DOPO LA PRIMA TRASMISSIONE SU TELEBLU DI LUNEDI' SCORSO, IN REPLICA OGGI ALLE 23.00 (BUONA NOTTE!)....I SOLITI...SONO ANDATI IN SUBBUGLIO...
FACCIAMO ALCUNE PRECISAZIONI:
1. C'E' UN MIO LIBRO PUBBLICATO DALL'EDITRICE DEHONIANE DI BOLOGNA DAL TITOLO "CRISI E RINNOVAMENTO DELLA TEOLOGIA MORALE. LA LETTURA DI D.CAPONE" COSTO 22,50, A DISPOSIZIONE DI CHIUNQUE LO VOGLIA COMPRARE E SOPRATTUTTO LEGGERE....
2. C'E' UN ARTICOLO PUBBLICATO SULLA RIVISTA DELLA FACOLTA' TEOLOGICA PUGLIESE RIVISTA DI SCIENZE RELIGIOSE ULTIMO NUMERO DEL 2013 DAL TITOLO: "LA PROPOSTA DI D. CAPONE: UN'ALTRA PROPOSTA MORALE E' POSSIBILE",CHE QUI RIPROPONIAMO PER INTERO...BASTA LEGGERE...
MAI PARLARE PER "SENTITO DIRE" ALLA FINE SI DIVENTA "RUFFIANI DI CORTE"
DOMENICO
CAPONE:
UN’ALTRA PROPOSTA MORALE è POSSIBILE
di
Faustino Parisi
in RIVISTA DI SCIENZE RELIGIOSE 27, 2013, 585-619
Introduzione
L’articolo si pone a coronamento di altri, già pubblicati gli scorsi
anni,
che hanno cadenzato lo studio sulla figura e l’opera di Domenico Capone
(1907-1995), professore di Teologia Morale Fondamentale all’Accademia
Alfonsiana di Roma. La sua riflessione
teologica e la sua vasta produzione scientifica hanno avuto come riferimenti
costanti la crisi della società
occidentale e l’inadeguatezza della teologia
morale preconciliare, le coraggiose
aperture del Vaticano II e la
proposta di una morale, come vita dei cristiani e scienza teologica, più attenta
al dibattito culturale contemporaneo, coerente con le prospettive conciliari e
che ponga al centro la figura del Cristo e della persona umana.
Si è voluto comporre un nuovo articolo, riassuntivo e organicamente
ripensato, contagiato, in questo, dalla passione del maestro che, dalle aule
didattiche, agli articoli, agli stessi libri, non faceva che rincorrere siffatte
problematiche e tematizzazioni, alla ricerca di una soddisfacente formulazione
di una nuova proposta di teologia morale adeguata ai nostri tempi.
Quello che auspicava Capone era, anche, una ricaduta pastorale della
sua ricerca teoretica, da lui già avviata in numerose conferenze e predicazioni
a sacerdoti, suore e laici, e attraverso articoli divulgativi. Nella Chiesa di
oggi, infatti, la parenesi sembra ancora insistere sui temi del doverismo, della coerenza e degli obblighi morali,
mentre la prassi catechistica, in molte parrocchie, nonostante il Documento di Base su Il Rinnovamento della Catechesi del 1970
e i nuovi catechismi pubblicati successivamente dalla Cei, continua a proporre
una formazione morale, non fondata sull’incontro
personale con il Cristo e sul servizio
di carità, ma sull’esistenza di un Dio, autore di una legge, i dieci comandamenti, principale fonte
di obblighi e di doveri.
L’articolo si propone di evidenziare le cause sociali, culturali e
religiose di tale crisi, capire i motivi storici di un’evidente impreparazione
della teologia morale di fronte alle nuove sfide del XX sec., ma anche mettere
in luce le straordinarie aperture del Vaticano II e le piste per un suo
rinnovamento, e infine offrire la sintesi teologica, proposta da Capone, perché
davvero sia praticabile un’altra proposta morale, coerente con il
dettame conciliare e al passo con i tempi.
1. Le
sfide del XX secolo
Già dalla fine dell’Ottocento
si è andato affermando, per poi divulgarsi capillarmente nel Novecento, un movimento
culturale che pone in discussione non solo la definizione tradizionale di teologia morale, ma la stessa
possibilità che teologia e morale possano, in qualche modo, ancora coniugarsi.
Non così nei secoli
passati, quando l’ateismo era nella pratica un’eccezione, e nessuno metteva in
discussione l’esistenza di una legge inscritta da Dio nel cuore dell’uomo e/o
rivelata nelle sacre scritture. Ricorda lo stesso Benedetto XVI che: “capita
ormai non di rado che i cristiani si diano maggior preoccupazione per le
conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno, continuando a
pensare alla fede come un presupposto ovvio del vivere comune. In effetti,
questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato. Mentre
nel passato era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, largamente
accolto nel suo richiamo ai contenuti della fede e ai valori da essa ispirati,
oggi non sembra più essere così in grandi settori della società, a motivo di
una profonda crisi di fede che ha toccato molte persone”
.
Dio, dunque, non è più
inteso come principio, fine e norma, dell’agire morale (morale teonoma), sostituito da nuovi riferimenti che sono le scienze umane e la tecnologia. Non si tratta tanto o solo del tradizionale soggettivismo o relativismo morale, che pur
supponeva una qualche morale di
riferimento, ma della proposta di una nuova
morale, che, nella sua espressione più radicale, quella nietzchiana, si auto-pone e si sostituisce a quella tradizionale,
sia essa teonoma o anche solo eteronoma (come nel famoso aforisma 125 della Gaia Scienza).
1.1. Cause sociali e religiose
Questo movimento culturale ha contribuito
non poco ad alimentare una situazione d’incertezza e provvisorietà, acuita
dalla recente crisi economica, e ha dato vita a un pessimismo umano-cosmico senza speranza, prima sconosciuto. In
passato, infatti, altre forme ricorrenti di crisi pur sfociavano in un anelito
al soprannaturale o nell’attesa di un messia, invocato quale risolutore e pacificatore
del mondo, oggi sostituito da un facile ottimismo in un progresso scientifico, che si offre agli uomini come ultima (e
unica) speranza per un futuro migliore.
Molteplici sono le
cause socio-religiose di tale fenomeno.
Ha contribuito, non
poco, l’immane tragedia di due guerre
mondiali, combattute da popoli che pur si richiamavano ai valori cristiani,
e il carico di brutalità e ingiustizie perpetrate nei campi di concentramento e
di sterminio, da far gridare a molti «ma Dio dov’era?» e «come ha potuto
permettere che tutto questo avvenisse?». La sofferenza
e la morte, specie quella prematura
di bambini che tanto scandalizzavano Camus, non sono più compensate dalla
visione di un Cristo redentore, sofferente e morente sulla croce, vittima
innocente, espiatrice di un peccato d’origine,
del quale ai più sfugge il senso. La tradizionale posizione di un uomo-Dio che vince il male,
sopportandolo e soccombendo, senza ribellarsi, suscita, oggi, al massimo
qualche forma di solidarietà per il Cristo, ma al contempo genera un rifiuto e
un rigetto per un Dio, assetato di sacrifici riparatori e vendicatore. Il
rapportarsi quasi esclusivo con l’oggettivismo
e il giuridismo morale, ha finito
con il ridurre lo spazio di operatività e di mediazione prudenziale della coscienza,
e messo in ombra la fondamentale e costitutiva relazione con il Cristo. Una predicazione e una catechesi, ossessionate dal
male nel mondo e dal peccato, specie quello di disobbedienza alle leggi
divine, non sempre sono state controbilanciate dalla fiducia nell’amore
misericordioso e compassionevole di un Dio che in Cristo “ha vinto il mondo” (Gv 16,33). Infine un’eccessiva sacralizzazione della presenza e dell’azione
di Dio nel mondo e delle persone a lui consacrate, con una visione della provvidenza
divina come machina Dei, che tutto
governa e tutto (miracolosamente) sostiene, e cui affidarsi, perché latore di
una felicità definitiva, in un futuro prossimo, di cui, però, “non è dato
sapere né il giorno né l’ora” (cfr. Mt
25,13), ha contribuito non poco ad una visione fideistica e quasi fatalistica
del cristianesimo.
