel seminario e meglio sarà per i futuri preti pugliesi”. Ne rimase sorpreso. Al che aggiunsi subito dopo: “non si preoccupi. E’ un brav’uomo, con qualche difetto, come tutti”. E’ inutile qualcuno non ama vedersi allo specchio e quando glielo si sbatte in faccia, al massimo afferma: “quello che dice è vero, ma il modo è proprio sbagliato”. A chi viene maltrattato o viene pestato un piede, si chiede anche il fair play. Mi è stato chiesto di descrivere lo scenario della chiesa locale che lascerà mons. Tamburrino, prossimo alla pensione. Diciamo subito che il disastro è grande, anche se non è tutta colpa sua. La colpa più grave è certamente quella di non essere mai entrato veramente nel cuore di questa diocesi: ci è stato mandato per punizione e ha fatto di tutto per farcelo pesare, e questo per lunghi dieci anni. Le altre colpe sono ben distribuite tra un clero, poco preparato, incapace e arruffone, più interessato al potere e ai soldi (anche a quelli) che al bene delle comunità, e lo stesso mondo laicale, cristiano e non cristiano, che come reazione massima, abbandona le chiese, lasciandole in mano a vecchi e bambini. La nostra è e rimane una città di provincia inerte, paciosa e persino cinica, in tanti suoi aspetti: la diocesi ne è solo un’immagine speculare. Le diocesi suffraganee non lo sono di meno. E’ la chiesa intera che Bergoglio sta cercando di svegliare da Roma, che andrebbe scossa e risvegliata in tutto il mondo, specie in Italia. Dal concilio era stato chiesto un rinnovamento radicale: una chiesa più aperta al mondo e più spesa nel servizio all’umanità. Ebbene questo non è avvenuto, e siamo a cinquant’anni dal concilio. Il devozionismo, con i suoi rosari, le sue multicolori processioni, le adorazioni eucaristiche (dalle quarantore alle settantadue) la fa ancora da padrone; la sacralizzazionie, nemmeno troppo compresa nella sua giusta impostazione magica e di “pensiero speculativo” ossia di visione del mondo, resta ancora il fulcro della pastorale cristiana: battesimi, prime confessioni e prime comunioni, matrimoni e funerali, tutto procede e riempie la vita delle parrocchie, esattamente come negli anni ’60. Di servizio alla città, d’immersione nei suoi problemi veri, esisto autentico della sacralità cristiana, neanche l’ombra. Molti cristiani pensano ancora che si salvano l’anima frequentando la chiesa e vivendo di sacramenti, non utilizzandoli al servizio dell’umanità. Cosa lascia Tamburrino? Una chiesa allo sbando, forse peggio di come l’aveva lasciata Casale, non con i suoi contrasti, ma con una generale disaffezione che forse è anche peggio. In ogni suo settore. La curia è praticamente un deserto senza anima. Nel convegno di Verona del 2006 si era detto che la catechesi, la liturgia e la carità, non dovevano più essere rappresentati da tre uffici, spesso autoreferenziali e tutti interni alla realtà religiosa. Bisognava che queste tre elementi fossero intercomunicanti e orientati tutti al “servizio di carità per la vita del mondo”. Non se n’è fatto nulla. Anzi facendo monsignori i tre direttori, non si è fatto altro che acuirne l’autoreferenzialità e spesso la loro supponenza. La caritas, pensata non come strumento della carità di un altro ufficio, spesso, in mano a pochi e con molti soldi (quelli dell’otto per mille) ma come animazione della carità delle parrocchie e dei cristiani, ha fallito la