venerdì 7 febbraio 2014

INCOMINCIANO A FIOCCARE LE PRIME RECENSIONI DEL LIBRO: SCUSATE SE E' POCO


Parisi F., Crisi e rinnovamento della teologia morale. 

La lettura di Domenico Capone, EDB, Bologna 2013,

 pp. 256, € 22,50. 






PRIME SEGNALAZIONI 



DA IL REGNO ATTUALITA' 18/2013 P. 585


Questo libro ricostruisce il contributo del redentorista Domenico Capone (1907-1995), al rinnovamento della teologia morale in continuità con la Tradizione e coniugato con il rigore scientifico e l’ascolto della vita quotidiana. Ha insegnato all’Accademia Alfonsiana, l’istituto che ha concorso a fondare. Negli anni del concilio Vaticano II egli ha notevolmente contribuito alla riflessione sulla dignità della persona e della coscienza, sulla teologia morale ristrutturata sul mistero di Cristo e nutrita costantemente della Parola, sulla capacità della proposta morale di porsi al servizio della chiamata di tutti alla santità. (Da Il Regno Attualità 18/2013 p. 585)




DALLA RIVISTA DI TEOLOGIA MORALE 180/2013







QUESTA E' LA QUARTA DI COPERTINA....NON VALE MOLTO COME RECENSIONE...PERCHE' LEGATA A LIBRO IN VENDITA
PERO' E' STATA RIPORTATA DA TUTTI I SITI CHE PUBBLICIZZANO IL LIBRO
UNA BUONA INDICAZIONE TRA LE TANTE.




sabato 1 febbraio 2014

NON SOLO POLEMICHE: ARTICOLO SU RIVISTA DI SCIENZE RELIGIOSE DAL TITOLO: UN'ALTRA MORALE E' POSSIBILE

DOPO LA PRIMA TRASMISSIONE SU TELEBLU DI LUNEDI' SCORSO, IN REPLICA OGGI ALLE 23.00 (BUONA NOTTE!)....I SOLITI...SONO ANDATI IN SUBBUGLIO...

FACCIAMO ALCUNE PRECISAZIONI:

1. C'E' UN MIO LIBRO PUBBLICATO DALL'EDITRICE DEHONIANE DI BOLOGNA DAL TITOLO "CRISI E RINNOVAMENTO DELLA TEOLOGIA MORALE. LA LETTURA DI D.CAPONE" COSTO 22,50, A DISPOSIZIONE DI CHIUNQUE LO VOGLIA COMPRARE E SOPRATTUTTO LEGGERE....

2. C'E' UN ARTICOLO PUBBLICATO SULLA RIVISTA DELLA FACOLTA' TEOLOGICA PUGLIESE RIVISTA DI SCIENZE RELIGIOSE  ULTIMO NUMERO DEL 2013 DAL TITOLO: "LA PROPOSTA DI D. CAPONE: UN'ALTRA PROPOSTA MORALE E' POSSIBILE",CHE QUI RIPROPONIAMO PER INTERO...BASTA LEGGERE...

MAI PARLARE PER "SENTITO DIRE" ALLA FINE SI DIVENTA "RUFFIANI DI CORTE"


DOMENICO CAPONE:
UN’ALTRA PROPOSTA MORALE è POSSIBILE
di Faustino Parisi

in RIVISTA DI SCIENZE RELIGIOSE 27, 2013, 585-619


Introduzione

L’articolo si pone a coronamento di altri, già pubblicati gli scorsi anni[1], che hanno cadenzato lo studio sulla figura e l’opera di Domenico Capone (1907-1995), professore di Teologia Morale Fondamentale all’Accademia Alfonsiana di Roma[2]. La sua riflessione teologica e la sua vasta produzione scientifica hanno avuto come riferimenti costanti la crisi della società occidentale e l’inadeguatezza della teologia morale preconciliare, le coraggiose aperture del Vaticano II e la proposta di una morale, come vita dei cristiani e scienza teologica, più attenta al dibattito culturale contemporaneo, coerente con le prospettive conciliari e che ponga al centro la figura del Cristo e della persona umana.
Si è voluto comporre un nuovo articolo, riassuntivo e organicamente ripensato, contagiato, in questo, dalla passione del maestro che, dalle aule didattiche, agli articoli, agli stessi libri, non faceva che rincorrere siffatte problematiche e tematizzazioni, alla ricerca di una soddisfacente formulazione di una nuova proposta di teologia morale adeguata ai nostri tempi.
Quello che auspicava Capone era, anche, una ricaduta pastorale della sua ricerca teoretica, da lui già avviata in numerose conferenze e predicazioni a sacerdoti, suore e laici, e attraverso articoli divulgativi. Nella Chiesa di oggi, infatti, la parenesi sembra ancora insistere sui temi del doverismo, della coerenza e degli obblighi morali, mentre la prassi catechistica, in molte parrocchie, nonostante il Documento di Base su Il Rinnovamento della Catechesi del 1970 e i nuovi catechismi pubblicati successivamente dalla Cei, continua a proporre una formazione morale, non fondata sull’incontro personale con il Cristo e sul servizio di carità, ma sull’esistenza di un Dio, autore di una legge, i dieci comandamenti, principale fonte di obblighi e di doveri[3].
L’articolo si propone di evidenziare le cause sociali, culturali e religiose di tale crisi, capire i motivi storici di un’evidente impreparazione della teologia morale di fronte alle nuove sfide del XX sec., ma anche mettere in luce le straordinarie aperture del Vaticano II e le piste per un suo rinnovamento, e infine offrire la sintesi teologica, proposta da Capone, perché davvero sia praticabile un’altra proposta morale, coerente con il dettame conciliare e al passo con i tempi.


1. Le sfide del XX secolo

Già dalla fine dell’Ottocento si è andato affermando, per poi divulgarsi capillarmente nel Novecento, un movimento culturale che pone in discussione non solo la definizione tradizionale di teologia morale, ma la stessa possibilità che teologia e morale possano, in qualche modo, ancora coniugarsi.
Non così nei secoli passati, quando l’ateismo era nella pratica un’eccezione, e nessuno metteva in discussione l’esistenza di una legge inscritta da Dio nel cuore dell’uomo e/o rivelata nelle sacre scritture. Ricorda lo stesso Benedetto XVI che: “capita ormai non di rado che i cristiani si diano maggior preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede come un presupposto ovvio del vivere comune. In effetti, questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato. Mentre nel passato era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, largamente accolto nel suo richiamo ai contenuti della fede e ai valori da essa ispirati, oggi non sembra più essere così in grandi settori della società, a motivo di una profonda crisi di fede che ha toccato molte persone”[4].
Dio, dunque, non è più inteso come principio, fine e norma, dell’agire morale (morale teonoma), sostituito da nuovi riferimenti che sono le scienze umane e la tecnologia. Non si tratta tanto o solo del tradizionale soggettivismo o relativismo morale, che pur supponeva una qualche morale di riferimento, ma della proposta di una nuova morale, che, nella sua espressione più radicale, quella nietzchiana, si auto-pone e si sostituisce a quella tradizionale, sia essa teonoma o anche solo eteronoma (come nel famoso aforisma 125 della Gaia Scienza).


1.1.  Cause sociali e religiose

Questo movimento culturale ha contribuito non poco ad alimentare una situazione d’incertezza e provvisorietà, acuita dalla recente crisi economica, e ha dato vita a un pessimismo umano-cosmico senza speranza, prima sconosciuto. In passato, infatti, altre forme ricorrenti di crisi pur sfociavano in un anelito al soprannaturale o nell’attesa di un messia, invocato quale risolutore e pacificatore del mondo, oggi sostituito da un facile ottimismo in un progresso scientifico, che si offre agli uomini come ultima (e unica) speranza per un futuro migliore.
Molteplici sono le cause socio-religiose di tale fenomeno.
Ha contribuito, non poco, l’immane tragedia di due guerre mondiali, combattute da popoli che pur si richiamavano ai valori cristiani, e il carico di brutalità e ingiustizie perpetrate nei campi di concentramento e di sterminio, da far gridare a molti «ma Dio dov’era?» e «come ha potuto permettere che tutto questo avvenisse?». La sofferenza e la morte, specie quella prematura di bambini che tanto scandalizzavano Camus, non sono più compensate dalla visione di un Cristo redentore, sofferente e morente sulla croce, vittima innocente, espiatrice di un peccato d’origine, del quale ai più sfugge il senso. La tradizionale posizione di un uomo-Dio che vince il male, sopportandolo e soccombendo, senza ribellarsi, suscita, oggi, al massimo qualche forma di solidarietà per il Cristo, ma al contempo genera un rifiuto e un rigetto per un Dio, assetato di sacrifici riparatori e vendicatore. Il rapportarsi quasi esclusivo con l’oggettivismo e il giuridismo morale, ha finito con il ridurre lo spazio di operatività e di mediazione prudenziale della coscienza, e messo in ombra la fondamentale e costitutiva relazione con il Cristo. Una predicazione e una catechesi, ossessionate dal male nel mondo e dal peccato, specie quello di disobbedienza alle leggi divine, non sempre sono state controbilanciate dalla fiducia nell’amore misericordioso e compassionevole di un Dio che in Cristo “ha vinto il mondo” (Gv 16,33). Infine un’eccessiva sacralizzazione della presenza e dell’azione di Dio nel mondo e delle persone a lui consacrate, con una visione della provvidenza divina come machina Dei, che tutto governa e tutto (miracolosamente) sostiene, e cui affidarsi, perché latore di una felicità definitiva, in un futuro prossimo, di cui, però, “non è dato sapere né il giorno né l’ora” (cfr. Mt 25,13), ha contribuito non poco ad una visione fideistica e quasi fatalistica del cristianesimo.