1.2. Nuovi orizzonti culturali
Ancora più variegato è il background culturale che, pur
collocandosi nel solco della tradizione illuministica, ne ha sottoposto le tesi
a una radicale verifica, dagli esiti ancora incerti.
Con il termine
soggetto morale, infatti, s’indica più
che l’esecutore di comandi o di ordini (sia pure divini), l’
agire dell’uomo come piena deliberazione della
propria personalità, che si esprime in un atto cosciente, volontario, libero,
interpersonale.
Mentre l’
atto morale, non è più
inteso come conformità a norme già scritte e codificate o a pienezza di
formalità, nel senso kantiano, e non richiede un pregiudiziale discorso sull’Assoluto,
come per filosofi e teologi scolastici, ma si pone come “
operare concreto, che vive all’interno di se il tema della norma e del
fine, e su questi temi, che media dal costume, viene esercitando una verifica
attraverso questo suo stesso esperire, assicurando la sua consistenza” (R.
Crippa).
In tale impostazione
non sembra esserci spazio per un re o divino imperatore, o per un Dio che dall’alto
detti leggi di comportamento e relativa casta rabbinica o sacerdotale o
apparato burocratico che se ne fa interprete e intermediario. In questo modo si
riduce l’uomo a sottomesso
produttore di
atti, per un soggetto altro, estraneo all’uomo e alla città degli uomini, e
si fa alienante e fuorviante la promessa di felicità eterna, per
osservanti e
fedeli, in prospettiva esclusivamente ultraterrena, come afferma Capone
.
A
nche il rapporto metafisica-etica ha subito una profonda rilettura. Dell’essere
metafisico, come del noumeno, non si
ha alcuna esperienza diretta, aveva
sostenuto Kant. Così, pur riservando all’istanza
metafisica, una sua collocazione nel quadro generale della filosofia, essa
si sperimenta, più facilmente, nel concreto, come valore ontologico insito nell’esperienza morale e non più percepibile astraendo
da essa. Il
primato della ragion pratica ha finito con il prevalere su quello della ragion
speculativa e metafisica. In tale contesto si ha la riabilitazione della Filosofia
pratica, mutuata dalla filosofia morale di Aristotele, e variamente ripresa
in Germania da Gadamer e Arendt, e in Italia da Berti e altri. Essa si presenta
come un insieme di riflessioni argomentative
e non prescrittive sulla prassi, sostenuto degli apporti della scienza
politica ed economica.
Nuovo e diverso è il rapporto che si viene a instaurare tra teoresi e
prassi: quest’ultima non più conseguenza pratica della prima o sua applicazione
al caso concreto. In campo etico, contro una razionalità meramente
descrittiva, neutrale e strumentale, proposta dall’Illuminismo, si
fa nuovamente ricorso alla dinamica
prudenziale aristotelica, giudicata più capace di orientare e guidare l’agire
umano verso il successo, inteso come realizzazione
di un bene, finalizzato alla felicità propria e dell’intera comunità (politica).
T
ermini come ragione,
ontologia, universalità, scienza ecc.,
utilizzati nella metafisica classica, e fatti propri dall’Illuminismo e dal
comune sentire popolare, sono stati, a loro volta, ri-visitati e ri-tematizzati
dalla filosofia del Novecento. Una rivoluzione per alcuni, per altri solo una
semplice torsione di significati,
ma che impone un diverso modo di ragionare filosofico, scientifico e anche
teologico. La stessa ragione che,
nella tradizionale impostazione illuministica, si offriva come guida sicura e
unica della vita dell’uomo, nella prassi deve far ricorso a una fiducia, se non
a una fede in se stessa e nelle sue potenzialità
d’intellegibilità della realtà e della verità, non suffragate da alcuna
verifica previa dello strumento utilizzato, ossia della ragione medesima: un’aporia,
questa, di giudicante-giudicato che crea, in partenza, un circolo vizioso la cui soluzione non va ricercata in campo
teoretico ma esistenziale.
Una stretta relazione lega, poi, razionalità
e comunità, sia essa di natura
familiare, civile, religiosa, culturale o scientifica. La comunità, da strumento
di vita e di trasmissione di valori e di crescita culturale per le nuove
generazioni, spesso si muta in luogo chiuso e conformista, con le sue chiese e le sue lobby, i suoi dogmi e le sue scomuniche, come mostrato ampiamente da
Kuhn,
in ambiti di filosofia della scienza, e
confermato dalle ricerche sul campo dell’antropologia culturale.
Esiste un rapporto obbligato, dal quale non è facile esimersi, che pone in
stretta relazione comunità e ambiente, società e cultura.
La scienza moderna, che pur
si nutre di razionalità e di verificabilità sperimentale, se da un
lato non è più perseguibile come sapere puramente cumulativo, in continuo sviluppo, con teorie precedenti pronte a
confluire o a essere riassorbite in quelle successive, dall’altro deve far
riferimento, di volta in volta, non tanto alla sola ragione, ma più
opportunamente alla fantasia per
generare ipotesi, verificabili pur sempre a
posteriori, meglio se con teorie
falsificabili, come direbbe Popper, la cui attendibilità è legata al tempo e alle circostanze, e un
progressivo avvicinarsi alla verità, che per Kuhn funziona proprio quando
riesce a porsi in discontinuità (eretica) con la comunità scientifica del proprio tempo, forzando, nei suoi punti critici, i consolidati paradigmi della scienza normale, cioè ufficiale.
Infine l’universale
astratto (logico-razionale), caro alla metafisica classica, considerato passaggio
obbligato per il dialogo e il confronto tra gli uomini (
tutti gli uomini sono per natura esseri razionali) è sostituito,
oggi, dall’
universale concreto. La
fragilità del primo consiste nella pretesa di una razionalità universale, necessariamente
astratta, per raggiungere la quale, come in un distillato di umanità, si dà vita
a un alienante processo di astrazione dal
principio
di realtà e dal dato esistenziale dei singoli e delle comunità. Mentre l’
universale concreto, inteso come
orizzonte ermeneutico, entro cui
svolgere la comunicazione tra gli uomini (
meta
da raggiungere, non ancora compiutamente data,
telos della comunicazione e del confronto), si fonda sull’esigenza,
che ognuno ha, di comunicare e relazionarsi, in linea di principio, con tutti,
come ricordato da Pagano
.