sua missione (anche se nelle mense e nei dormitori qualcosa pur produce). Nel sevizio di carità, il riferimento unico sono le caritas parrocchiali che ne ripropongono il cliché elitario e di ufficio, sono state trascutrate totalmente le confraternite, cosa non avvenuta in altre diocesi del centro nord, lasciate da noi a un cultualismo fuori stagione (si è impedito il rito della settimana santa, ma le si vuole tutte in processione, fanno colore e popolo). Ogni problema in questa diocesi è stato risolto con un ufficio, alla maniera della Conferenza episcopale italiana. Con la non piccola differenza, che forse a quel livello (si fa per dire) le cose funzionano, nel senso che si danno da fare, con molto personale e molti proclami, anche per giustificare la propria esistenza, ma a livello locale diventa una tragedia: molti preti della diocesi hanno più di un incarico per coprire l’organnico CEI governano diecimila istituzioni, praticamente paralizzandole. Così è per tutta la pastorale diocesana: consultorio familiare, pastorale giovanile, pastorale della salute, ecc…Tutti organismi che stanno sulla carta, perché così vuole Roma. Una marea di enti inutili che di tanto in tanto propongono iniziative fine a se stesse, inutili al territorio, proprio perché estemporanee, saltuarie e ancora una volta autoreferenziali. Ma il vero nodo sono le parrocchie e i sacerdoti: il punto più basso della pastorale di Tamburrino. Il legame tra vescovo e preti è stato praticamente inesistente. A parte quel vezzo di dare del lei, che volutamente impone un distacco, e mancanza di familiarità, non c’è colloquio tra vescovi e preti, se per questo non c’è mai stato. I vescovi dopo il concilio si sono investiti di un piccolo potere regale, vivono in torri d’avorio (il nostro con tre stanze d’anticamera). Si isolano sempre più e le comunicazioni avvengono spesso attraverso delazioni: “mi hanno detto che hai detto”. Al clero s’impedisce in tutte le maniere l’incontro e il confronto e lo scambio di idee. I ritiri, mensili, ne sono l’emblema. In quegli incontri tutto è gestito dall’alto: un’ora di ascolto (quest’anno la lettura ripetitiva del documento copia-incolla dell’arcivescovo sulla pastorale familiare), un’altra ora di adorazione eucaristica (devozionismo allo stato puro) e infine gli avvisi (il resto del tempo). Per un anno intero non si sono fatti i consigli presbiterali (perché il vescovo era impegnato nella visita pastorale), negli ultimi mesi se ne sono fatti due (per mancanza di numero legale). Anche quest’organismo di partecipazione clericale, diciamo dal basso, si è fatto di tutto per neutralizzarlo (se ne ha paura) e viene nutrito di argomenti scelti a caso, senza mai andare a fondo sulle problematiche. E’ gestito come una corte, nella quale il re ascolta le lamentele e ne tiene conto. Non si vota mai o quasi. Non ci sono delibere del consiglio in quanto tale: il vescovo chiede al clero e il clero dopo il dibattito gli fa sapere…niente di tutto questo il dibattito è svolto tra chi critica l’operato del vescovo e chi lo difende. E ce ne sarebbero di cose da dire ancora. Mi si dato un preciso numero di caratteri da non oltrepassare. Ma c’è ben altro, se si pensa all’allegra gestione economica, ancora una volta, e alla recente polemica sulla scuola in seminario e a tante decisioni mancate in questi anni. Alla prossima puntata."