1.2.  Nuovi orizzonti culturali

Ancora più variegato è il background culturale che, pur collocandosi nel solco della tradizione illuministica, ne ha sottoposto le tesi a una radicale verifica, dagli esiti ancora incerti.
Con il termine soggetto morale, infatti, s’indica più che l’esecutore di comandi o di ordini (sia pure divini), l’agire dell’uomo come piena deliberazione della propria personalità, che si esprime in un atto cosciente, volontario, libero, interpersonale[5]. Mentre l’atto morale, non è più inteso come conformità a norme già scritte e codificate o a pienezza di formalità, nel senso kantiano, e non richiede un pregiudiziale discorso sull’Assoluto, come per filosofi e teologi scolastici, ma si pone come “operare concreto, che vive all’interno di se il tema della norma e del fine, e su questi temi, che media dal costume, viene esercitando una verifica attraverso questo suo stesso esperire, assicurando la sua consistenza [6] (R. Crippa).
In tale impostazione non sembra esserci spazio per un re o divino imperatore, o per un Dio che dall’alto detti leggi di comportamento e relativa casta rabbinica o sacerdotale o apparato burocratico che se ne fa interprete e intermediario. In questo modo si riduce l’uomo a sottomesso produttore di atti, per un soggetto altro, estraneo all’uomo e alla città degli uomini, e si fa alienante e fuorviante la promessa di felicità eterna, per osservanti e fedeli, in prospettiva esclusivamente ultraterrena, come afferma Capone[7].
Anche il rapporto metafisica-etica ha subito una profonda rilettura. Dell’essere metafisico, come del noumeno, non si ha alcuna esperienza diretta, aveva sostenuto Kant. Così, pur riservando all’istanza metafisica, una sua collocazione nel quadro generale della filosofia, essa si sperimenta, più facilmente, nel concreto, come valore ontologico insito nell’esperienza morale e non più percepibile astraendo da essa[8]. Il primato della ragion pratica ha finito con il prevalere su quello della ragion speculativa e metafisica. In tale contesto si ha la riabilitazione della Filosofia pratica, mutuata dalla filosofia morale di Aristotele, e variamente ripresa in Germania da Gadamer e Arendt, e in Italia da Berti e altri. Essa si presenta come un insieme di riflessioni argomentative e non prescrittive sulla prassi, sostenuto degli apporti della scienza politica ed economica[9].
Nuovo e diverso è il rapporto che si viene a instaurare tra teoresi e prassi: quest’ultima non più conseguenza pratica della prima o sua applicazione al caso concreto. In campo etico, contro una razionalità meramente descrittiva, neutrale e strumentale, proposta dall’Illuminismo, si fa nuovamente ricorso alla dinamica prudenziale aristotelica, giudicata più capace di orientare e guidare l’agire umano verso il successo, inteso come realizzazione di un bene, finalizzato alla felicità propria e dell’intera comunità (politica).
Termini come ragione, ontologia, universalità, scienza ecc., utilizzati nella metafisica classica, e fatti propri dall’Illuminismo e dal comune sentire popolare, sono stati, a loro volta, ri-visitati e ri-tematizzati dalla filosofia del Novecento. Una rivoluzione per alcuni, per altri solo una semplice torsione di significati[10], ma che impone un diverso modo di ragionare filosofico, scientifico e anche teologico. La stessa ragione che, nella tradizionale impostazione illuministica, si offriva come guida sicura e unica della vita dell’uomo, nella prassi deve far ricorso a una fiducia, se non a una fede in se stessa e nelle sue potenzialità d’intellegibilità della realtà e della verità, non suffragate da alcuna verifica previa dello strumento utilizzato, ossia della ragione medesima: un’aporia, questa, di giudicante-giudicato che crea, in partenza, un circolo vizioso la cui soluzione non va ricercata in campo teoretico ma esistenziale.
Una stretta relazione lega, poi, razionalità e comunità, sia essa di natura familiare, civile, religiosa, culturale o scientifica. La comunità, da strumento di vita e di trasmissione di valori e di crescita culturale per le nuove generazioni, spesso si muta in luogo chiuso e conformista, con le sue chiese e le sue lobby, i suoi dogmi e le sue scomuniche, come mostrato ampiamente da Kuhn[11], in ambiti di filosofia della scienza, e confermato dalle ricerche sul campo dell’antropologia culturale[12]. Esiste un rapporto obbligato, dal quale non è facile esimersi, che pone in stretta relazione comunità e ambiente, società e cultura.
La scienza moderna, che pur si nutre di razionalità e di verificabilità sperimentale, se da un lato non è più perseguibile come sapere puramente cumulativo, in continuo sviluppo, con teorie precedenti pronte a confluire o a essere riassorbite in quelle successive, dall’altro deve far riferimento, di volta in volta, non tanto alla sola ragione, ma più opportunamente alla fantasia per generare ipotesi, verificabili pur sempre a posteriori, meglio se con teorie falsificabili, come direbbe Popper, la cui attendibilità è legata al tempo e alle circostanze, e un progressivo avvicinarsi alla verità, che per Kuhn funziona proprio quando riesce a porsi in discontinuità (eretica) con la comunità scientifica del proprio tempo, forzando, nei suoi punti critici, i consolidati paradigmi della scienza normale, cioè ufficiale.
Infine l’universale astratto (logico-razionale), caro alla metafisica classica, considerato passaggio obbligato per il dialogo e il confronto tra gli uomini (tutti gli uomini sono per natura esseri razionali) è sostituito, oggi, dall’universale concreto. La fragilità del primo consiste nella pretesa di una razionalità universale, necessariamente astratta, per raggiungere la quale, come in un distillato di umanità, si dà vita a un alienante processo di astrazione dal principio di realtà e dal dato esistenziale dei singoli e delle comunità. Mentre l’universale concreto, inteso come orizzonte ermeneutico, entro cui svolgere la comunicazione tra gli uomini (meta da raggiungere, non ancora compiutamente data, telos della comunicazione e del confronto), si fonda sull’esigenza, che ognuno ha, di comunicare e relazionarsi, in linea di principio, con tutti, come ricordato da Pagano[13].
In conclusione, superando quel radicato razionalismo illuministico, che pur caratterizza questo movimento socio-culturale, e che fatica a cedere il passo o a completarsi con altre istanze dell’esperienza umana, e una forma di messianismo intra-mondano, che non fa che proiettare, ancora una volta in un futuro prossimo, la soluzione dei problemi del tempo presente, tre sono, a mio avviso, i punti di non-ritorno.
Dal punto vista metafisico: va riconosciuto il valore ontologico insito nell’esperienza morale, verificabile all’interno e attraverso l’esperienza stessa o comunque inscindibile da essa. Dal punto di vista etico: l’esperienza morale, sia essa mutuata laicamente o religiosamente, sarà riconosciuta valida, nella misura in cui garantisce all’uomo il porsi come soggetto autonomo e responsabile di atti morali, coscienti, volontari, liberi e interpersonali. Dal punto di vista esistenziale: la domanda di senso, che accomuna l’intera umanità e tocca intimamente la singola persona e relativa comunità, attende risposte convincenti che, scienza galileiana o scienze umane, filosofia o religione, arte, cultura, ecc., non possono non ricercare-comunicare-confrontare, sia pure con tematizzazioni e codici ermeneutici propri, pena la loro insignificanza, se non addirittura la loro inutilità.


2. Inadeguatezza della Teologia Morale preconciliare

Questo, per sommi capi, il quadro generale di una crisi ancora in atto, così come descritta da Capone, in numerosi articoli, saggi e dispense.
La teologia morale, giunta fino alle soglie del Concilio Vaticano II, si è mostrata del tutto impreparata a fronteggiare siffatti sconvolgimenti, afferma Capone. “I teologi del Novecento si sono trovati con un vuoto teologico alle spalle e di fronte una moltitudine di problemi morali nuovi e indecifrabili”[14].
Il vuoto teologico è rappresentato da una teologia post-tridentina, nei secoli sclerotizzatasi in manualismo, casismo e giuridismo morale, sostenuti filosoficamente da un quidditativismo essenzialistico, che aveva reso asfittica la vita morale dei cristiani, non centrata sulla coscienza, coadiuvata dalla prudenza, né sulla persona umana e sulla figura del Cristo.
Il manualismo era quel modo piuttosto schematico e rigido con il quale si redigevano i manuali preconciliari, senza vera ispirazione teologica e prudenziale, afferma Capone [15], ad usum nei corsi di teologia e spesso unico riferimento per i confessori e direttori spirituali.
La casistica è, invece, “il tentativo di indicare approssimativamente l’applicazione delle leggi o norme universali al caso singolare, oggetto proprio della coscienza guidata dalla prudenza”[16]. Il metodo casistico, utilizzato correttamente, per Capone deve aiutare l’azione della prudenza, ma non sostituirsi, nella sua azione di supporto alla coscienza. Per questo occorre fare una distinzione tra una sana casistica che sostiene abitualmente il binomio coscienza-prudenza, nel rapportarsi al caso concreto (il kairós), e una casistica empirica e praticona, che giudica il momento presente esclusivamente riferendosi a casi ben determinati e definiti altrove, ossia nei manuali: una forma di prudenza codificata e pronta all’uso. Una tale casistica diventa problema per la vita morale del cristiano, quando si fa mentalità, ossia concezione antropologica e anche teologica del rapporto uomo-Dio: non una relazione vitale e attuale in Cristo Gesù, ma un estrinseco riferimento a norme codificate, riguardanti spesso solo il permesso o il proibito[17].
Dalla mentalità casistica al giuridismo morale il passo è stato piuttosto breve, con conseguenze negative per lo stesso sacramento della confessione, oggi più opportunamente ridefinito sacramento della riconciliazione. Il confessionale, in molti casi, ancora oggi, non è il luogo della carità e della misericordia del Padre in Cristo, ma, a tutti gli effetti, un’aula di tribunale. Il penitente è l’imputato, il confessore, il suo giudice, cui spetta decidere, innanzitutto, se l’atto commesso è già in sé, «ex obiecto», formalmente peccato (di qui la consultazione della «summula casuum» dei manuali), quindi valutarne il grado di partecipazione: se c’è stata, cioè, piena avvertenza e deliberato consenso, condizioni giuridiche dell’imputabilità di un atto. Dopo di che, si dà o si nega l’assoluzione, sulla base del pentimento del peccatore, cui segue un’adeguata penitenza.
La prudenza non ha più nulla a che fare con il giudizio di coscienza, pronunziato più dal confessore che dal penitente; il rapporto personale con il Cristo è, tutt’al più, supposto ma non verificato nella sua attuale dinamica relazionale, e l’effetto medicinale-sacramentale della riconciliazione, pur sancito dall’ego te absolvo, necessita ancora di un appendice di natura più giuridica che morale, ossia della penitenza riparatrice commissionata dal sacerdote, cui fa seguito a volte, da parte del penitente, un’incetta di indulgenze, onde abbreviare i tempi di un’ulteriore purificazione in purgatorio, realtà intermedia tra inferno e paradiso. Una storia infinita.
In sostanza si tratta di una forma di sillogismo logico e di processo giuridico, applicato alla vita sacramentale e alla morale, di qui l’accusa di astrattismo e di giuridismo morale[18].
Reggeva, infine, l’impianto casistico-giuridicizzato della morale, anche, una certa visione della metafisica, di natura quidditativa ed essenzialistica, di matrice aristotelica, dimentica di quella ontologica e fontale, rielaborata da san Tommaso, “originale sintesi di aristotelismo e platonismo” (Fabro). Così commenta Capone: “Altri moralisti, pur accettando la casistica, desideravano la fondazione della teologia morale generale su basi metafisiche. Per questa fondazione la neoscolastica dell’ottocento aveva ripreso, in morale, le tesi di C Billuart; il quale a sua volta dipendeva da C. Wolff, leibniziano. E così si ricadeva nell’essenzialismo quidditativo della seconda scolastica e in una specie di illuminismo di carattere logico, astorico. Su questa linea si manterranno i manualisti, rendendo difficile i discorso sulla legge morale di natura e sulla verità della coscienza morale, che S. Tommaso aveva fondato sulla prudenza, come «ministra sapientiae»”[19].