In conclusione, superando
quel radicato razionalismo illuministico,
che pur caratterizza questo movimento socio-culturale, e che fatica a cedere il
passo o a completarsi con altre istanze dell’esperienza umana, e una forma di messianismo intra-mondano, che non fa
che proiettare, ancora una volta in un futuro prossimo, la soluzione dei
problemi del tempo presente, tre sono, a mio avviso, i punti di non-ritorno.
Dal punto vista metafisico: va riconosciuto il valore
ontologico insito nell’esperienza morale, verificabile all’interno e
attraverso l’esperienza stessa o comunque inscindibile da essa. Dal punto di
vista etico: l’esperienza morale, sia
essa mutuata laicamente o religiosamente, sarà riconosciuta valida, nella misura in cui garantisce
all’uomo il porsi come soggetto autonomo
e responsabile di atti morali, coscienti, volontari, liberi e interpersonali. Dal punto di vista esistenziale: la domanda di senso, che accomuna l’intera umanità e tocca intimamente
la singola persona e relativa comunità, attende risposte convincenti che,
scienza galileiana o scienze umane, filosofia o religione, arte, cultura, ecc.,
non possono non ricercare-comunicare-confrontare, sia pure con tematizzazioni e
codici ermeneutici propri, pena la loro insignificanza, se non addirittura la
loro inutilità.
2. Inadeguatezza
della Teologia Morale preconciliare
Questo, per sommi capi, il quadro generale
di una crisi ancora in atto, così come descritta da Capone, in numerosi
articoli, saggi e dispense.
La teologia morale, giunta fino alle
soglie del Concilio Vaticano II, si è mostrata del tutto impreparata a
fronteggiare siffatti sconvolgimenti, afferma Capone. “I teologi del Novecento si
sono trovati con un vuoto teologico alle spalle e di fronte una moltitudine di
problemi morali nuovi e indecifrabili”
.
Il vuoto teologico è rappresentato da una teologia post-tridentina,
nei secoli sclerotizzatasi in manualismo,
casismo e giuridismo morale, sostenuti
filosoficamente da un quidditativismo
essenzialistico, che aveva reso asfittica
la vita morale dei cristiani, non centrata sulla coscienza, coadiuvata dalla
prudenza, né sulla persona umana e sulla figura del Cristo.
Il manualismo era
quel modo piuttosto schematico e rigido con il quale si redigevano i manuali
preconciliari, senza vera
ispirazione teologica e prudenziale, afferma
Capone, ad usum
nei corsi di teologia e spesso unico riferimento per i confessori e direttori
spirituali.
La
casistica è, invece,
“il tentativo di indicare approssimativamente l’applicazione delle leggi o
norme universali al caso singolare, oggetto proprio della coscienza guidata
dalla prudenza”
.
Il metodo casistico, utilizzato correttamente, per Capone deve aiutare l’azione
della prudenza, ma non sostituirsi, nella sua azione di supporto alla coscienza.
Per questo occorre fare una distinzione tra una
sana casistica che sostiene abitualmente il binomio coscienza-prudenza,
nel rapportarsi al caso concreto (il
kairós),
e una
casistica empirica e praticona,
che giudica il momento presente esclusivamente riferendosi a casi ben
determinati e definiti altrove, ossia nei
manuali:
una forma di prudenza codificata e pronta
all’uso. Una tale casistica diventa problema per la vita morale del
cristiano, quando si fa
mentalità, ossia
concezione antropologica e anche teologica del rapporto uomo-Dio: non una
relazione vitale e attuale in Cristo Gesù, ma un estrinseco riferimento a norme
codificate, riguardanti spesso solo il
permesso
o il
proibito.
Dalla mentalità casistica al giuridismo
morale il passo è stato piuttosto breve, con conseguenze negative per lo
stesso sacramento della confessione,
oggi più opportunamente ridefinito sacramento
della riconciliazione. Il confessionale, in molti casi, ancora oggi, non è il
luogo della carità e della misericordia
del Padre in Cristo, ma, a tutti gli effetti, un’aula di tribunale. Il penitente
è l’imputato, il confessore, il suo giudice, cui spetta decidere, innanzitutto,
se l’atto commesso è già in sé, «ex obiecto», formalmente peccato (di qui la consultazione della «summula
casuum» dei manuali), quindi valutarne il grado di partecipazione: se c’è stata,
cioè, piena avvertenza e deliberato consenso, condizioni giuridiche dell’imputabilità di un atto. Dopo di che, si dà o si
nega l’assoluzione, sulla base del pentimento del peccatore, cui segue un’adeguata
penitenza.
La prudenza
non ha più nulla a che fare con il giudizio di coscienza, pronunziato più dal
confessore che dal penitente; il rapporto
personale con il Cristo è, tutt’al più, supposto ma non verificato nella
sua attuale dinamica relazionale, e l’effetto
medicinale-sacramentale della riconciliazione, pur sancito dall’ego te absolvo, necessita ancora di un
appendice di natura più giuridica che morale, ossia della penitenza riparatrice commissionata dal sacerdote, cui fa seguito a
volte, da parte del penitente, un’incetta
di indulgenze, onde abbreviare i tempi di un’ulteriore purificazione in purgatorio,
realtà intermedia tra inferno e paradiso. Una storia infinita.
In sostanza si tratta di una forma di
sillogismo logico e
di
processo giuridico,
applicato alla vita sacramentale e alla morale, di qui l’accusa di
astrattismo e di
giuridismo morale.
Reggeva, infine, l’impianto
casistico-giuridicizzato della morale,
anche, una certa visione della metafisica, di natura
quidditativa ed
essenzialistica,
di matrice aristotelica, dimentica di quella
ontologica e
fontale, rielaborata
da san Tommaso, “originale sintesi di aristotelismo e platonismo” (Fabro). Così
commenta Capone: “Altri moralisti, pur accettando la casistica, desideravano la
fondazione della teologia morale generale su basi metafisiche. Per questa fondazione
la neoscolastica dell’ottocento aveva ripreso, in morale, le tesi di C
Billuart; il quale a sua volta dipendeva da C. Wolff, leibniziano. E così si
ricadeva nell’essenzialismo quidditativo della seconda scolastica e in una
specie di illuminismo di carattere logico, astorico. Su questa linea si
manterranno i manualisti, rendendo difficile i discorso sulla legge morale di
natura e sulla verità della coscienza morale, che S. Tommaso aveva fondato
sulla prudenza, come «ministra sapientiae»”
.
3. Prospettive
conciliari per un rinnovamento della Teologia Morale
Il
Concilio Vaticano II, accogliendo le istanze di cambiamento, invocate da
teologi, biblisti, liturgisti, dogmatici
e moralisti e dallo stesso popolo di Dio, ha tracciato con chiarezza le piste su cui operare un autentico
rinnovamento della vita morale, come scienza teologica e vita dei cristiani.
Nei passi conciliari, dedicati specificamente alla morale, si afferma che: “Le
discipline teologiche vengano rinnovate per mezzo di un contatto più
vivo col mistero di Cristo e con la storia della salvezza” (OT 16); “Si ponga speciale cura nel
perfezionare la teologia morale, in modo che la sua esposizione scientifica, più nutrita della dottrina della sacra Scrittura, illustri la grandezza della vocazione dei fedeli in
Cristo e il loro obbligo di apportare
frutto nella carità per la vita del mondo” (OT 16); “La coscienza è il nucleo più segreto e
il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità. Tramite la coscienza si fa conoscere
in modo mirabile quella legge che trova il suo
compimento nell’amore di Dio e del prossimo” (GS 16); “Questo
Concilio Vaticano dichiara che la persona
umana ha il diritto alla libertà religiosa […] Nessuno sia forzato ad agire
contro la sua coscienza […] Il
diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana” (DH
2-3).