MONS. VINCENZO PELVI VISTO DA VICINO


1. IL CHI E' DI MONS. PELVI 

Vincenzo Pelvi è nato a Napoli il giorno 11 agosto 1948.  
Si è preparato al sacerdozio nel Seminario Arcivescovile “Alessio Ascalesi”, ricevendo l’ordinazione presbiterale il 18 aprile 1973, nella Cattedrale di Napoli, per le mani del Card. Corrado Ursi.
Ha frequentato la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, conseguendo la licenza e il dottorato in Sacra Teologia, con una singolare ricerca sulla Teologia della Celebrazione. Vicario parrocchiale a Secondigliano e, successivamente, responsabile della formazione al Seminario Maggiore, è stato, per oltre un ventennio, dal 1974 al 1996, professore di Teologia dei Sacramenti, di Teologia Liturgica e Antropologia Teologica, nella Sezione “San Tommaso” della stessa Facoltà Teologica. Autore di varie pubblicazioni, ha partecipato a molteplici convegni teologici. Per la spiccata sensibilità pastorale, nel 1979, il Card. Corrado Ursi lo ha nominato Direttore dell’Ufficio Pastorale della Curia di Napoli, impegno ricoperto per otto anni, nel corso dei quali ha avviato l’attuazione degli orientamenti dello storico XXX Sinodo Diocesano, di cui è stato Segretario Generale. Dal 1988 al 1996, il Card. Michele Giordano lo ha scelto come suo Vicario episcopale nella zona Nord di Napoli, realtà complessa e densamente popolata, comprendente cinque circoscrizioni cittadine (dalla Doganella a Miano, da San Pietro a Patierno a Secondigliano) e cinque comuni dell’hinterland (Afragola, Arzano, Casalnuovo, Casavatore, Casoria). Dal 1989 al 2000 è stato Segretario aggiunto della Conferenza Episcopale Campana. Assorbito in compiti ecclesiastici così impegnativi, Mons. Pelvi non ha mai smesso di dedicarsi all’attività pastorale diretta, collaborando in varie parrocchie e, soprattutto, curando, dal 1981, prima la formazione spirituale delle religiose come Consulente dell’USMI diocesana e poi avviando in Diocesi il cammino di preparazione per la consacrazione nell’Ordo Virginum. Giornalista pubblicista, è collaboratore dell’Osservatore Romano, di Avvenire e delle riviste: Asprenas, Consacrazione e Servizio, Januarius, Presbiteri, Rassegna di Teologia, L’Emanuele. Dal 1996 al 2002 ha diretto il Settimanale diocesano “Nuova Stagione” e dal 2006 al 2013 il trimestrale “Bonus miles Christi”. Pro-Vicario e successivamente Vicario Generale della Diocesi e Canonico del Capitolo Metropolitano, l’11 dicembre è stato nominato dal Santo Padre Ausiliare di Napoli e consacrato Vescovo il 5 febbraio 2000 dal Cardinale Michele Giordano, Arcivescovo Metropolita. Dal 14 ottobre 2006 all’11 agosto 2013 è stato Arcivescovo Ordinario Militare per l’Italia.
Alcune pubblicazioni
La teologia della celebrazione, D’Auria, Napoli 1979
La bellezza dell’insieme, D’Alessandro, Napoli 1994
In ascolto del cuore, Paoline, Milano 1995
Una vita in dono. Miscellanea in onore del Cardinale Corrado Ursi, Torre del Greco 1996
La famiglia speranza di Napoli, Torre del Greco 2002
Splendete come astri di speranza. Lettera pastorale ai cappellani militari, 2007
La famiglia in un mondo che cambia. Lettera pastorale ai fedeli della Chiesa Ordinariato militare, 2008
Prendiamoci cura dell’anima, Lettera pastorale ai fedeli della Chiesa Ordinariato militare, 2009
Andiamo alla scuola del Figlio crocifisso. Lettera alle famiglie dei caduti nelle missioni internazionali per la pace, 2009
Alle vergini consacrate, San Paolo, Milano 2009
Nella Verità la Pace, San Paolo, Milano 2010
Educare alla santificazione del tempo. Lettera pastorale sulla Liturgia delle Ore, Avvento 2010
Sui sentieri della Carità. Lettera Pastorale sull’Eucaristia, 2011
Cirenei della croce. Via Crucis, San Paolo, Milano 2012
Non temere, soltanto abbi fede. Lettera Pastorale per l’Anno della fede, 2012
Sui sentieri della pace, San Paolo, Milano 2013.