3. Prospettive conciliari per un rinnovamento della Teologia Morale

Il Concilio Vaticano II, accogliendo le istanze di cambiamento, invocate da teologi, biblisti, liturgisti, dogmatici e moralisti e dallo stesso popolo di Dio, ha tracciato con chiarezza le piste su cui operare un autentico rinnovamento della vita morale, come scienza teologica e vita dei cristiani.
Nei passi conciliari, dedicati specificamente alla morale, si afferma che: “Le discipline teologiche vengano rinnovate per mezzo di un contatto più vivo col mistero di Cristo e con la storia della salvezza” (OT 16); “Si ponga speciale cura nel perfezionare la teologia morale, in modo che la sua esposizione scientifica, più nutrita della dottrina della sacra Scrittura, illustri la grandezza della vocazione dei fedeli in Cristo e il loro obbligo di apportare frutto nella carità per la vita del mondo” (OT 16); La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità. Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge che trova il suo compimento nell’amore di Dio e del prossimo” (GS 16); “Questo Concilio Vaticano dichiara che la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa […] Nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza […] Il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana (DH 2-3).
Queste proposte, per Capone, non sempre sono state adeguatamente sviluppate dalla teologia morale postconciliare. Di qui il suo impegno, di docente e di pastore, per un loro approfondimento e una capillare diffusione.


3.1. Contesti culturali e filosofici della morale cristiana

Che la teologia morale debba confrontarsi con i modelli culturali e filosofici del proprio tempo sembra un dato ormai acquisito. Non si tratta, tanto o solo, di inglobare nuove esigenze e nuove problematiche in vecchi schemi ben collaudati, sostenuti da un’improbabile (e non più proponibile) filosofia perenne, per la quale la Chiesa, in quanto tale, non sembra avere particolari competenze né essere investita di uno specifico mandato. A volte ci si deve confrontare con ripensamenti e nuove proposte, così radicali, da rendere quei modelli del tutto obsoleti e praticamente non più utilizzabili.
Così se l’ellenismo, clima culturale dominante nel quale si è diffuso e con il quale si è confrontato il cristianesimo dei primi secoli, privilegiava, influenzato dallo stoicismo e dal neoplatonismo, l’oggettività, il razionalismo cosmico, l’universale astratto e la metafisica, considerati riferimenti indispensabili al discorso morale; la cultura moderna, dal canto suo, soprattutto a partire dal Rinascimento e dal Cinquecento, ha riproposto, in ambito filosofico, il mito naturalistico e vitalistico greco-romano, in campo religioso il ritorno alle fonti bibliche ed evangeliche della fede cristiana, in campo esistenziale la centralità della persona, colta in situazione, in medias res, più attenta al sentimento e al senso morale[20], guidata dalla coscienza, poggiata sull’universale concreto e sulla circolarità ermeneutica tra conoscenza ed esperienza, e infine in campo scientifico ha proposto un nuovo modello di scienza,  fondato più sull’empiria e sul valore sperimentale della prova-provata, che su posizioni logico-deduttive o degli auctores, ecc.
La Chiesa dell’epoca, ancora intrisa di razionalismo ellenistico, influenzata dall’antimitismo ebraico e da una scienza aristotelica, più razionale che sperimentale[21], non sempre è riuscita a dialogare e a confrontarsi con i nuovi modelli culturali, spesso colti solo (e condannati) o per il loro evidente naturalismo ateo (Bruno, Telesio e Campanella) o per un ritorno, balzo all’indietro senza tradizione, alle sorgenti del cristianesimo evangelico (protestantesimo) o per un panteismo ben più radicale di quello eracliteo, stoico o plotiniano (Spinoza), o per uno sperimentalismo scientifico, considerato troppo soggettivo quando non in contrasto persino con il dato biblico, specie quello di natura “scientifica” (Galileo), perdendo così, a giudizio di molti, un’occasione storica di rinnovamento e di attenzione ai tempi, cui il Vaticano II ha cercato, in qualche modo, di porre rimedio[22]. Non è un caso, la riabilitazione proprio di Galileo avvenuta nel 1992, a quasi quattrocento anni dalla morte, grazie all’impegno e al coraggio di Giovanni Paolo II, in linea con le aperture conciliari.
In campo filosofico, dopo Kant, al primato della ragion pura o speculativa, si è preferito quello della ragion pratica, con un inatteso ritorno all’etica eudemonistica e prudenziale di Aristotele, più che alla sua metafisica. Il periodo post-moderno che stiamo (ancora confusamente) vivendo, si propone a sua volta come messa in discussione degli stessi valori dell’epoca moderna, in particolare del suo razionalismo illuministico, e si caratterizza per una diffusa consapevolezza della frammentarietà del sapere e dell’esistenza storica dell’uomo[23]: tematiche per un futuro confronto con la teologia morale. Infine il problema del senso della vita, tema scontato in contesti religiosi, è divenuto, oggi, addirittura, banco di prova e di verifica della proposta morale, e così via.

Dall’oggettivismo morale a una morale dei valori

Una lettura più diacronica che sincronica dei testi conciliari fa emergere una chiara volontà dei padri per il superamento di una teologia morale, ancora intrisa di razionalismo e oggettivismo, afferma Fumagalli[24]
Capone in un articolo su «La teologia morale, ieri, oggi», pubblicato in Presenza Pastorale nel 1971, elenca tutti i limiti storici dell’oggettivismo morale che “trasformò la prudenza in conoscenza della verità dell’atto morale concreto, come assoluta conformità con l’atto dell’uomo in sé”; alimentò il giuridismo morale, che “suppone un concetto non teologico, ma giuridistico del peccato”, così da estromettere “la prudenza dal giudizio di coscienza”; lasciò campo libero al nominalismo, che “isolò l’atto morale dalla persona morale, e nello stesso tempo, considerò positiva limitazione della libertà ogni legge, anche la legge naturale-personale”; produsse la cosificazione dell’atto morale, considerato “come «entità a sé», oggettivamente valutabile”: se “il probabilismo cosificava l’atto”, afferma Capone, “il probabiliorismo cosificava l’uomo, perché lo astraeva da persona ad essenza metafisica, integrata accidentalmente, quanto a moralità, da circostanze”; si trasformò, per reazione, in rigorismo essenzialistico, sostenuto da quei dogmatici “convinti che la caduta della morale nell’oggettivismo giuridistico-casistico sia dipesa dal distacco della morale dalla dommatica”. Inevitabile, infine, il degrado della teologia pastorale, “ramo della prudenza o della scienza ed arte prudenziale”, che finì con l’escludere il Cristo dalla vita morale del cristiano: “anche la verità di salvezza che è poi il Cristo-Pastore”. Anche la teologia pastorale, conclude Capone, “è stata essenzializzata o giuridicizzata, per essere poi sottoposta ad una pastoralità, di cui la storia ci dice che non fu la partecipazione viva del Cristo-Pastore, ma escogitazioni teoretiche e soprattutto tecniche, assai discutibili” [25].
Occorre, quindi, lasciarsi alle spalle quel dibattito tra soggettivismo e oggettivismo, che ha segnato negativamente la storia della morale cristiana[26], oggi riaccesosi attorno alla morale della situazione e ai temi della bioetica, e che rischia persino di inficiare lo stesso metodo storico-critico della moderna esegesi biblica[27].
Se, dunque, si propone di abbandonare l’oggettivismo morale non si vuole, per questo, finire nelle secche di un soggettivismo morale o di un situazionismo relativistico che, nella sua impostazione più radicale, mina alle basi la stessa possibilità di un’etica per gli uomini. Più opportunamente s’intende far riferimento a una morale dei valori, fondati sul Cristo, origine e fonte di vita morale e trasmessa al cristiano da una comunità, che, quegli stessi valori, vive e testimonia in prima persona.
In sostanza si tratta di una proposta morale che, negativamente, non si senta più obbligata a rapportarsi con l’oggettivismo etico, ritenuto elemento necessario al confronto ragione-fede; non si ponga più alla ricerca di comuni evidenze etiche, la cui perdita di percezione e di riferimento è un dato incontestabile dell’epoca moderna; non motivi il suo agire morale riferendosi a principi primi, colti per via razionale e collocati in una dimensione, anche linguistica, senza spazio e senza tempo, o a principi religiosi, a essi assimilati da un processo di enucleazione catechistica del dato rivelato, verso i quali si chiede adesione e coerenza; che, positivamente, si poggi su valori incarnati, ispirati ai vangeli e sostenuti dalla testimonianza degli apostoli e dei santi; si alimenti di una personale relazione sacramentale con il Cristo, vissuta in libertà e fedeltà[28]; trovi nel sacrario della coscienza il nucleo segreto e il centro vitale della sua vita morale; realizzi il compimento della legge nell’amore di Dio e del prossimo e, infine, si unisca agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale (cfr. GS 16).

Ritorno all’etica aristotelica eudemonistica e prudenziale

L’articolazione aristotelica della vita morale, proposta soprattutto nell’Etica a Nicomaco, utilizza termini come saggezza e prudenza, eudemonisticamente finalizzati e orientati a una felicità personale e politica (nella polis). Nella lettura che ne fa Capone, quella stessa tensione e quel finalismo eudemonistico possono essere rappresentati, nel cristianesimo, dalla carità del Cristo risorto, Kuriós del mondo, mistero dell’amore paterno di Dio, finis finium, principio e fine di tutta la vita cristiana, éskaton che anima l’opzione fondamentale per una beatitudine in Dio, sia terrena che ultraterrena. Per la vita morale del cristiano, dunque, è Cristo il nuovo principio assiologico di finalità[29]. Non è richiesto alcun previo discorso sui fondamenti ontologici dell’agire umano, succube per secoli del cosiddetto metodo delle definizioni, come ricorda Angelini[30], né un riferimento esplicito alla metafisica che, in Aristotele, ha per oggetto gli universali e le cose che sono necessariamente, e che lo stesso stagirita non pone a base della sua etica e agire morale, oggetto, invece, di una saggezza, sostenuta dalla prudenza, per sua natura rivolta a quelle cose che possono essere anche diversamente.
L’adattamento all’etica cristiana del modello aristotelico è agevolato dal fatto che anche il cristianesimo, essendo risposta e partecipazione personale a una storia di salvezza, si caratterizza più come prassi che come teoria, più orthopraxis che orthodoxia, per riprendere terminologie care al dibattito patristico. Quest’ultima, in una circolarità di natura ermeneutica, si fa, pur sempre, necessaria riflessione, che aiuta a meglio comprendere e più efficacemente vivere un dato di fede, ispirato al vangelo e incarnato in una comunità di cristiani.