Queste proposte, per Capone, non sempre
sono state adeguatamente sviluppate dalla teologia morale postconciliare. Di
qui il suo impegno, di docente e di pastore, per un loro approfondimento e una
capillare diffusione.
3.1. Contesti culturali e filosofici della morale
cristiana
Che la teologia morale debba confrontarsi con i modelli
culturali e filosofici del proprio tempo sembra un dato ormai acquisito. Non si
tratta, tanto o solo, di inglobare nuove esigenze e nuove problematiche in
vecchi schemi ben collaudati, sostenuti da un’improbabile (e non più proponibile)
filosofia perenne, per la quale la Chiesa,
in quanto tale, non sembra avere particolari competenze né essere investita di
uno specifico mandato. A volte ci si deve confrontare con ripensamenti e nuove
proposte, così radicali, da rendere quei modelli del tutto obsoleti e praticamente
non più utilizzabili.
Così se l’
ellenismo,
clima culturale dominante nel quale si è diffuso e con il quale si è
confrontato il cristianesimo dei primi secoli, privilegiava, influenzato dallo
stoicismo e dal neoplatonismo, l’
oggettività,
il
razionalismo cosmico, l’
universale astratto e la
metafisica, considerati riferimenti
indispensabili al discorso morale; la
cultura moderna, dal canto suo, soprattutto a partire dal
Rinascimento e dal Cinquecento, ha riproposto,
in ambito filosofico, il
mito naturalistico
e
vitalistico greco-romano, in campo
religioso il ritorno alle
fonti bibliche
ed evangeliche della fede cristiana, in campo esistenziale la
centralità della
persona, colta in
situazione,
in medias res, più attenta al
sentimento e al
senso morale, guidata
dalla
coscienza, poggiata sull’
universale concreto e sulla
circolarità ermeneutica tra conoscenza
ed esperienza, e infine in campo scientifico ha proposto un nuovo modello di scienza,
fondato più sull’
empiria e sul valore sperimentale della
prova-provata, che su posizioni logico-deduttive
o degli
auctores, ecc.
La Chiesa dell’epoca, ancora intrisa di razionalismo ellenistico,
influenzata dall’
antimitismo ebraico
e da una scienza aristotelica, più razionale che sperimentale
, non
sempre è riuscita a dialogare e a confrontarsi con i nuovi modelli culturali, spesso
colti solo (e condannati) o per il loro evidente
naturalismo ateo (Bruno, Telesio e Campanella) o per un ritorno,
balzo all’indietro senza tradizione,
alle sorgenti del cristianesimo
evangelico (protestantesimo) o per un
panteismo
ben più radicale di quello eracliteo, stoico o plotiniano
(Spinoza), o per uno
sperimentalismo scientifico, considerato
troppo soggettivo quando non in contrasto persino con il dato biblico, specie
quello di natura “scientifica” (Galileo), perdendo così, a giudizio di molti,
un’occasione storica di rinnovamento e di attenzione ai tempi, cui il Vaticano
II ha cercato, in qualche modo, di porre rimedio
. Non è
un caso, la riabilitazione proprio di Galileo avvenuta nel 1992, a quasi
quattrocento anni dalla morte, grazie all’impegno e al coraggio di Giovanni
Paolo II, in linea con le aperture conciliari.
In campo filosofico, dopo Kant, al primato della
ragion pura o
speculativa, si è preferito quello della
ragion pratica, con un inatteso ritorno all’etica eudemonistica e
prudenziale di Aristotele, più che alla sua metafisica. Il
periodo post-moderno che stiamo (ancora confusamente) vivendo, si
propone a sua volta come messa in discussione degli stessi valori dell’epoca
moderna, in particolare del suo razionalismo illuministico, e si caratterizza per
una diffusa consapevolezza della frammentarietà del sapere e dell’esistenza
storica dell’uomo
: tematiche
per un futuro confronto con la teologia morale. Infine il
problema del senso della vita, tema scontato in contesti religiosi,
è divenuto, oggi, addirittura, banco di prova e di verifica della proposta
morale, e così via.
Dall’oggettivismo morale a una morale dei
valori
Una
lettura più diacronica che sincronica dei testi conciliari fa emergere una
chiara volontà dei padri per il superamento di una teologia morale, ancora intrisa
di razionalismo e oggettivismo, afferma Fumagalli
Capone in un articolo su «La teologia
morale, ieri, oggi», pubblicato in Presenza
Pastorale nel 1971, elenca tutti i limiti storici dell’oggettivismo morale che
“trasformò la prudenza in conoscenza della verità dell’atto morale concreto,
come assoluta conformità con l’atto dell’uomo in sé”; alimentò il giuridismo morale, che “suppone un
concetto non teologico, ma giuridistico del peccato”, così da estromettere “la
prudenza dal giudizio di coscienza”; lasciò campo libero al nominalismo, che “isolò l’atto morale
dalla persona morale, e nello stesso tempo, considerò positiva limitazione
della libertà ogni legge, anche la legge naturale-personale”; produsse la cosificazione dell’atto morale,
considerato “come «entità a sé», oggettivamente valutabile”: se “il
probabilismo cosificava l’atto”, afferma Capone, “il probabiliorismo cosificava
l’uomo, perché lo astraeva da persona ad essenza metafisica, integrata
accidentalmente, quanto a moralità, da circostanze”;
si trasformò, per reazione, in rigorismo
essenzialistico, sostenuto da quei dogmatici “convinti che la caduta della
morale nell’oggettivismo giuridistico-casistico sia dipesa dal distacco della
morale dalla dommatica”. Inevitabile, infine, il degrado della teologia pastorale, “ramo della prudenza o della
scienza ed arte prudenziale”, che finì con l’escludere il Cristo dalla vita morale del cristiano: “anche la
verità di salvezza che è poi il Cristo-Pastore”. Anche la teologia pastorale,
conclude Capone, “è stata essenzializzata o giuridicizzata, per essere poi
sottoposta ad una pastoralità, di cui la storia ci dice che non fu la
partecipazione viva del Cristo-Pastore, ma escogitazioni teoretiche e
soprattutto tecniche, assai discutibili”.
Occorre,
quindi, lasciarsi alle spalle quel dibattito tra soggettivismo e oggettivismo, che ha segnato negativamente la storia
della morale cristiana,
oggi riaccesosi attorno alla morale della
situazione e ai temi della bioetica,
e che rischia persino di inficiare lo stesso metodo storico-critico della moderna esegesi biblica.
Se,
dunque, si propone di abbandonare l’oggettivismo
morale non si vuole, per questo, finire nelle secche di un soggettivismo morale o di un situazionismo relativistico che, nella
sua impostazione più radicale, mina alle basi la stessa possibilità di un’etica
per gli uomini. Più opportunamente s’intende far riferimento a una morale dei valori, fondati sul Cristo,
origine e fonte di vita morale e trasmessa al cristiano da una comunità, che,
quegli stessi valori, vive e testimonia in prima persona.