2. I RETROSCENA DI UNA NOMINA. 

Chiesa: Snobbato dal cardinale Sepe, Papa Francesco ‘salva’ don Pelvi
di Arnaldo Capezzuto | 12 ottobre 2014
Per oltre un anno non avrebbe avuto alcun contatto ufficiale con la Curia di Napoli. Zero rapporti con il cardinale Crescenzio Sepe e con i vari organismi diocesani. Un vuoto attorno che, per 14 lunghi mesi, lo ha fatto sentire come un esiliato di lusso nella propria città che lo vide tra l’altro al vertice – era tra i più brillanti vescovi ausiliari – di Largo Donnaregina quando cardinale era Michele Giordano. Papa Francesco approfittando della rinuncia di Monsignor Francesco Pio Tamburrino ha messo ora fine al suo isolamento nominandolo, lo scorso 11 ottobre, arcivescovo titolare dell’Arcidiocesi Metropolitana di Foggia-Bovino. Tira un sospiro di sollievo Monsignor Vincenzo Pelvi che dall’11 agosto 2013, al compimento del suo 65º anno di età, aveva lasciato – a norma di legge per raggiunti limiti d’età – l’incarico di Ordinario militare per l’Italia nonostante una sua richiesta di proroga presentata sia al Santo Padre che al Presidente della Repubblica. 
Fu Papa Benedetto XVI, ora Emerito, ad elevare Pelvi ai vertici del Vaticano. Era l’ottobre del 2006 quando lo designò a Ordinario militare per l’Italia valorizzandone le spiccate capacità diplomatiche e sottraendolo allo “spoil system” che a breve avrebbe messo in atto il nuovo arcivescovo Sepe (esiliato dalla Santa Sede a Napoli dallo stesso Papa Ratzinger dopo esser stato Prefetto alla congregazione di Propaganda Fidae).
Tra Pelvi e Sepe pare non sia mai corso buon sangue. Anzi il clima di tensione arrivò a livelli alti quando si vociferava di una possibile nomina proprio di Pelvi a cardinale di Napoli. Chi è addentro ai salotti ovattati della curia arcivescovile partenopea racconta che quando imperversava la burrasca giudiziaria che si abbattè su Sepe, l’alto prelato nel suo ruolo di Papa Rosso fu accusato nel 2010 di corruzione nell’inchiesta “Grandi eventi”, nacque l’ipotesi di sostituirlo. Sembra che lo stesso Sepe sollecitasse indirettamente le alte cariche di Oltretevere affinché lo facessero rientrare tra le sicure mura vaticane. In quel caso due erano i papabili per occupare lo scranno di Largo Donnaregina: Don Vincenzo Pelvi e Bruno Forte Arcivescovo di Chieti. 
Due figure di peso della città ben visti da pezzi importanti di borghesia e società civile. Un’ipotesi tramontata. Sepe continuerà ad essere “confinato” alla Curia di Napoli ossia, tecnicamente fino al compimento del 75° anno d’età, termine della ‘pensione’ regolamentato dal Diritto Canonico. 
Dunque ancora 5 anni in una città che ha tentato più volte di lasciare con una Chiesa dilaniata dalle polemiche. Lettere anonime, corvi, insoddisfazione dei sacerdoti insomma dentro e fuori la Curia diretta da Sepe ed i suoi fedelissimi l’atmosfera non è delle più serene. L’ultima polemica – in ordine di tempo - l’ha innescata il teologo don Gennaro Matino, ex vicario episcopale proprio dell’arcivescovo Sepe denunciado all’indomani dell’ordinazione episcopale del nuovo vescovo ausiliare di Napoli, monsignor Gennaro Acampa, di come le “nomine sono calate dall’alto, il più delle volte senza tenere conto del bene delle chiese locali, senza fermarsi a pensare a quanto danno possano fare uomini inadatti alla vita di intere comunità, alla serenità pastorale di clero e laici”.
Un attacco rivolto direttamente a Sepe reo di aver ridotto la chiesa di Napoli a un palcoscenico per eventi e piazzate. “È sotto gli occhi di tutti di quanta imbarazzante mediocrità sia pervasa la comunità episcopale e di come le diocesi e i fedeli debbano accontentarsi di quello che passa il convento” attacca sempre don Matino. Il cardinale Sepe dal canto suo è apparentemente serafico e stretto tra i suoi fedelissimi fa buon viso e cattivo gioco. Allo stesso Pelvi l’alto prelato invia un messaggio ufficiale “eleva inni di lode al Signore che, ancora una volta, ha voluto che un figlio e sacerdote della Chiesa di Napoli venisse chiamato ad un posto di particolare responsabilità nella Chiesa cattolica universale