Il confronto etico sul senso della vita

Nella persona del Cristo, vero uomo e vero Dio, si ha, dunque, l’unificazione in radice di etica naturale ed etica cristiana, in una dimensione che non è, solo intellettualistica e razionalistica, ma soprattutto esistenziale.
Il Cristo integra, nella sua persona, l’etica dei filosofi e della gente comune, afferma Capone, risolvendone le evidenti mille aporie e dando certezza all’uomo, a ogni uomo. Così le due forme di etica, umana e religiosa, vengono a conciliarsi, anche se non a identificarsi totalmente[31], non per riferimento a un comune supremo ordine morale oggettivo, come per stoicismo e neoplatonismo e un cristianesimo ancora influenzato dall’ellenismo, né per un’etica umana funzionale o propedeutica a quella teologica risolvendosi in essa, come già la filosofia per la teologia, come per De Finance e neotomisti; e neppure attribuendo all’etica cristiana una dimensione solo formale, mentre quella categoriale sarebbe appannaggio della morale propriamente umana, come per Fucks; bensì nel loro esito finale, ossia nell’impegno concreto, per entrambe, di indicare e testimoniare all’umanità il senso della vita e della morte e il superamento del male.
La persona del Cristo, in tale prospettiva, diventa punto di riferimento sia per il laico, in cerca di una risposta che sia “pienezza di significato per la vita” (VS 7), che per il Christifidelis, al quale viene proposto, in più, un impegnativo itinerario di fede, una dimensione soprannaturale e una maggiore consapevolezza che, unita alla forza dei sacramenti, lo rende più idoneo a un responsabile servizio di carità per il mondo, già impegno comune di tutta l’umanità.


3.2. Le peculiarità della vita morale cristiana

La teologia morale cristiana ha elaborato, fin dagli inizi, elementi originali propri, non sempre presenti con la stessa intensità e valenza in altre proposte morali, di natura laica o religiosa, a essa preesistenti o anche successive.
Nuovo è l’incipit morale cristiano: non da un’idea o da una teoria, che si fa legge e fonte di vita morale, ma dall’incontro personale ed esistenziale con il Cristo, come ricordato da Giovanni Paolo II (VS 7) e Benedetto XVI (DCE 1). Peculiare è anche il tipo d’incontro. Non tanto o non solo con una persona, la sua storia e il suo messaggio, fissati in un evento storico, ben determinato, e tramandatoci di generazione in generazione, come per Confucio, Budda o Maometto, ma con una persona, il Cristo lo stesso, ieri, oggi e sempre (cfr. Eb13,8), che il cristiano incontra in una  comunità di credenti che ne celebra la memoria nell’eucarestia e lo rende vivo e operante nei sacramenti. Un incontro di natura sacra e sacramentale, che viene a suggellare lo stretto legame tra dimensione liturgico-sacramentale e vita morale del cristiano, che ha, per Capone, il suo punto unificante proprio nel Cristo soggetto della teologia, che presiede l’azione liturgica e si fa con-soggetto della vita morale del cristiano[32].
Legata alla figura del Cristo è anche la particolare forma di personalismo morale, proposto dal cristianesimo. Infatti il personalismo che, come corrente filosofica, si è diffuso particolarmente nel XX secolo grazie ai vari Mounier, Maritain, Guardini, e gli italiani Stefanini e Rigobello[33], era già patrimonio dei Padri della Chiesa, e si scopre oggi, attraverso gli studi di Fabro[34], ripresi da Capone, che in san Tommaso si fa, personalismo cristologico e ontologico, fondato, cioè, sulla persona del Cristo, elemento di una proposta più teologica che filosofica. Dal Cristo, vero Dio e vero uomo, l’essere di persona si comunica all’uomo, per partecipazione fontale, così da renderlo persona autonoma e responsabile, e, al tempo stesso, rovesciare quella visione cosmico-sacrale del rapporto io-mondo, di matrice stoica, giunta fino alle soglie del Concilio.
Ora si comprende meglio il significato e la portata della centralità del Cristo, figlio di Dio, in missione d’amore, per conto del Padre, che è il vero novum della morale cristiana, come dottrina e come vita, superamento di una sua impostazione esclusivamente teo-logica o teonoma.

L’incontro personale con Cristo

L’incontro personale (liturgico e sacramentale) con il Cristo è, dunque, il punto di partenza per una vita morale che voglia definirsi autenticamente cristiana.
Giovanni Paolo II nella Veritatis Splendor lo evidenza in maniera straordinaria. In particolare i nn. 6-7 danno una chiave di lettura, prettamente morale, di quell’incontro: Il dialogo di Gesù con il giovane ricco, riferito nel capitolo 19 del Vangelo di san Matteo, può costituire un’utile traccia per riascoltare in modo vivo e incisivo il suo insegnamento morale (n. 6); Nel giovane, che il Vangelo di Matteo non nomina, possiamo riconoscere ogni uomo che, coscientemente o no, si avvicina a Cristo, Redentore dell’uomo, e gli pone la domanda morale. Per il giovane, prima che una domanda sulle regole da osservare, è una domanda di pienezza di significato per la vita” (n. 7), cui fa eco Benedetto XVI in Deus caritas est n. 1: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”.
Proprio per queste affermazioni andrebbe attenuata, se non abbandonata, una formazione morale che prende le mosse esclusivamente dall’esistenza di un Dio fonte di vita morale, che si traduce in regole-comandamenti, come quelli sinaitici, naturalmente rintracciabili anche nel cuore dell’uomo, da osservare in vista di una salvezza personale. Inesorabilmente, come la storia religiosa da sempre documenta, esse finiscono con il vivere di vita propria e autonoma, sclerotizzandosi e frapponendosi tra Dio e l’uomo, fino a divenire unico ed esclusivo elemento di comunicazione e di relazione, per poi degenerarsi in feticismo della legge, la cui scrupolosa osservanza viene premiata e la non osservanza peccaminosa punita, ma che ne stravolge il senso originario, quello, appunto, legato a un patto di alleanza (abramitico e mosaico), fondato sull’amore divino che si offre all’uomo.
Il rischio è di far passare in second’ordine sia la fondamentale rivelazione veterotestamentaria, di una Storia di Salvezza, che manifesta un Dio che, nonostante il peccato di Adamo ed Eva, ama ancora il suo popolo, non lo abbandona, ne ascolta il grido di dolore, invia Mosè a liberarlo dalla schiavitù, stabilisce sul monte Sinai un’alleanza, scolpita sulla pietra (Es 34,1-34), lo fa entrare in quella terra già promessa al padre Abramo (Gn 15,1-6); che l’evento e l’azione del Cristo in linea con quell’antica rivelazione, che nella pienezza dei tempi (cfr. Gal 4,4-5; Eb 9,26) si offre quale compimento di quella medesima Storia di Amore e di Salvezza (cfr. OT 16), e liberandoci dal feticismo della legge, viene a instaurare un’alleanza nuova, arricchita dalla figliolanza divina, di figli nel Figlio, così che ogni cristiano e ogni uomo possano gridare, assieme a Gesù, “Abbà, Padre” (cfr. Gal 4,1-31).
Nell’incontro personale con Gesù, “Maestro buono” (Mc 10,17), l’uomo si riconosce persona libera e responsabile e dà avvio a una sequela (Mc 10,21), vissuta in libertà e fedeltà: termini che rimandano a un rapporto di vita, che si rinnova quotidianamente, più pregnanti dei termini coerenza o obblighi morali, che sembrano voler ridurre la fedeltà a un meccanismo deduttivo di azioni e comportamenti, conseguenti a un’obbligazione assunta, per giunta da altri, come nel caso del battesimo dei bambini.
La sequela Christi, nasce dunque dall’incontro personale con il Cristo, diventa sinonimo di via di santità, è retta dall’opzione fondamentale, si nutre di sacra scrittura, si sostiene ogni giorno con la preghiera, si accresce nel confronto con la comunità dei Christifideles, si alimenta di eucarestia, e si ri-vitalizza con il sacramento della riconciliazione, qualora quell’intima unione del cristiano con il Cristo fosse messa in pericolo da cadute per disattenzione e/o fragilità umana (peccato veniale), o si ri-genera, per i padri ri-nascita, ri-battesimo, se disgraziatamente perduta e dispersa nel suo opposto, per “donazione profonda della persona a Satana”, ossia all’anti-Cristo e all’anti-persona (peccato mortale o mortifero), come afferma Capone[35], e infine si perfeziona nella carità in una storia (escatologica) di salvezza, per la vita del mondo.
La proposta conciliare di una comune vocazione di tutti i cristiani alla santità (LG 39-42) a questo mirava, oltre a lasciarsi alle spalle quel minimismo morale, fino ad allora “concesso” ai laici[36].
In alcune forme di pastorale, specie in gruppi e movimenti di recente formazione, forse per reazione a un certo lassismo morale o anche al minimismo laicale, si nota una voglia di strutturazione forte della sequela Christi, con tappe riconoscibili, scrutini e quant’altro, per misurarne progressi e ritardi. Al di là delle buone intenzioni non si tiene conto del rischio di omologazione e massificazione, quando non di fariseismo ipocrita o di formalismo morale, che una tale impostazione, così radicalmente strutturata, reca inevitabilmente con sé.
All’intera comunità ecclesiale e ai suoi pastori, in particolare, spetta il compito di invitare il cristiano, con la parenesi, l’esempio e la preghiera, a progredire nell’amore-carità del Cristo, in Dio, sotto l’influsso dello Spirito Santo, a servizio dei fratelli, sull’esempio dei santi. Al contempo, però, bisogna lasciare al Signore, nell’intimo dialogo con il credente, nel sacrario della coscienza, e specie nell’incontro profondo e sacramentale dell’eucarestia, dettare i tempi e i modi di questa crescita, senza pressioni esterne o moralismi, senza imposizione di modelli codificati di vita cristiana o strutturazioni forti e soprattutto senza forzature veritative, come auspicava sant’Alfonso, qualora l’ignoranza si mostrasse davvero invincibile. In tale prospettiva anche certe forme di proselitismo religioso andrebbero ridimensionate, nei modi e nei toni, specie a livello personale, laddove il rischio di manipolazione o di plagio è comunque in agguato, nel rispetto di quella dignità della coscienza personale, che va correttamente educata, ma che deve essere sempre seguita, anche se in errore (cfr. DH 2-3).
è, in fondo, una scommessa o un rischio, che pochi pastori in cura d’anime, direttori spirituali o catechisti, sembrano disposti a correre, adagiati su di un facile dirigismo morale, dagli immediati riscontri, e che utilizza, in senso ideologico, i concetti d’ideali, principi religiosi e coerenza, quando gli stessi non sono veicolati da un generico e impersonale “si deve”, “è obbligatorio”, “si fa”, troppo simile a un imperativo categorico kantiano o condizionati da un imperativo ipotetico, in vista di un premio-ricompensa, in ogni caso vistosamente segnati da una debole relazione personale con il Cristo che, nella vita quotidiana, si offre come maestro buono, compagno di strada e fonte attuale di moralità e di santità.