In
sostanza si tratta di una proposta morale che, negativamente, non si senta più obbligata a rapportarsi con l’oggettivismo etico, ritenuto elemento necessario
al confronto ragione-fede; non si
ponga più alla ricerca di comuni evidenze
etiche, la cui perdita di percezione e di riferimento è un dato incontestabile
dell’epoca moderna; non motivi il suo agire morale riferendosi a principi primi, colti per via razionale
e collocati in una dimensione, anche linguistica, senza spazio e senza tempo, o a principi
religiosi, a essi assimilati da un
processo di enucleazione catechistica del dato rivelato, verso i quali si
chiede adesione e coerenza; che, positivamente, si
poggi su valori incarnati, ispirati ai vangeli e sostenuti dalla
testimonianza degli apostoli e dei santi; si alimenti di una personale relazione sacramentale con il Cristo, vissuta in libertà e fedeltà;
trovi nel sacrario della coscienza il
nucleo segreto e il centro vitale della sua vita morale; realizzi il
compimento della legge nell’amore di Dio e del prossimo e, infine, si unisca agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali,
che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale (cfr. GS 16).
Ritorno all’etica aristotelica eudemonistica e
prudenziale
L’articolazione
aristotelica della vita morale, proposta soprattutto nell’Etica a Nicomaco, utilizza termini come saggezza e prudenza, eudemonisticamente finalizzati e orientati a una
felicità personale e politica (nella
polis). Nella lettura che ne fa
Capone, quella stessa tensione e quel finalismo eudemonistico possono essere
rappresentati, nel cristianesimo, dalla carità
del Cristo risorto, Kuriós del mondo,
mistero dell’amore paterno di Dio, finis finium, principio e fine di tutta la vita cristiana, éskaton che anima l’opzione
fondamentale per una beatitudine in Dio, sia terrena che ultraterrena. Per
la vita morale del cristiano, dunque, è Cristo il nuovo principio
assiologico di finalità.
Non è richiesto alcun previo discorso sui fondamenti ontologici dell’agire
umano, succube per secoli del cosiddetto metodo
delle definizioni, come ricorda Angelini,
né un riferimento esplicito alla metafisica
che, in Aristotele, ha per oggetto gli universali e le cose che sono
necessariamente
, e che lo stesso
stagirita non pone a base della sua etica e agire morale, oggetto, invece, di
una saggezza, sostenuta dalla prudenza, per sua natura rivolta a quelle
cose che possono essere anche diversamente.
L’adattamento
all’etica cristiana del modello aristotelico è agevolato dal fatto che anche il
cristianesimo, essendo risposta e
partecipazione personale a una storia di salvezza, si caratterizza più come
prassi che come teoria, più orthopraxis che
orthodoxia, per riprendere
terminologie care al dibattito patristico.
Quest’ultima, in una circolarità di
natura ermeneutica, si fa, pur sempre,
necessaria riflessione, che aiuta a meglio comprendere e più efficacemente
vivere un dato di fede, ispirato al vangelo e incarnato in una comunità di
cristiani.
Il
confronto etico sul senso della vita
Nella
persona del Cristo, vero uomo e vero
Dio, si ha, dunque, l’unificazione in
radice di etica naturale ed etica cristiana, in una dimensione che non è,
solo intellettualistica e razionalistica, ma soprattutto esistenziale.
Il
Cristo integra, nella sua persona, l’etica
dei filosofi e della gente comune, afferma Capone, risolvendone le evidenti
mille aporie e dando certezza all’uomo, a ogni uomo. Così le due forme di etica, umana e religiosa, vengono
a conciliarsi, anche se non a identificarsi totalmente,
non per riferimento a un comune supremo ordine
morale oggettivo, come per stoicismo e neoplatonismo e un cristianesimo ancora
influenzato dall’ellenismo, né per un’etica umana funzionale o propedeutica a quella teologica risolvendosi in essa, come
già la filosofia per la teologia, come per De Finance e neotomisti; e neppure
attribuendo all’etica cristiana una
dimensione
solo
formale, mentre quella
categoriale sarebbe appannaggio della
morale propriamente umana, come per
Fucks;
bensì nel loro esito finale, ossia
nell’impegno concreto, per entrambe, di indicare e testimoniare all’umanità il senso della vita e della morte e il
superamento del male.
La
persona del Cristo, in tale
prospettiva, diventa punto di riferimento sia per il laico, in cerca di una
risposta che sia “pienezza di significato
per la vita” (VS 7), che per il Christifidelis, al quale viene proposto,
in più, un impegnativo itinerario di fede, una dimensione soprannaturale e una
maggiore consapevolezza che, unita alla forza dei sacramenti, lo rende più
idoneo a un responsabile servizio di
carità per il mondo, già impegno comune di tutta l’umanità.
3.2. Le peculiarità della vita morale cristiana
La teologia morale cristiana ha elaborato, fin dagli inizi, elementi originali
propri, non sempre presenti con la stessa intensità e valenza in altre proposte
morali, di natura laica o religiosa, a essa preesistenti o anche successive.
Nuovo è l’incipit morale
cristiano: non da un’idea o da una
teoria, che si fa legge e fonte di vita morale, ma dall’incontro personale ed esistenziale con il
Cristo, come ricordato da Giovanni Paolo II (VS 7) e Benedetto XVI (DCE
1). Peculiare è anche il tipo d’incontro.
Non tanto o non solo con una persona, la sua storia e il suo messaggio, fissati
in un evento storico, ben determinato, e tramandatoci di generazione in generazione, come per Confucio, Budda o Maometto,
ma con una persona, il Cristo lo stesso, ieri,
oggi e sempre (cfr. Eb13,8), che il cristiano incontra in una comunità di credenti che ne celebra la memoria
nell’eucarestia e lo rende vivo e operante nei sacramenti. Un incontro di natura
sacra e sacramentale, che viene a suggellare lo stretto legame tra dimensione liturgico-sacramentale e vita morale del cristiano, che ha, per
Capone, il suo punto unificante proprio nel Cristo soggetto della teologia, che
presiede l’azione liturgica e si fa con-soggetto della vita morale del
cristiano.
Legata alla figura del Cristo è anche la particolare forma di personalismo morale, proposto dal
cristianesimo. Infatti il
personalismo
che, come corrente filosofica, si è diffuso particolarmente nel XX secolo
grazie ai vari Mounier, Maritain, Guardini, e gli italiani Stefanini e
Rigobello
,
era già patrimonio dei Padri della Chiesa, e si scopre oggi, attraverso gli
studi di Fabro
,
ripresi da Capone, che in san Tommaso si fa,
personalismo cristologico e
ontologico,
fondato, cioè, sulla persona del Cristo,
elemento
di una proposta più teologica che filosofica
.
Dal
Cristo, vero Dio e vero uomo,
l’essere di persona si comunica all’uomo,
per partecipazione fontale, così da
renderlo
persona autonoma e responsabile,
e, al tempo stesso, rovesciare quella
visione cosmico-sacrale del rapporto
io-mondo, di matrice stoica, giunta fino alle soglie del Concilio
.
Ora si comprende meglio il significato e la portata della centralità del Cristo, figlio di Dio, in
missione d’amore, per conto del Padre, che è il vero novum della morale cristiana, come dottrina e come vita, superamento
di una sua impostazione esclusivamente teo-logica
o teonoma.
L’incontro personale con Cristo
L’incontro personale (liturgico e sacramentale) con il Cristo è, dunque,
il punto di partenza per una vita morale che voglia definirsi autenticamente cristiana.