3. UN INTERVENTO DI MONS. PELVI CONTRO I SUOI CAPPELLANI MILITARI

La "casta"dei cappellani militari 


Doppio stipendio per l'Ordinariato militare: pagati dallo Stato, i sacerdoti con le stellette ricevono anche i contributi della Cei

GIACOMO GALEAZZICITTÀ DEL VATICANO
L’obbedienza non è più una virtù per i cappellani militari. Cade nel vuoto il richiamo alla sobrietà rivolto dall’arcivescovo Vincenzo Pelvi ai sacerdoti dell’Ordinariato militare d’Italia. Il «casus belli» è stato il meeting «Annuncio del Vangelo e testimonianza della carità», cioè il convegno che ha appena visto riuniti ad Assisi 200 Cappellani militari di tutta Italia, in servizio e in congedo, e una rappresentanza dell’associazione per l'assistenza spirituale alle forze armate (Pasfa). 


L’obiettivo dell’incontro era riaffermare che la prima forma di carità, per il presbitero impegnato pastoralmente fra le forze armate, sta nella fedeltà alla propria identità sacerdotale. Al summit di Assisi il generale Biagio Abrate, capo di Stato Maggiore della Difesa, aveva espresso ai cappellani «gratitudine sincera per l’opera spirituale svolta al servizio degli uomini con le stellette», ritenendola un lavoro «insostituibile e prezioso in patria, all’estero e nelle missioni internazionali». Ma a volte la forma è anche sostanza. E così è piovuta sui cappellani militari la reprimenda del loro ordinario, monsignor Pelvi, il quale ha lamentato un eccesso di "logistica": troppi autisti, segretari, mezzi militari e altri status symbolServe sobrietà, specie nel contesto della crisi economica che vive il Paese e «di cui tutti risentiamo». 


Quindi, «l’andirivieni per le vie di Assisi o nelle aree marginali della sede del Convegno, di personale militare che in caserma collabora col cappellano», «non risponde a criteri di economia accettabili e offre un’immagine inadeguata del mondo militare, dell’impiego del personale e della Chiesa Ordinariato Militare», contesta l’ordinario militare, monsignor Vincenzo Pelvi in una lettera ai cappellani militari resa pubblica dall’agenzia Adista. Nel mirino ci sono la ragione, il soggiorno e la permanenza di troppo personale militare al servizio di quei cappellani che partecipano all’annuale convegno di Assisi, che quest’anno si è svolto dal 10 al 13 ottobre. 


Una «anomalia», la definisce Pelvi, che «crea non poco sconcerto» tra la popolazione civile. La natura dell’ordinario militare, come quella di ogni cappellano militare è così duplice. Da una parte infatti si tratta a tutti gli effetti di presbiteri e vescovi cattolici; dall’altra, l’inquadramento dei cappellani prevede attualmente la frequenza di un seminario specifico per allievi ufficiali cappellani militari (istituito nel 1997), dal quale gli aspiranti cappellani escono con la consacrazione presbiterale e il grado militare di tenente, per essere inseriti a tutti gli effetti all’interno dei ranghi delle Forze Armate (con gradi, mimetica, brevetti) oltre che in quelli della gerarchia cattolica. «A pagare lo stipendiodei cappellani militari (come dei cappellani ospedalieri e quelli delle carceri) è lo Stato; ma in quanto diocesi extraterritoriale, l’Ordinariato Militare gode anche dei contributi che la Cei versa a tutte le diocesi italiane attraverso i fondi dell’8 per mille (ossia, nuovamente, soldi pubblici)», documenta Adista. Preti-ufficiali a tutti gli effetti, i cappellani progrediscono nella carriera militare di pari passo a quella ecclesiastica. Così, se l’Ordinario militare è di diritto anche Generale di Corpo d’Armata, al suo vicario generale spetta il grado di generale di brigata; l’ispettore, il vicario episcopale, il cancelliere e l’economo hanno il grado di tenenti colonnello; il 1º cappellano capo è un maggiore; il cappellano capo è capitano, mentre al semplice cappellano addetto compete il grado di tenente. «Carriere e stipendi di tutto rispetto - puntualizza l’agenzia di stampa -. Un generale di corpo d’armata riceve un salario lordo mensile di circa 9.500 euro; un generale di brigata circa 6.000 euro; un colonnello più di 5.000 euro; un tenente intorno ai 4.500 euro. Complessivamente, il mantenimento dei 184 cappellani attualmente in servizio costa allo Stato italiano circa 10 milioni di euro l’anno (nel 2005, ultimo dato reso noto, costarono quasi 11 milioni di euro ed erano complessivamente 190)». 