La vita di unione sacramentale con il Cristo

Si comprende ora perché la vita morale del cristiano debba essere, necessariamente e prima di tutto, vita di unione sacramentale con Cristo, celebrata in una comunità cristiana di credenti e testimoni, sub afflato Spiritus Sancti, così che la relazione con il Cristo non si risolva in mero rapporto intellettual-cognitivo o anche solo in un ideale riferimento di vita: incontri con il Cristo pur sempre possibili e forieri di salvezza eterna se vissuti e finalizzati nel servizio di carità, anche se non pienamente in linea con il dato evangelico, così come riconosciuto e vissuto nella Chiesa Cattolica[37].
L’unione sacramentale è, dunque, la base e lo strumento fondamentale voluto dal Cristo, perché si realizzi quel processo simbiotico e sacrale, di totale convivenza del cristiano con il Cristo (cfr. Gv 6,54-56), elemento dinamico di una morale Cristo-logica, fondata sul battesimo e sostenuta dagli altri sacramenti, che fa sì che la persona si riscopra soggetto responsabile del proprio agire morale (di qui il richiamo alla libertà e alla fedeltà come categorie fondamentali del vivere morale cristiano), e viva, senza perdersi, nel con-soggetto che è il Cristo.
Quindi la dimensione ecclesiale, liturgica e sacramentale si fa necessaria per il cristiano, affinché la vita morale raggiunga la sua pienezza e validità (cfr. SC 9-10). Il che espresso in maniera più incisiva, si può tradurre nella duplice affermazione che: senza dimensione ecclesiale e senza vita liturgico-sacramentale, “fonte e culmine della vita cristiana” (SC 10), non si dà, in alcun modo, autentica vita morale cristiana; e, specularmente, senza dimensione morale, che si concretizzi e si finalizzi, dopo l’incontro sacro-sacramentale con il Cristo, nel “portare frutti di carità per la vita del mondo” (OT 16), la vita di comunità e quella liturgico-sacramentale perdono il loro senso specificamente cristiano.

Visione personalistica della morale     

Il concetto di persona, si sa, è frutto originale dell’elaborazione teologica sulla Trinità, operata dai Padri della Chiesa nei primi secoli del cristianesimo, anche se non sviluppata in un’autonoma corrente filosofica.
Fin dai tempi di Boezio, tale concetto aveva trovato una convincente sistematizzazione epistemologica, che definiva in maniera nuova l’uomo-persona-interpersona, rispetto all’uomo-individuo della tradizione classica, ma che pur viveva, a livello di polis e di agorà, di un’intensa relazione sociale e politica, in vista della felicità personale e del bene comune della stessa polis. Per Tommaso l’uomo, creato a immagine di Dio, è per ciò stesso persona: l’individuo particolare si trova in un modo ancora più speciale e più perfetto nelle sostanze razionali, che hanno il dominio dei propri atti e che si muovono da se stesse, non già spinte dall’esterno come gli altri esseri. Mentre la dimensione relazionale, insita nel concetto di persona, è mutuata, analogice e pro suppositio, non autem per essentiam, dalle relazioni, sussistenti e sostanziali, delle tre persone divine (cfr. Summa Theologiae, parte I, q. 29). Solo in Cristo, dunque, ogni uomo è veramente persona, in quanto creato a immagine di Dio, in Cristo-persona, conclude Capone[38].
Un’impostazione, questa, che trasforma radicalmente la tradizionale morale Teo-logica, con venature stoiche e neoplatoniche mai del tutto neutralizzate, in morale Cristo-logica o Teo-Cristo-centrica, innervata dalla dimensione personale, che dal Cristo, vero uomo e vero Dio, si comunica all’uomo nella creazione rendendolo persona, nella redenzione donandogli la sua figliolanza divina e la sua grazia, fonte di gioia e compimento di felicità, e nella storia (escatologica) offrendogli di cooperare da redento al suo progetto di salvezza del mondo, per l’edificazione, già sulla terra, del regno di Dio.
Non poche le conseguenze per la vita morale. Se l’uomo è persona in Cristo, gli va riconosciuto il suo fondamentale essere volontà cosciente e libera, e soggetto responsabile di moralità, padrone dei propri atti (“non più atti della persona ma più propriamente persona in atto[39], ricorda Capone), una delle esigenze della cultura moderna e riferimento per ogni discorso che, oggi, voglia dirsi morale. L’impostazione personalistica della morale impone anche il rovesciamento della tradizionale visione sacrale, stoica e medioevale, del mondo. Il primum non è né la ragione né l’intellettualismo, ma l’essere dell’uomo creato a immagine di Dio, apice della creazione, che rovescia l’albero porfiriano, cambiandone senso e orientamento. Il mondo non è sacro per sé, non è di per sé gloria di Dio e l’uomo non è una parte di quest’universo, sia pure la più alta e la più intelligente, pur sempre sottomesso a un ingranaggio di leggi oggettive e universali, che lo sovrastano. Al contrario è il cosmo, che, nella lettura paolina, geme e attende con ansia la manifestazione dei figli di Dio (cfr. Rm 8,18-25), a diventare gloria di Dio perché, preso dall’uomo-persona, nell’intensità di persona e nell’intenzionalità individualmente retta, come ricordava Capone[40]. L’homo vivens gloria Dei, secondo la nota espressione di Ireneo (e del Sal 8, ripreso da Eb 2,6-8) riflette la gloria di Dio sul mondo e lo governa, partecipando al governo e alla provvidenza di Dio, con la sua saggezza, per partecipazione fontale.

Centralità e missione del Cristo

In questa visione, la centralità e la figura del Cristo si articolano in una maniera molto diversa da come proposto dalla teologia dei manuali. Essa, afferma Capone, aveva ridotto Dio in deità, e non potendo ridurre Cristo in cristicità, l’aveva relegato a elemento devozionale, escludendolo, di fatto, dalla morale e dal soggetto della teologia[41].
Per Capone, dunque, il Cristo dei vangeli non si fa rivelatore di un Dio, intelligenza suprema, architetto e legislatore del mondo, come sostenuto dagli scolastici, influenzati dall’intellettualismo greco e dallo stoicismo romano, che leggevano la stessa creazione dell’uomo, imago Dei, più nell’impostazione porfiriana, di nous, mente, intelletto, utile per distinguerlo dal regno animale e vegetale, non certo sufficiente per porlo in relazione, in quanto persona, con l’essere proprio di Dio-persona-Trinità[42].
La sua missione non consiste nel restaurare, attraverso un sacrificio riparatore dovuto, un ordine morale, universale e oggettivo, messo già in crisi dalla disobbedienza dei nostri progenitori, del quale Dio sarebbe stato custode, giudice e vindex, come sostenuto nel De ordine morali, quel documento preparatorio, sui temi della morale, non accolto dai padri conciliari[43].
Nella testimonianza viva degli apostoli, il Cristo si fa, invece, rivelazione dell’essenza amorosa di Dio e della sua dimensione trinitaria; svela la sua missione di Figlio, mandato sulla terra, quale messaggero dell’amore del Padre, con il compito di ricomporre e re-instaurare l’originario amore infranto dal peccato di Adamo ed Eva, riprendendo quel progetto originario della buona volontà di Dio per gli uomini; attraverso un sacrificio redentore-riparatore, la sua morte in croce, imperscrutabile mysterium salutis, scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani (1 Cor 1,23), che ha sortito l’effetto straordinario di redimerci dal peccato originale e renderci fratelli di Gesù Cristo e in questo figli nel Figlio; per un’alleanza definitiva, totalmente nuova nella sua dimensione partecipativa, ora da figli, alla vita trinitaria e caratterizzata da un unico comandamento, quello dell’amore-caritas, da figli, verso Dio e verso il prossimo, quest’ultimo in una prospettiva ben più universalistica di quella ebraica.
Infine il Cristo perfeziona la sua opera di salvezza con l’invio dello Spirito Santo, Spirito dell’amore e paraclito per la vita dei cristiani, nuovo popolo di Dio (cfr. LG n.4).
Capone, sostenuto dagli studi di Schlier e di Schnackenburg, sembra volersi spingere anche oltre[44]. Nella visione paolina e giovannea del “per Cristo, con Cristo e in Cristo”, nel quale tutto si genera, tutto si ricapitola e tutto si re-instaura, si riconosce in Cristo sia l’immagine fondamentale, il proto-tipo di ogni uomo, creato a immagine di Dio in Cristo-persona, che il fondatore originario di una vita morale, che propone un processo di personificazione (“del Cristo in noi e di noi nel Cristo”)[45], e una nuova soggettività e con-soggettività morale, che dà senso teologico e spessore ontologico al nostro essere-di-persona.


3.3. Dimensione escatologica e universalistica della morale cristiana

La proposta della morale cristiana si realizza compiutamente nella sua dimensione escatologica che impone ai credenti un leale impegno di servizio e di collaborazione con tutti gli uomini, per la costruzione, sulla terra, dell’unico regno di Dio, e nella sua prospettiva universalistica.
Il vero peccato grave rimane quello contro la carità: evangelicamente identificato, non solo nel fare del male al prossimo, peccato riconosciuto da tutte le religioni, ma anche in senso veramente innovativo nel non prestare aiuto al fratello che vedi soffrire (cfr 1 Gv 4,20-21), a cui Dio tende sempre l’orecchio e nel quale è viva l’immagine di Cristo.
Gli esempi evangelici, in particolare quello del Ricco Epulone, del Buon Samaritano e del Giudizio Universale non fanno che confermarlo.