Giovanni Paolo II nella Veritatis
Splendor lo evidenza in maniera straordinaria. In particolare i nn. 6-7 danno una chiave di lettura, prettamente
morale, di quell’incontro: “Il dialogo di Gesù con il giovane ricco,
riferito nel capitolo 19 del Vangelo di san Matteo, può costituire un’utile
traccia per riascoltare in modo vivo e incisivo il suo insegnamento
morale” (n. 6); “Nel
giovane, che il Vangelo di Matteo non nomina, possiamo riconoscere ogni uomo
che, coscientemente o no, si avvicina a Cristo, Redentore dell’uomo, e
gli pone la domanda morale. Per il giovane, prima che una domanda sulle
regole da osservare, è una domanda di pienezza di significato per la vita”
(n. 7), cui fa eco Benedetto XVI in Deus
caritas est n. 1: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione
etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona,
che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”.
Proprio per queste affermazioni andrebbe attenuata, se non abbandonata,
una formazione morale che prende le mosse esclusivamente dall’esistenza di un
Dio fonte di vita morale, che si traduce in regole-comandamenti,
come quelli sinaitici, naturalmente rintracciabili anche nel cuore dell’uomo, da
osservare in vista di una salvezza
personale. Inesorabilmente, come la storia religiosa da sempre documenta, esse
finiscono con il vivere di vita propria e autonoma, sclerotizzandosi e frapponendosi
tra Dio e l’uomo, fino a divenire unico ed esclusivo elemento di comunicazione
e di relazione, per poi degenerarsi in feticismo
della legge, la cui scrupolosa osservanza viene premiata e la non
osservanza peccaminosa punita, ma che ne stravolge il senso originario, quello,
appunto, legato a un patto di alleanza
(abramitico e mosaico), fondato sull’amore divino che si offre all’uomo.
Il rischio è di far passare in second’ordine sia la fondamentale rivelazione
veterotestamentaria, di una Storia di Salvezza, che manifesta un Dio che, nonostante il peccato di Adamo ed Eva, ama ancora il suo popolo, non lo
abbandona, ne ascolta il grido di
dolore, invia Mosè a liberarlo dalla
schiavitù, stabilisce sul monte Sinai
un’alleanza, scolpita sulla pietra (Es 34,1-34), lo fa entrare in quella terra già promessa al padre Abramo (Gn 15,1-6);
che l’evento e l’azione del Cristo in linea con quell’antica rivelazione, che nella pienezza dei tempi (cfr. Gal
4,4-5; Eb 9,26) si offre quale compimento
di quella medesima Storia di Amore e di Salvezza (cfr. OT 16), e liberandoci dal
feticismo della legge, viene a instaurare un’alleanza nuova, arricchita dalla
figliolanza divina, di figli nel Figlio, così che ogni cristiano e ogni uomo
possano gridare, assieme a Gesù, “Abbà, Padre” (cfr. Gal 4,1-31).
Nell’incontro personale con
Gesù, “Maestro buono” (Mc 10,17), l’uomo si riconosce persona
libera e responsabile e dà avvio a una sequela
(Mc 10,21), vissuta in libertà e fedeltà: termini che rimandano a un rapporto di vita, che si
rinnova quotidianamente, più pregnanti dei termini coerenza o obblighi morali, che sembrano voler ridurre la fedeltà a
un meccanismo deduttivo di azioni e comportamenti, conseguenti a un’obbligazione
assunta, per giunta da altri, come nel caso del battesimo dei bambini.
La sequela Christi, nasce
dunque dall’incontro personale con il Cristo, diventa sinonimo di via di santità, è retta dall’opzione fondamentale, si nutre di sacra scrittura,
si sostiene ogni giorno con la preghiera,
si accresce nel confronto con la comunità dei Christifideles, si alimenta di eucarestia,
e si ri-vitalizza con il sacramento
della riconciliazione, qualora quell’intima
unione del cristiano con il Cristo fosse messa in pericolo da cadute per
disattenzione e/o fragilità umana (peccato
veniale), o si ri-genera, per i
padri ri-nascita, ri-battesimo, se
disgraziatamente perduta e dispersa nel suo opposto, per “donazione profonda
della persona a Satana”, ossia all’anti-Cristo e all’anti-persona (peccato mortale
o mortifero), come afferma Capone,
e infine si perfeziona nella carità in
una storia (escatologica) di salvezza, per la vita del mondo.
La proposta conciliare di una comune
vocazione di tutti i cristiani alla santità (LG 39-42) a questo mirava, oltre a lasciarsi alle spalle quel minimismo morale, fino ad allora
“concesso” ai laici.
In alcune forme di pastorale, specie in gruppi e movimenti di recente
formazione, forse per reazione a un certo lassismo morale o anche al minimismo
laicale, si nota una voglia di strutturazione forte della sequela Christi, con tappe riconoscibili, scrutini e quant’altro,
per misurarne progressi e ritardi. Al di là delle buone intenzioni non si tiene
conto del rischio di omologazione e massificazione, quando non di fariseismo
ipocrita o di formalismo morale, che una tale impostazione, così radicalmente
strutturata, reca inevitabilmente con sé.
All’intera comunità ecclesiale e ai suoi pastori, in particolare, spetta
il compito di invitare il cristiano,
con la parenesi, l’esempio e la preghiera, a progredire nell’amore-carità del
Cristo, in Dio, sotto l’influsso dello Spirito Santo, a servizio dei fratelli,
sull’esempio dei santi. Al contempo, però, bisogna lasciare al Signore, nell’intimo
dialogo con il credente, nel sacrario della coscienza, e specie nell’incontro profondo
e sacramentale dell’eucarestia, dettare i
tempi e i modi di questa crescita,
senza pressioni esterne o moralismi,
senza imposizione di modelli codificati di
vita cristiana o strutturazioni forti
e soprattutto senza forzature
veritative, come auspicava sant’Alfonso, qualora l’ignoranza si mostrasse
davvero invincibile. In tale prospettiva anche certe forme di proselitismo religioso andrebbero
ridimensionate, nei modi e nei toni, specie a livello personale, laddove il
rischio di manipolazione o di plagio è comunque in agguato, nel rispetto di
quella dignità della coscienza personale, che va correttamente educata, ma che deve
essere sempre seguita, anche se in errore (cfr. DH 2-3).
è, in fondo, una scommessa o un rischio, che pochi pastori in cura d’anime, direttori
spirituali o catechisti, sembrano
disposti a correre, adagiati su di un facile dirigismo morale, dagli immediati
riscontri, e che utilizza, in senso ideologico, i concetti d’ideali, principi religiosi e coerenza, quando gli stessi non sono veicolati
da un generico e impersonale “si deve”,
“è obbligatorio”, “si fa”, troppo simile a un imperativo categorico kantiano o condizionati da un imperativo ipotetico, in vista di un premio-ricompensa, in
ogni caso vistosamente segnati da una
debole relazione personale con il Cristo che, nella vita quotidiana, si
offre come maestro buono, compagno di strada e fonte attuale di moralità e di santità.
La vita di unione sacramentale con il Cristo
Si comprende ora perché la vita morale del cristiano debba essere, necessariamente e prima di tutto, vita di unione sacramentale con Cristo,
celebrata in una comunità cristiana di credenti e testimoni, sub afflato
Spiritus Sancti, così che la relazione con il Cristo non si risolva in mero
rapporto intellettual-cognitivo o anche solo in un ideale riferimento di vita:
incontri con il Cristo pur sempre possibili e forieri di salvezza eterna se
vissuti e finalizzati nel servizio di carità, anche se non pienamente in linea
con il dato evangelico, così come riconosciuto e vissuto nella Chiesa Cattolica.