Una cifra cui vanno aggiunti i fondi che servono a pagare le pensioni degli ex cappellani, piuttosto elevate trattandosi di ufficiali: la più alta, quella dell’Ordinario Militare-Generale di Corpo di Armata si avvicina a 4mila euro al mese. Secondo l’articolo 8 della legge 1° giugno 1961, n. 512 gli ordinari militari possono restare in servizio fino al compimento del 65.mo anno di età. Ma dopo essere stati congedati (art. 10 della stessa legge) hanno diritto al trattamento pensionistico riservato agli ufficiali. Inoltre, ai generali di corpo d’armata è consentito andare in pensione già a 63 anni. Un privilegio di cui la Chiesa cattolica non manca di usufruire, spostando ad altro incarico tutti gli Ordinari che abbiano raggiunto la fatidica soglia. Così, pochi anni di servizio effettivo garantiscono un vitalizio altissimo


Godono attualmente della pensione più alta monsignor Giovanni Marra (Ordinario dal 1989 al 1996 e oggi amministratore apostolico della diocesi di Orvieto-Todi), il cardinale Angelo Bagnasco (2003-2006, oggi arcivescovo di Genova e presidente della Cei), monsignor Giuseppe Mani (1996-2003, attualmente arcivescovo di Cagliari), e monsignor Gaetano Bonicelli (1981-1989, oggi arcivescovo emerito di Siena). Anche mons. Pelvi, che ha 63 anni, è in procinto di andare in pensione. «Nonostante i cappellani militari rappresentino una casta all’interno di un’altra casta, il clima, all’interno dell’Ordinariato, è tutt’altro che buono- precisa Adista-. Nell’occhio del ciclone è finito negli ultimi mesi proprio monsignor Pelvi (già vicario a Napoli sotto il card. Giordano, ma poi ha lasciato la città dopo l’arrivo del nuovo arcivescovo, il card. Crescenzio Sepe) accusato di tenere un profilo troppo decisionista e di aver proceduto a trasferimenti e sostituzioni che hanno alimentato malumori e polemiche».
A riprova di rapporti non particolarmente idilliaci dentro l’Ordinariato, un’altra lettera, datata 19 settembre 2011, inviata da monsignor Pelvi a tutti i cappellani, nella quale l’Ordinario ammette l’esistenza di tensioni e problemi, «alcuni dei quali sono stati superati», che attribuisce ad una organizzazione che non sempre consente di realizzare una effettiva comunicazione e fraternità all’interno di una struttura che «diversamente dalle diocesi territoriali, abbraccia una realtà geograficamente vasta e disomogenea». Accade così che «alcuni cappellani lamentano la mancanza di incontri del presbiterio zonale, mentre dei Capi Servizio quasi ignorano le precarietà fisiche e spirituali nelle quali si trovano i confratelli della propria zona pastorale». Per questo monsignor Pelvi rivendica «l’avvicendamento nelle responsabilità» da lui attuato, pur esprimendo riconoscenza «a chi ha servito la nostra Chiesa con generosità e dedizione». Non manca però una frecciata polemica ai suoi detrattori: «L’assistenza spirituale dei militari – afferma infatti monsignor Pelvi nella lettera – è vicinanza e instancabile accompagnamento che non ha nulla di paragonabile a un certo stile di vita impiegatizio che misura le ore e i minuti». Insomma, conclude sibillino l’Ordinario rivolgendosi ai suoi cappellani, «pur assistendomi con i vostri suggerimenti, aiutatemi a conservare quella libertà di giudizio e di decisione che è richiesta dalla missione di ministro di Cristo e testimone del suo Vangelo». Un richiamo, quello dell’Ordinario Militare, «del tutto comprensibile e condivisibile», osserva l’agenzia Adista-.Se non fosse che «l’ordinariato militare è da tempo una delle istituzioni ecclesiastiche più criticate per gli enormi costi di gestione, tutti a carico dello Stato italiano, oltre che per la scelta di fare una pastorale con le stellette». 