La dimensione escatologica

La dimensione escatologica della vita morale, libera da imperativi categorici e ipotetici, sostituiti dalla sequela Christi (cfr. Mt 10,17-30), si traduce in una concreta e leale partecipazione da redenti alla costruzione della città degli uomini, per “trasformare la successione dei secoli in storia di liberazione del mondo”, “alla luce della risurrezione del Cristo e della sua parusia”, come ricorda Capone[46]. Solo così la grandezza della vocazione dei fedeli in Cristo si potrà finalmente manifestare a tutti, e portare frutti di carità per la vita del mondo, come esplicitamente richiesto dal Concilio, in tanti suoi documenti.
Non più, quindi, un’escatologia da affiancare ad altri settori del sistema teologico cristiano: scrittura, dogmatica, morale, liturgia, spiritualità, pastorale, ecc., che un insegnamento a trattati, impartito specie nei seminari e anche negli Istituti Superiori di Scienze Religiose (ISSR) ha reso compartimenti stagno, né multidisciplinari né interdisciplinari e totalmente autoreferenziali, con ricadute negative nella vita pastorale. In non poche realtà diocesane i tre munera (catechesi, liturgia, carità) sono diventati tre uffici di curia a se stanti, spesso neppure comunicanti tra loro, né orientati a una pastorale unitaria centrata sulla persona e sul suo rapporto con il mondo, come richiesto dall’ultimo convegno della Chiesa Italiana, a Verona nel 2006[47].
La dimensione escatologica, che pone la persona al centro per la realizzazione del regno di Dio, è, per Capone, il coronamento della vita morale del cristiano, onniavvolgente l’intero sistema, presente e operante in tutti i suoi ambiti. In una parola è la dimensione stessa e attuale dell’essere e del vivere morale cristiano[48].

Una morale per tutti gli uomini di buona volontà
           
Afferma LG 13 che “tutti gli uomini sono chiamati a formare il popolo di Dio”, mentre OT 16 impegna il cristiano per un servizio di carità per la vita del mondo, ma la salvezza cristiana, conseguenza dell’unico sacrificio redentore del Cristo, è offerta a tutti gli uomini di buona volontà[49], con o senza adesione formale a Cristo e alla Chiesa, perché ogni gesto d’amore, fatto ai più piccoli e indifesi, fosse anche quello minimale di un bicchiere d’acqua dato a un assetato, viva immagine di un Cristo non riconosciuto (cfr. Mc 9,41), è fatto al Cristo stesso ed è fonte di salvezza (cfr. Mt 25,45).
I vangeli ne danno un’ampia testimonianza: dal buon samaritano (cfr. Lc 10,25-37), che pur vivendo ai margini della comunità ebraica ortodossa a causa della sua dottrina incerta e approssimativa, si mostra ricco di umanità e di carità facendosi prossimo al malcapitato, mentre il levita e il sacerdote, esperti in religione, evitano persino un contatto che li renderebbe ritualmente impuri, passando dall’altra parte; al semplice gesto di misericordia verso il Cristo sofferente in croce, da parte del buon ladrone, premiato all’istante con la promessa del paradiso (cfr. Lc 23,39-43); per finire con il racconto del giudizio universale (cfr. Mt 25,31-45), nel quale si offre la vita eterna a coloro che hanno saputo accogliere Cristo nei poveri e negli ultimi, senza averlo mai conosciuto prima, e si condannano gli altri che, pur conoscendolo, non si sono schierati dalla parte dei diseredati e degli oppressi. 

Il peccato grave contro la carità: il caso del ricco epulone

In quasi tutte le religioni, generalmente, con il termine di peccato o di colpa grave, con pesanti conseguenze in una vita ultraterrena, s’indica il male volutamente fatto agli altri, dall’offesa, all’oppressione, all’ingiustizia ecc. Nei vangeli il termine definisce sia il male fatto al prossimo, in pensieri, parole e opere, che il bene non fatto, il cosiddetto peccato di omissione, la cui gravità è connessa alla mancanza di carità e alla sofferenza dei fratelli.
Purtroppo certo manualismo e giuridismo morale hanno minimizzato, a volte, i peccati d’omissione, considerandoli alla stregua di colpe veniali, per distrazione o disattenzione, privi, cioè, della piena avvertenza e deliberato consenso, anche se in presenza di ”oggettiva materia grave”[50].
Il racconto del ricco epulone (cfr. Lc 16,19-31), che porta alle estreme conseguenze quanto già affermato nei brani del buon samaritano e del giudizio finale, sembra volersi muovere in un’altra prospettiva e con una logica morale meno giuridistica.
Non sono pochi gli elementi nel racconto volutamente posti in forte contrasto. Il povero Lazzaro, per il solo fatto di essere mendicante e coperto di piaghe, alla sua morte, è portato dagli angeli nel seno di Abramo, premiato senza aver fatto, apparentemente, nulla per meritarselo, mentre il ricco è condannato all’inferno, per la sola colpa di non essersi preso cura di Lazzaro, occupato, com’era, a godersi il frutto delle sue ricchezze, tra l’altro onestamente guadagnate. La situazione di povertà del mendicante non è attribuita al ricco epulone, né è conseguenza di azioni malvage da lui compiute nei suoi confronti. Non si dice, neanche, che egli abbia mai offeso o maltrattato Lazzaro, incrociandolo davanti la porta di casa. Infine nessuno dei tradizionali comandamenti sinaitici, “non fare”, “non dire”, “non commettere”, “non desiderare”, imponeva, di per sé, al ricco epulone l’obbligo di aiutare il povero Lazzaro, anche se la legge fondamentale dell’ebraismo, dell’amore per Dio e per il prossimo (cfr. Dt 6,4-5), ricordata dallo scriba (cfr. Lc 10,27), imponeva al pio ebreo di mostrare pietà e compassione, almeno verso i membri del proprio popolo[51] (“un’amore verso Dio e verso il prossimo” non ancora nel senso pienamente universalistico proposto dai vangeli[52]).
Il suo unico grave peccato, dunque, agli occhi del vangelo, rimane quello di non aver aiutato un fratello in difficoltà: non un semplice peccato di omissione, ma una colpa così grave da meritargli la stessa punizione riservata a chi, di proposito, fa del male al prossimo, ossia l’inferno.

Conclusione

Nessuno, penso, può ignorare o sottovalutare l’attuale crisi sociale, culturale e morale, che stiamo attraversando, che sembra andare ben al di là delle stesse sfide del XX secolo.
Il dibattito (culturale e filosofico) di questi anni, ha fissato alcuni punti di non ritorno: il riconoscimento del valore ontologico insito nell’esperienza e in particolare nell’esperienza morale; la centralità di una persana umana, libera e responsabile, capace, cioè, di atti coscienti, volontari, liberi e interpersonali, elemento indispensabile per la validità dell’agire morale; e l’ineludibilità della domanda di senso, che interpella l’intera umanità, divenendo elemento di discrimine e di verifica delle varie posizioni filosofiche, religiose e culturali. 
Attardarsi nella difesa della morale preconciliare, oggi può essere una tentazione da parte della comunità cristiana e dei suoi pastori, se non una colpa grave, come ammoniva Capone, e come tale va vissuta e superata[53].
Il rinnovamento della teologia morale è stato espressamente voluto dal Concilio Vaticano II, che ne ha, anche, indicato gli elementi costitutivi: la centralità del Cristo per la vita del cristiano e perno e riferimento di tutta la storia della salvezza; la grandezza della vocazione cristiana, con l’obbligo di apportare frutti di carità per la vita del mondo (OT 16); l’attenzione al sacrario della coscienza, cuore pulsante della vita morale cristiana, nel quale si realizza l’incontro amoroso tra Dio e l’uomo, fonte di decisione morale (GS 16); e infine la libertà religiosa che si poggia sulla libertà di coscienza, e che ogni uomo è tenuto a seguire (anche se in errore), e nessuno può, dall’esterno, violare (DH 2-3).
Capone, vivace interprete di quel periodo storico, così fecondo per la Chiesa cattolica, ha composto una sua personalissima sintesi di teologia morale, attenta al dato conciliare e alle istanze del nostro tempo, intesa come superamento delle varie forme di manualismo, casismo, giuridismo morale e quidditativismo essenzialistico, dominanti la teologia fino alle soglie del Vaticano II. Arricchiscono la proposta: un personalismo cristologico, ripreso da s. Tommaso, che ha il suo costitutivo ontologico-fontale nel Cristo, proto-uomo, sulla cui immagine ogni uomo è stato creato, ed esistenziale che si realizza nell’incontro personale con il Cristo, e che fa sì che l’uomo si riconosca come persona, capace di autonomia e libertà decisionale; l’opzione fondamentale, da verificare e rinnovare costantemente, sostiene la sequela Christi, in cammino di santità, da vivere in libertà e fedeltà; la vita di unione sacramentale con il Cristo, nella quale soggetto e con-soggetto si riconoscono reciprocamente e si ritrovano; la preghiera, personale e liturgica, fonte primaria di decisione morale; il legame-confronto con una comunità di cristiani, essa stessa, sacramento di salvezza; la dimensione escatologica, tesa a portare frutti di carità per la vita del mondo e l’apertura universalistica a tutti gli uomini di buona volontà, per una vita morale orientata più al servizio di carità verso tutti gli uomini che all’auto-perfezionamento, ecc.
Quando si scrive “un’altra proposta morale è possibile”, questo s’intende.



[1] F. Parisi, «Il valore della virtù della prudenza in Domenico Capone», in Studia Moralia (StMo) 47 (2009) 99-126; Id., «Dal valore di finalità alla fondazione cristologia della morale. L’itinerario di Domenico Capone», in StMo 48 (2010) 71-99; Id., «Casistica e manualismo: un dibattito ancora attuale? La posizione di D. Capone», in Rivista di Scienze Religiose, 2 (2011) 407-434; Id., «Il Rinnovamento della Teologia Morale in Domenico Capone», in Quis ut Deus, 5 (2011) 87-115; Id., «Essere persona in Cristo: personalismo e teologia morale in D. Capone», in StMo, 50 (2012) 115-144; Id., «Valore e significato della coscienza cristiana. La posizione di D. Capone», in Rivista di Scienze Religiose 26 (2012) 1-34; Id., Il dibattito conciliare attorno al tema della coscienza morale nella rilettura di D. Capone, in L. Lotti (a cura di), Solus amor hic me tenet. Scritti in onore di Salvatore Palese, VivereIn, Roma-Monopoli 2013, 227-249; F. Parisi, Crisi e rinnovamento della teologia morale. La lettura di Domenico Capone, Dehoniane, Bologna 2013. Alcune parti di quest’articolo, qui ampiamente rimaneggiate, sono presenti anche in Ivi, 229-241.
[2] Domenico Capone nasce a Siracusa il 3 maggio 1907. Compie i suoi studi di Filosofia presso la Gregoriana di Roma e presso L’Institut Catholique e la Sorbona di Parigi. Dal 1957 al 1985 è docente di Teologia Morale presso l’Accademia Alfonsiana di Roma. Muore il 23 giugno 1995. Per una completa bibliografia su Capone, M. Nalepa - T. Kennedy (a cura di), La coscienza morale oggi. Omaggio al prof. Domenico Capone, Edacalf, Roma 1987, 15-22; su D. Capone: C. Nappo, La decisione: culmine della moralità personale. Indagine in alcuni autori italiani, Napoli 1996; M. Doldi, Fondamenti cristologici della morale in alcuni autori italiani. Bilancio e prospettive. LEV, Roma 2000; A. Niemira Religiosità e Moralità. Vita morale come realizzazione della fondazione cristica dell’uomo secondo B. Häring e D. Capone, Ed. PUG, Roma 2003; M. Perchinunno, La dimensione pneumatologica della vita cristiana nei manuali italiani di teologia morale, (1970-1990), Morlacchi Ed., Perugia 2003.