L’unione sacramentale è, dunque, la base e lo strumento fondamentale
voluto dal Cristo, perché si realizzi quel
processo simbiotico e sacrale, di totale convivenza del cristiano con il
Cristo (cfr. Gv 6,54-56), elemento
dinamico di una morale Cristo-logica,
fondata sul battesimo e sostenuta dagli altri sacramenti, che fa sì che la persona
si riscopra soggetto responsabile del proprio agire morale (di qui il richiamo
alla libertà e alla fedeltà come categorie fondamentali del
vivere morale cristiano), e viva, senza perdersi, nel con-soggetto che è il Cristo.
Quindi
la dimensione ecclesiale, liturgica e
sacramentale si fa necessaria per il
cristiano, affinché la vita morale raggiunga la sua pienezza e validità (cfr. SC 9-10). Il che espresso in
maniera più incisiva, si può tradurre nella duplice affermazione che: senza dimensione ecclesiale e senza vita liturgico-sacramentale, “fonte
e culmine della vita cristiana” (SC
10), non si dà, in alcun modo, autentica vita morale cristiana; e, specularmente, senza
dimensione morale, che si concretizzi e si finalizzi, dopo l’incontro
sacro-sacramentale con il Cristo, nel “portare frutti di carità per la vita del
mondo” (OT 16), la vita di comunità e quella liturgico-sacramentale perdono il loro
senso specificamente cristiano.
Visione personalistica della morale
Il
concetto di persona, si sa, è frutto originale dell’elaborazione teologica
sulla Trinità, operata dai Padri della Chiesa nei primi secoli del
cristianesimo, anche se non sviluppata in un’autonoma corrente filosofica.
Fin
dai tempi di Boezio, tale concetto aveva trovato una convincente
sistematizzazione epistemologica, che definiva in maniera nuova l’uomo-persona-interpersona,
rispetto all’uomo-individuo della
tradizione classica, ma che pur viveva, a livello di polis e di agorà, di un’intensa
relazione sociale e politica, in vista della felicità personale e del bene comune della stessa polis. Per
Tommaso l’uomo, creato a immagine di Dio,
è per ciò stesso persona: l’individuo particolare si trova
in un modo ancora più speciale e più perfetto nelle sostanze razionali, che
hanno il dominio dei propri atti e che
si muovono da se stesse, non già spinte
dall’esterno come gli altri esseri. Mentre
la
dimensione relazionale, insita nel
concetto di persona, è mutuata, analogice
e pro suppositio, non autem per
essentiam, dalle relazioni, sussistenti e sostanziali, delle tre persone
divine (cfr.
Summa Theologiae, parte I,
q. 29). Solo in Cristo, dunque, ogni uomo
è veramente persona, in quanto creato
a immagine di Dio, in Cristo-persona, conclude Capone.
Un’impostazione, questa, che trasforma radicalmente la tradizionale morale Teo-logica, con venature stoiche
e neoplatoniche mai del tutto neutralizzate, in morale Cristo-logica o Teo-Cristo-centrica,
innervata dalla dimensione personale,
che dal Cristo, vero uomo e vero Dio, si comunica all’uomo nella creazione rendendolo persona, nella redenzione donandogli la sua figliolanza divina e la sua grazia,
fonte di gioia e compimento di felicità, e nella
storia (escatologica) offrendogli di cooperare da redento al suo progetto di salvezza
del mondo, per l’edificazione, già sulla terra, del regno di Dio.
Non
poche le conseguenze per la vita morale. Se l’uomo è persona in Cristo, gli va
riconosciuto il suo fondamentale essere volontà
cosciente e libera, e soggetto
responsabile di moralità, padrone dei
propri atti (“non più atti della
persona ma più propriamente persona
in atto”, ricorda Capone), una delle esigenze della cultura moderna e riferimento per ogni
discorso che, oggi, voglia dirsi morale. L’impostazione personalistica della
morale impone anche il rovesciamento della
tradizionale visione sacrale, stoica e medioevale, del mondo. Il primum non è né la ragione né l’intellettualismo,
ma l’essere dell’uomo creato a immagine
di Dio, apice della creazione, che rovescia l’albero porfiriano, cambiandone senso e orientamento. Il mondo non è
sacro per sé, non è di per sé gloria di
Dio e l’uomo non è una parte di quest’universo, sia pure la più alta e la più intelligente, pur sempre
sottomesso a un ingranaggio di leggi oggettive e universali, che lo sovrastano.
Al contrario è il cosmo, che, nella lettura paolina, geme e attende con ansia la manifestazione dei figli di Dio (cfr. Rm 8,18-25), a diventare gloria di Dio
perché, preso dall’uomo-persona, nell’intensità di persona e nell’intenzionalità
individualmente retta, come ricordava Capone. L’homo vivens
gloria Dei, secondo la nota espressione di Ireneo (e del Sal 8, ripreso da Eb 2,6-8) riflette la gloria
di Dio sul mondo e lo governa, partecipando al governo e alla provvidenza
di Dio, con la sua saggezza, per partecipazione
fontale.
Centralità
e missione del Cristo
In
questa visione, la centralità e la figura del Cristo si articolano in una
maniera molto diversa da come proposto dalla teologia dei manuali. Essa,
afferma Capone, aveva ridotto Dio in deità, e non potendo ridurre Cristo in cristicità, l’aveva relegato a elemento
devozionale, escludendolo, di fatto, dalla morale
e dal soggetto della teologia.
Per
Capone, dunque, il Cristo dei vangeli non si fa rivelatore di un Dio, intelligenza
suprema, architetto e legislatore del
mondo, come sostenuto dagli scolastici, influenzati dall’intellettualismo greco
e dallo stoicismo romano, che leggevano la stessa creazione dell’uomo, imago Dei, più nell’impostazione
porfiriana, di nous, mente, intelletto, utile per distinguerlo dal regno animale e vegetale,
non certo sufficiente per porlo in relazione, in quanto persona, con l’essere
proprio di Dio-persona-Trinità.
La
sua missione non consiste nel restaurare, attraverso un sacrificio riparatore dovuto, un ordine morale, universale e oggettivo, messo già in
crisi dalla disobbedienza dei nostri progenitori, del quale Dio sarebbe stato custode, giudice e vindex, come sostenuto
nel De ordine morali, quel documento
preparatorio, sui temi della morale, non accolto dai padri conciliari.
Nella
testimonianza viva degli apostoli, il Cristo si fa, invece, rivelazione dell’essenza amorosa di Dio e della sua dimensione trinitaria; svela
la sua missione di Figlio, mandato sulla
terra, quale messaggero dell’amore
del Padre, con il compito di ricomporre
e re-instaurare l’originario amore
infranto dal peccato di Adamo ed Eva, riprendendo quel progetto originario
della buona volontà di Dio per gli uomini; attraverso un sacrificio redentore-riparatore, la sua morte in croce,
imperscrutabile mysterium salutis, scandalo
per i Giudei e stoltezza per i pagani (1 Cor
1,23), che ha sortito l’effetto
straordinario di redimerci dal peccato originale e renderci fratelli di Gesù Cristo e in questo figli nel Figlio; per un’alleanza
definitiva, totalmente nuova nella sua dimensione partecipativa, ora da figli, alla vita trinitaria e caratterizzata da un unico comandamento, quello dell’amore-caritas, da figli, verso Dio e verso il prossimo,
quest’ultimo in una prospettiva ben più universalistica di quella ebraica.