Chiesa particolare della Chiesa cattolica, non organizzato su base territoriale, ma come speciale diocesi creata ad hoc per fornire assistenza spirituale ai cattolici presenti nelle forze armate italiane, l’ordinariato militare è guidato da un vescovo (l’ordinario militare, appunto), che ha giurisdizione ecclesiastica su tutti i militari di religione cattolica, i cappellani militari, sui loro parenti conviventi e sul personale in servizio.



3. MONS. PELVI VISTO DA VICINO
DA L'ATTACCO DEL 18 OTTOBRE 2014


Ci siamo recati in quel di Castelluccio Valmaggiore a incontrare, don Antonio Iannotti, ex cappellano militare, in pensione dal 2009, che ha avuto mons. Pelvi come suo ordinario. Buona la strada fino alle pendici del monte Cornacchia, poi tortura e piena da avvallamenti, da far rimpiangere una pista da sci. L’ultima parte, con camion e macchine che andavano controvoglia a ritmo di samba. Nuvole basse, oscuravano la cima e un freddo che rispetto ai 27 gradi di Foggia, sembrava persino inverno inoltrato. Un paese deserto alle 10,30 del mattino, nemmeno le solite vecchiette, con foulard in testa e gonne pesanti, per le strade. Proprio nessuno in giro. Una chiesa madre, dalla facciata antica, e un’imponente scalinata esterna, rinnovata in una contrasto di modernità, da far rimpiangere l’antico settecentesco che certamente l’avrebbe resa più armoniosa con il resto del fabbricato. Cerco la casa di don Antonio Iannotti che persino le sagrestane non mi sanno dire dove è ubicata. Vada sempre a destra, uscendo dalla chiesa, che la trova. Mi sono perso in un vicolo cieco con porte tutte uguali, e anch’esse inguardabili nella loro biondo anticorodal, sotto archi in pietra grigia, certamente antichi, che sembravano ripetere “ma io che centro con queste porte?”. Finalmente lo chiamo al telefono e lo vedo sbucare da una di queste casette appollaiate una sull’altra, su uno dei tanti viottoli che accedono al piazzale antistante la chiesa madre. Gli dico che intendo intervistarlo per fare un quadro “visto da vicino” del nuovo vescovo di Foggia mons. Pelvi. Inizialmente non vuole parlare ma poi si lascia andare a quello che sa, avendolo incontrato due o tre volte, di persona, e rare altre volte in momenti comunitari. Mi mostra la lettera di auguri per i 25 di sacerdozio, alata, quasi leziosa e piena di buoni pensieri, e per contrasto quella formale per il suo pensionamento. Per don Antonio mons. Pelvi, resta un professore di teologia, dal pensiero profondo, espresso in un italiano forbito e di spessore. Le sue omelie e le lettere pastorali, tutte pubblicate sulla rivista diocesana “Bonus miles Christi”, offrono concetti spesso d’avanguardia, anche sui temi scottanti delle guerre e delle cosiddette missioni di pace. Non gli rendono un buon servizio, afferma, le frasi staccate dal contesto e a lui riferite: “il primo che ha riconosciuto la divinità di Cristo in croce era un militare”, “i militari non sono per uccidere, ma per difendere il popolo, e piuttosto si fanno uccidere per questo”. I cappellani militari svolgono un servizio religioso ai cristiani sotto le armi, non fanno certo la guerra. L’avere i gradi e fare carriera militare si capisce solo se si sta dentro quella struttura. Gli faccio notare che fosse solo questo