[3] Non è raro, infatti, trovare nei confessionali di certi santuari o in internet alla voce esame di coscienza o sacramento della confessione, materiali o brochure con riferimenti ai soli comandamenti, mentre circolano persino riedizioni del catechismo di san Pio X, giudicato di più facile memorizzazione per bambini e ragazzi. Di contro si assiste a un altissimo numero di abbandoni della pratica religiosa, attorno all’80-90%, proprio dopo il sacramento della cresima, che dovrebbe sancire la fine dell’iniziazione cristiana e l’ingresso a pieno titolo nella comunità degli adulti. I gruppi di post-cresima, tesi a recuperare, per qualche anno ancora, la restante parte, sono per lo più lodevoli palliativi, certo non efficaci cure per tanta emorragia. In sostanza, sembra che, in quasi sette anni di catechismo, e forse anche più, se si contano quelli che vanno dal battesimo alla prima confessione, le nuove generazioni di cristiani non riescano ad appassionarsi-innamorarsi di un Cristo, Maestro buono, che può dare senso e significato a un’intera esistenza, a vivere una dimensione liturgica e sacramentale, non ridotta a ritualismo o devozionismo, e a percepire la vita di carità come servizio per la vita del mondo.
[4] Benedetto XVI, Lettera Apostolica in forma di Motu Proprio Porta fidei, con la quale si indice l’Anno della Fede, 11 ottobre 2011, n. 2.
[5] Cfr. D. Capone, Introduzione alla teologia morale, EDB, Bologna 1972, 35-36.
[6] R. Crippa, Problemi e momenti di filosofia e di vita morale, Morcelliana, Brescia 1977, 65.
[7] Cfr. D. Capone, Teologia morale e storicità della persona, la storicità è incontro di ontologia e di economia del mistero pasquale del Cristo, in Fondamenti biblici della teologia morale. Atti della XXII settimana Biblica, Paideia, Brescia 1973, 46.
[8] A tal proposito così si esprimeva Crippa: “Il tema di fondo nostro sul valore dell’esperienza morale è di come sia dia, perché si dia valore. Se dobbiamo ancora e sempre ritenere che il valore si misuri dal fine e sulla norma, oppure se si può e si deve guardare direttamente all’operare; o, se si vuole formulare al quesitone in altri termini, se ci sia valore dell’esperienza morale perché c’è valore dell’essere o del pensiero in quanto tale, oppure se quella validità che cerchiamo è acquisibile dall’interno. In sostanza la nostra ricerca è etica perché ontologica; né crediamo comporti il rimandare a un dire sull’essere in quanto tale, ma che sia legittima e manifesti proprio la sua forza ontologica in quanto nessuna altra forma – e qui ci potrebbe sorreggere ancora la lezione spinoziana – ha eguale capacità di reale. […] Il punto non è di guardare precettisticamente l’esperienza morale e neppure formalisticamente, ma di considerarla soprattutto come privilegiata in quanto nessun’altra è in condizione di impedire inconsistenza di atto e di soggetto, proprio perché esperienza della dimensione umana nella sua autenticità. […] Quello che si vuole sottolineare è che l’essere che si intende indicare attraverso l’esperienza morale è un essere che fa tutt’uno con questa, è inscindibile dalla colorazione che vi assume” (R. Crippa, Problemi e momenti di filosofia e di vita morale, 65-68). In tale prospettiva la “scoperta dell’essere nella coscienza” non avviene “attraverso l’antico tema della norma iscritta nella natura dell’uomo (contro la quale vale sempre la precisa critica lockiana all’innatismo) ma attraverso una precipitazione ontologica che la coscienza non può non verificare nell’esperienza morale” (Ivi, 67).
[9] Dice Berti: “L’espressione “filosofia pratica” compare per la prima volta in Aristotele, nemmeno in forma del tutto esplicita, là dove, per definire la metafisica, cioè la filosofia prima, come scienza della verità, egli afferma: “giusto anche chiamare la filosofia (philosophian) scienza della verità, poiché di quella teoretica (theôrêtikês) è fine l’opera (ergon); se anche, infatti, i (filosofi) pratici indagano come stanno le cose, essi non considerano la causa per sé ma in relazione a qualcosa ed ora” (Metafisica II, 1.993 b 19-23)” (E. Berti, Filosofia pratica, Guida, Napoli 2004, 5). Anche in teologia si ha la proposta di una Teologia Pratica (distinta dalla tradizionale Teologia pastorale), intesa specificamente come teoria critica della prassi religiosa e cristiana nel suo evolversi storico (cfr. M. Midali, Teologia pratica, 2 voll., Las, Roma 20003; B. Seveso, La pratica della fede. Teologia pastorale nel tempo della Chiesa, Glossa, Milano 2010). 
[10] Cfr. R. Buttiglione, Il pensiero di Karol Wojtyla, Jaca Book, Milano 1982, 97.
[11] Cfr. T. S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1999; P. Corbetta, La ricerca sociale. Metodologie e tecniche, 4 voll., Mulino, Bologna 2003.
[12] Cfr. U. Fabietti, Storia dell’Antropologia, Zanichelli, Bologna 20013; Id., Elementi di antropologia culturale, Mondadori, Milano 2004.
[13] Afferma Pagano che “v’è una prima nozione di universalità, che la intende come la proprietà attribuita a un concetto, a una tesi o a una norma, di valore senza eccezione per tutti i casi che si possono presentare, prescindendo dalle differenze specifiche”. Mentre “v’è anche una seconda nozione di universalità, legata all’esigenza che ognuno ha di comunicare in linea di principio con tutti, che intende l’universalità come orizzonte entro cui si svolge la comunicazione e più specificamente come una meta da raggiungere, una meta che non è ancora compiutamente data ma che opera come telos della comunicazione del confronto” (M. Pagano, Pluralità e universalità del dibattito interreligioso, in P. Coda – G. Lingua (a cura di), Esperienza e libertà, Città Nuova, Roma 2000, 82).
[14] D. Capone, «La teologia morale in Italia, oggi», in Presenza Pastorale, 41 (1971) 16. La reazione, dopo il Concilio, annota Capone, non sempre è stata uniforme: alcuni teologi si sono dati alla riflessione e, quindi, a un coraggioso e autocritico ripensamento, altri si sono arroccati alla loro mentalità casistica e inerte, cercando con molti mezzi di imporre tale loro inerzia come fedeltà alla tradizione ecclesiale: “se qualcosa deve cambiarsi, dicono, si tratta di ritocchi marginali, distribuendo nei vari trattati il «materiale» dato dal concilio” (ivi). Allora si vedono “eresie e apostasie là dove non sono”, e semmai si sorvola sui “pericoli contro la fede, là dove si annidano”. “Il radicalismo che vede dappertutto eresie o che fa credere che più si è conservatori e più si è ortodossi nella fede, può essere peccato contro la fede (D. Capone, Introduzione alla Teologia morale, EDB, Bologna 1972, 33).
[15] Cfr. D. Capone, «Il compito del confessore. Compito di carità in Cristo. Riflessioni pastorali, con s. Alfonso M. de’ Liguori», in Seminarium 13 (1974) 779-783.
[16] D. Capone, La norma morale, corso ciclostilato (cc), Roma 1980, 20
[17] In supporto alla casistica, differenti scuole teologiche hanno prodotto nei secoli un ventaglio impressionante di sistemi morali (probabilismo e probabiliorismo, equiprobabilismo e rigorismo), che avrebbero dovuto agevolare in dubiis la formazione del giudizio di coscienza, nella pratica in continuo e aspro contrasto tra i vari sostenitori dell’una o dell’altra teoria, con il risultato di complicare la vita morale del cristiano più che semplificarla (cfr. D. Capone, Sistemi morali, in Nuovo Dizionario Enciclopedico di Teologia Morale, Ed. Paoline, Roma 1990, 1246-1254).
[18] Il problema per Capone va posto in termini, che non siano quelli di una scontata e forse inutile contrapposizione fra diritto e morale, ma semmai quella di una specificità della morale nei confronti del diritto: “Non si nega”, conclude, “che, mentre siamo sulla terra, la chiesa pur essendo comunione-comunità, animata dalla carità, ha istanze di tipo societario, le quali devono essere tradotte in diritto; ma se la morale ha come principio fondamentale normativo la carità, si domanda se il diritto debba “normare” la morale o se non piuttosto la morale “moralizzare” il diritto” (D. Capone, Introduzione alla teologia morale, cc, Roma 1976, 78; cfr. G. Piana (a cura di), Ordine morale e ordine giuridico. Rapporto e distinzione tra diritto e morale. Atti del X congresso nazionale dei teologi moralisti, EDB, Bologna 1985).
[19] D. Capone, «Per un manuale di teologia morale. Riflessioni», in Seminarium 16 (1976) 462.
[20] Cfr. H. Reiner, Etica, Teoria e storia, Armando, Roma 1971, 154-157.
[21] “Parallelamente all’ostilità della teologia cristiana nei confronti dei miti, già nei primi secoli cristiani, si osserva come, per legittimare la fede cristiana, si ricorre alla filosofia greca e alla sua pronunciata razionalità. Il tratto antimitico fondamentale dell’Antico Testamento e l’illuminismo razionale del mondo greco, strinsero così nel cristianesimo una singolare alleanza, che dopo grandi successi iniziali doveva ritorcersi sempre più contro le dottrine autentiche del cristianesimo” (E. Drewermann, Psiconalisi e teologia morale, Queriniana, Brescia 1996, 10).
[22] La condanna del Modernismo, “sintesi di tutte le eresie”, da parte di Pio X nel 1907, è solo un altro esempio, ultimo in ordine di tempo, della difficoltà di dialogo tra un consolidato cristianesimo, la cui epoca patristica termina con il XIII secolo, e i nuovi contesti culturali e filosofici emersi nel frattempo ed esplosi in epoca moderna.
[23] Cfr. G. Mura, «Dal moderno al postmoderno: sfide e prospettive», in Aquinas 46 (1998/3), 553-582.
[24] Fa notare Fumagalli che se una lettura sincronica evidenzia tutta l’”ambiguità” e il “carattere di velato compromesso” della scelta compiuta dai padri conciliari, “una lettura diacronica del testo mette in chiara luce il progresso conciliare nella concezione della coscienza morale, dovuto al recupero della dimensione relazionale che, dopo il concilio di Trento, era stata inibita a fronte del rilievo assegnato alla dimensione funzionale e ancor più restrittivamente normativa” (A. Fumagalli, L’eco dello Spirito. Teologia della coscienza morale, Queriniana, Brescia 2012, 283).
[25] Cfr. D. Capone, «La teologia morale, ieri, oggi», 542-543.
[26] Cfr. D. Capone, Teologia morale e storicità della persona: la storicità è incontro di ontologia e di economia del mistero pasquale del Cristo, in Fondamenti biblici della teologia morale (Atti della XXII Settimana Biblica), Paideia, Brescia 1973, 53-54.  Afferma ancora Fumagalli che “nei testi del concilio Vaticano II, emblematicamente in quello più rappresentativo di GS 16, traspare una duplice visione della coscienza. L’una, proveniente dall’eredità della teologia morale casistica, la concepisce in funzione della legge divina, quale infrastruttura umana per applicarne i principi alle singole azioni. L’altra, emergente al concilio sulla scorta delle previe istanze di rinnovamento, concepisce invece la coscienza in relazione a Dio, quale frutto dell’intimità tra lui e l’uomo. Nella prima concezione la coscienza è una dotazione dell’uomo per praticare la legge di Dio; nella seconda concezione, invece, è l’espressione del dialogo con Dio. La prima concezione è accentuatamente legalista; la seconda decisamente più personalista” (A. Fumagalli, L’eco dello Spirito. Teologia della coscienza morale, Queriniana, Brescia 2012, 282).
[27] Così Drewermann: anche il metodo storico-critico, utilizzato diffusamente nell’esegesi moderna, rischia di essere vittima dello stesso pensiero razionalistico del XX secolo quando considera “storicamente reale, dell’umanità  e della sua storia, soltanto il mondo dei fatti oggettivi”, trascurando sentimenti, psiche e realtà interiori. Così “concentrandosi sulla ‘parola’, non è in grado di far ‘parlare’ con un adeguato linguaggio verbale e non verbale il mondo delle immagini, e dei sogni, al quale ogni parola autenticamente religiosa deve la sua origine” (E. Drewermann, Psicologia del profondo e esegesi. 1. sogno, mito, fiaba, saga e leggenda, Queriniana, Brescia 1996, 8).
[28] Cfr. B. Häring, Liberi e fedeli in Cristo. Teologia morale per preti e laici, 3 voll., San Paolo Edizioni, Roma 1978-1981.
[29] Cfr. D. Capone, Introduzione alla teologia morale, cc, Roma 1976, 282-284.
[30] In campo morale si andava dalla realtà fisica a quella morale, dalla definizione della natura dell’uomo, dell’uomo in sé, dalla struttura dei suoi atti e dal meccanismo delle sue abitudini, per poi procedere, per via astrattiva alla determinazione dei valori e delle norme connesse. Definito l’uomo, nella sua realtà ideale o strutturale astratta, non si doveva far altro, nella pratica morale, che assomigliare sempre più all’ideale, così concepito e descritto. Le leggi e le norme erano strumenti pensati per la realizzazione e il raggiungimento sicuro di questo ideale (cfr. G. Angelini, Teologia morale fondamentale, Glossa, Milano 1999, 138).
[31] “Non si tratta di due proposte di etica”, afferma Capone, “ma di due espressioni, per sapere quale delle due risponde alla realtà esistenziale: l’etica che, prescindendo dalla dottrina e presenza del Cristo, deduce le norme del comportamento dalla fenomenologia morale esistenziale, dalle concezioni filosofiche, dalla definizione scolastica dell’uomo, come animal-razionale, oppure l’etica cristiana che nella proposta e presenza del Cristo integra l’etica dei filosofi, o meglio della gente comune e ne risolve le mille aporie, e così dà certezza all’uomo, ad ogni uomo? L’etica se vuol essere proposta di umanesimo integrale, senza residui, non può non essere e non dirsi cristiana” (D. Capone, Etica o etica cristiana?, cc, Roma 1973, 7).
[32] Cfr. D. Capone, Introduzione alla Teologia Morale, 128-129.
[33] Cfr. V. Possenti, Il principio persona, Armando, Roma 2006; A. Milano, Persona in teologia, Dehoniane, Napoli 1984.
[34] C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso d’Aquino, SEI, Torino 1950, oggi in Opere complete (Oc), vol. 3, Edivi, Segni 2005; Id., Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso d’Aquino, SEI, Torino 1960, oggi in Oc, vol. 19, Edivi, Segni 2010.
[35] Cfr. D. Capone, «La teologia morale, ieri, oggi», in Presenza Pastorale 41 (1971) 545.
[36] Nell’impostazione preconciliare, ricorda Capone, il laico era considerato come un cristiano di serie B, uno che non avendo avuto il coraggio o la forza di seguire i consigli evangelici, si dava alle cure secolari, e tra queste anche il matrimonio, realtà tutte che, in una visione stoico-neoplatonica, avrebbero impedito quel distacco dal mondo, richiesto dal cristianesimo. Non è un caso che il vecchio diritto canonico indicava tra gli scopi del matrimonio quello del “remedium concupiscientiae” e della procreazione, mettendo in oblio l’amore coniugale, giustamente recepito dal nuovo Codice (Cfr. D. Capone, «La teologia morale, ieri, oggi», 547-549).
[37] Infatti, del medesimo dato biblico, possono coesistere, a fronte di letture cristiane e cattoliche, letture cristiane ma non cattoliche, che però sono accumunate dalla fede nell’unico battesimo in Cristo, riconosciuto come figlio di Dio, e per questo rendono i Christifideles ugualmente impegnati per un cammino di santità, una vita morale cristocentrica e un servizio di carità; così come possono esistere letture trasversali, né cristiane né cattoliche, sintetizzate nello slogan “Cristo sì, Chiesa no”, di chi trova insormontabile l’ostacolo di una Chiesa colta solo come devozionismo, ritualismo e dirigismo morale, ma che pur si ritrovano in un servizio di carità, laicamente mutuato dall’incontro con un Cristo-uomo-profeta, ideale di vita morale, per la sua scelta preferenziale per i poveri e gli emarginati e il rifiuto di ogni forma d’ipocrisia, e infine non-letture, per tutti coloro non ancora raggiunti dal suo annunzio, ma disponibili al servizio di carità-solidarietà e ancorati onestamente alla retta coscienza, nella cui comune fedeltà, cristiani e non cristiani, si incontrano per la soluzione dei tanti problemi del mondo (cfr. GS 16).
[38] Cfr. D. Capone, Cristocentrismo in teologia morale, 67-68.
[39] D. Capone, Teologia morale e carità, in Atti del I convegno teologico pastorale su Carità: ermeneutica e metodologia, Dehoniane, Bologna 1987, 141; cfr. M. Nalepa - T. Kennedy (a cura di), La coscienza morale oggi, 12-14.
[40] Cfr. D. Capone, Introduzione alla Teologia morale, 173.
[41] Cfr. Ivi, 34.
[42] Cfr. D. Capone, Cristocentrismo in Teologia morale, in L. Alvarez Verdes - S. Majorano (a cura di), Morale e Redenzione, Edacalf, Roma 1983, 78-79.
[43] Cfr. S. Majorano, Coscienza e verità morale nel Vaticano II, in M. Malepa – T. Kennedy, La coscienza morale oggi. Omaggio al prof. Domenico Capone, Edacalf, Roma 1987, 262-266; cfr. D. Capone, La coscienza morale nelle discussioni sulla «Humanae vitae», Edacalf, Roma 1970, 41.
[44] Cfr. D. Capone, La coscienza morale, cc, Roma 1974, 93-95.
[45] D. Capone, L’uomo è persona in Cristo, EDB, Bologna 1973, 25-35.
[46] Cfr. D. Capone, Etica o Etica cristiana, cc, Roma 1973, 8.
[47] A tal proposito si fa illuminante il n. 22 “La persona, cuore della pastorale”, della Nota Pastorale dopo il 4° Convegno Ecclesiale di Verona del 2006: “L’attuale impostazione pastorale, centrata prevalentemente sui tre compiti fondamentali della Chiesa (l’annuncio del Vangelo, la liturgia e la testimonianza della carità), pur essendo teologicamente fondata, non di rado può apparire troppo settoriale e non è sempre in grado di cogliere in maniera efficace le domande profonde delle persone: soprattutto quella di unità, accentuata dalla frammentazione del contesto culturale. [...] Mettere la persona al centro costituisce una chiave preziosa per rinnovare in senso missionario la pastorale e superare il rischio del ripiegamento, che può colpire le nostre comunità. Ciò significa anche chiedere alle strutture ecclesiali di ripensarsi in vista di un maggiore coordinamento, in modo da far emergere le radici profonde della vita ecclesiale, lo stile evangelico, le ragioni dell’impegno nel territorio, cioè gli atteggiamenti e le scelte che pongono la Chiesa a servizio della speranza di ogni uomo”.
[48] Cfr. D. Capone, «Il mistero del Cristo e la fondazione della Teologia morale», in Asprenas 16 (1969) 354-355.
[49] Il tema è presente anche in GS 41: “Chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, diventa anch’egli più uomo”, ripreso da Giovanni Paolo II in Tertio Millennio Adveniente, 10 novembre 1994, n. 59: “«La Chiesa crede che Cristo, per tutti morto e risorto, dà all’uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza perché l’uomo possa rispondere alla suprema sua vocazione; né è dato in terra un altro nome agli uomini, in cui possano salvarsi. Crede ugualmente di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine dell’uomo nonché di tutta la storia umana. Inoltre la Chiesa afferma che al di sotto di tutti i mutamenti ci sono molte cose che non cambiano; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli. Così nella luce di Cristo, immagine del Dio invisibile, primogenito di tutte le creature, il Concilio intende rivolgersi a tutti per illustrare il mistero dell’uomo e per cooperare nella ricerca di una soluzione ai principali problemi del nostro tempo”.
[50] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1857.
[51] Non farai al tuo fratello prestiti a interesse, né di denaro, né di viveri, né di qualunque cosa che si presta a interesse. Allo straniero potrai prestare a interesse, ma non al tuo fratello, perché il Signore tuo Dio ti benedica in tutto ciò a cui metterai mano, nel paese di cui stai per andare a prender possesso.” (Dt 23,20-21); “Non farai vendetta e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso (Lv 19,18).
[52] Cfr. Carlo Maria Martini, Farsi prossimo, Lettera pastorale (1986-1987), Milano, 9 dicembre 1986.
[53] Cfr. D. Capone, Introduzione alla Teologia morale, 33.