li faremmo tutti santi. Il problema ha una complessità che non sempre chi ci vive dentro riesce a districare. Gli stessi interessi umanitari non sembrano essere sempre tali, a volte rispondono a strategie geopolitiche, non sempre chiare. Chiudo subito la questione anche perché non è questo il tema del nostro colloquio. Il tono di don Antonio si fa diverso quando gli chiedo qualcosa di più personale di mons. Pelvi. Professore era e professore rimane, dice un po’ sconsolato. L’interlocutore, per mons. Pelvi è un eterno studente. Si pone difronte all’interlocutore come uno che aspetta risposte precise a domande altrettanto precise. Da questo punto di vista non c’è molto dialogo. Si ha sempre l’impressione di essere sotto inchiesta. Sarà un’impressione, ma tale rimane. Gli chiedo, per pura curiosità, il motivo di quella voce così stridula e spesso soffocata. Mi dice che è un problema di salute, come quello di papa Francesco, e forse anche più grave, che gli impedisce persino di usare l’aereo per gli spostamenti. Un handicap per mons. Pelvi, che non l’ha fatto essere presente di persona, come faceva Bagnasco, nelle varie missioni dei militari all’estero. Forse anche per questo ha sempre quell’aria un po’ guardinga e diciamo pure “spaventata”. Non è un problema caratteriale. Non basta uno sguardo per giudicare una persona. Forse, penso tra me e me, il carattere, schivo e riservato, si sarà modellato su quel problema fisico. Lo conferma con don Antonio con una battuta: “Mons.Pelvi è uno di quei napoletani, che ha sempre paura che qualcuno lo voglia fregare”. Per avere la sua fiducia bisogna davvero meritarsela e fare tanta anticamera. Gli dico è un bene così tiene lontani lacché e baciapile, che da noi si sprecano. Si e no, mi risponde. E’ che a volte l’ha fatto rinchiudere nella sua stretta cerchia di “fedelissimi”, tagliano i ponti con gli altri. Insomma non è facile lavorare con mons. Pelvi, faccio notare. Per noi cappellani un po’ meno, rispetto a voi sacerdoti diocesani. Non stiamo proprio a stretto gomito con il vescovo, come succede nelle diocesi territoriali. Ci vediamo una o due volte l’anno, una per temi generali e l’altra per una specie di esercizi spirituali. Il vescovo è si presente, ma non ci sta con il fiato sul collo, quantunque mons. Pelvi mostrava di sapere tutto di tutti, e quando interveniva per motivi disciplinari lo faceva con una certa decisione, questo sì. Da professore non ama il contraddittorio. Sta sempre in cattedra. La parola è grossa: a qualcuno è apparso a volte anche “vendicativo”. Proprio come ripetono spesso gli studenti fannulloni verso i professori, che li bocciano per “antipatia” e mai “per scarso rendimento”. Hai mai avuto problemi di questo genere con lui, gli domando? No personalmente non ho mai avuto problemi con mons. Pelvi, che, a onor del vero, è per altri aspetti molto onesto e se vede che fai il tuo lavoro seriamente, ti rispetta e ti lascia in pace. Non ho avuto problemi, forse anche perché sono stato 25 anni a Lecce, che dista cinquecento chilometri dalla capitale. Lo saluto ringraziandolo. La strada del ritorno, è poco piacevole come l’andata. Ma con una certezza in più mons. Pelvi non è mons. Tamburrino.



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