Infine
il Cristo perfeziona la sua opera di salvezza con l’invio dello Spirito Santo, Spirito dell’amore e paraclito per la vita dei cristiani, nuovo popolo di Dio (cfr. LG n.4).
Capone,
sostenuto dagli studi di Schlier e di Schnackenburg, sembra volersi spingere
anche oltre. Nella
visione paolina e giovannea del “per
Cristo, con Cristo e in Cristo”, nel
quale tutto si genera, tutto si
ricapitola e tutto si re-instaura, si
riconosce in Cristo sia l’immagine
fondamentale, il proto-tipo di ogni
uomo, creato a immagine di Dio in
Cristo-persona, che il fondatore
originario di una vita morale, che propone un processo di personificazione (“del Cristo in noi e di noi nel
Cristo”), e una nuova soggettività e con-soggettività morale, che dà senso teologico e spessore ontologico al nostro
essere-di-persona.
3.3. Dimensione
escatologica e universalistica della morale cristiana
La
proposta della morale cristiana si realizza compiutamente nella sua dimensione escatologica che impone ai credenti un leale impegno di servizio e di collaborazione
con tutti gli uomini, per la costruzione, sulla terra, dell’unico regno di Dio,
e nella sua prospettiva universalistica.
Il vero peccato grave rimane
quello contro la carità: evangelicamente identificato, non solo nel fare del
male al prossimo, peccato riconosciuto da tutte le religioni, ma anche in senso
veramente innovativo nel non prestare aiuto al fratello che vedi soffrire (cfr 1 Gv 4,20-21), a cui Dio
tende sempre l’orecchio e nel quale è viva l’immagine di Cristo.
Gli
esempi evangelici, in particolare quello del Ricco Epulone, del Buon
Samaritano e del Giudizio Universale
non fanno che confermarlo.
La dimensione escatologica
La dimensione escatologica
della vita morale, libera da imperativi
categorici e ipotetici, sostituiti
dalla sequela Christi (cfr. Mt 10,17-30), si traduce in una concreta
e leale partecipazione da redenti
alla costruzione della città degli uomini,
per “trasformare la successione dei secoli in
storia di liberazione del mondo”, “alla luce della risurrezione del Cristo e
della sua parusia”, come ricorda Capone.
Solo così la grandezza della vocazione
dei fedeli in Cristo si potrà finalmente manifestare a tutti, e portare frutti di carità per la vita del mondo,
come esplicitamente richiesto dal Concilio, in tanti suoi documenti.
Non più, quindi, un’escatologia da
affiancare ad altri settori del sistema teologico cristiano: scrittura, dogmatica, morale, liturgia, spiritualità, pastorale, ecc., che un insegnamento a trattati, impartito
specie nei seminari e anche negli Istituti Superiori di Scienze Religiose
(ISSR) ha reso compartimenti stagno,
né multidisciplinari né interdisciplinari e totalmente autoreferenziali, con
ricadute negative nella vita pastorale. In non poche realtà diocesane i tre munera (catechesi, liturgia, carità)
sono diventati tre uffici di curia a
se stanti, spesso neppure comunicanti tra loro, né orientati a una pastorale
unitaria centrata sulla persona e sul suo rapporto con il mondo, come richiesto
dall’ultimo convegno della Chiesa Italiana, a Verona nel 2006.
La dimensione escatologica, che
pone la persona al centro per la
realizzazione del regno di Dio, è,
per Capone, il coronamento della vita
morale del cristiano, onniavvolgente
l’intero sistema, presente e operante in tutti i suoi ambiti. In una parola è la dimensione stessa e attuale dell’essere e
del vivere morale cristiano.
Una
morale per tutti gli uomini di buona volontà
Afferma
LG 13 che “tutti gli uomini sono chiamati a formare il popolo di Dio”,
mentre OT 16 impegna il cristiano per
un servizio di carità per la vita del
mondo, ma la salvezza cristiana, conseguenza dell’unico sacrificio
redentore del Cristo, è offerta a tutti gli uomini
di buona volontà,
con o senza adesione formale a Cristo e alla Chiesa, perché ogni gesto d’amore,
fatto ai più piccoli e indifesi, fosse anche quello minimale di un bicchiere d’acqua
dato a un assetato, viva
immagine di un Cristo non riconosciuto (cfr. Mc 9,41), è fatto al Cristo stesso ed è fonte di salvezza
(cfr. Mt 25,45).
I vangeli ne danno un’ampia testimonianza: dal buon samaritano (cfr. Lc
10,25-37), che pur vivendo ai margini della comunità ebraica ortodossa a causa
della sua dottrina incerta e approssimativa, si mostra ricco di umanità e di
carità facendosi prossimo al
malcapitato, mentre il levita e il sacerdote, esperti in religione, evitano
persino un contatto che li renderebbe ritualmente impuri, passando dall’altra
parte; al semplice gesto di misericordia verso il Cristo sofferente in croce,
da parte del buon ladrone, premiato
all’istante con la promessa del paradiso (cfr. Lc 23,39-43); per finire con il racconto del giudizio universale (cfr. Mt
25,31-45), nel quale si offre la vita eterna a coloro che hanno saputo
accogliere Cristo nei poveri e negli ultimi, senza averlo mai conosciuto prima, e si condannano gli altri che,
pur conoscendolo, non si sono
schierati dalla parte dei diseredati e degli oppressi.
Il peccato grave contro la carità: il caso del
ricco epulone
In
quasi tutte le religioni, generalmente, con il termine di peccato o di colpa grave, con pesanti conseguenze in una vita
ultraterrena, s’indica il male
volutamente fatto agli altri, dall’offesa, all’oppressione, all’ingiustizia
ecc. Nei vangeli il termine definisce sia il male fatto al prossimo, in pensieri, parole e opere, che il bene non fatto, il cosiddetto peccato di omissione, la cui gravità è connessa
alla mancanza di carità e alla sofferenza dei fratelli.
Purtroppo
certo manualismo e giuridismo morale hanno minimizzato, a
volte, i peccati d’omissione, considerandoli
alla stregua di colpe veniali, per distrazione
o disattenzione, privi, cioè,
della piena avvertenza e deliberato consenso, anche se in
presenza di ”oggettiva materia grave”.
Il
racconto del ricco epulone (cfr. Lc
16,19-31), che porta alle estreme conseguenze quanto già affermato nei brani
del buon samaritano e del giudizio finale, sembra volersi muovere in un’altra prospettiva
e con una logica morale meno giuridistica.
Non
sono pochi gli elementi nel racconto volutamente posti in forte contrasto. Il
povero Lazzaro, per il solo fatto di
essere mendicante e coperto di piaghe, alla sua morte, è portato dagli
angeli nel seno di Abramo, premiato senza aver fatto, apparentemente, nulla per
meritarselo, mentre il ricco è condannato all’inferno, per la sola colpa di non essersi preso cura di Lazzaro, occupato,
com’era, a godersi il frutto delle sue ricchezze, tra l’altro onestamente
guadagnate. La situazione di povertà del mendicante non è attribuita al ricco
epulone, né è conseguenza di azioni malvage da lui compiute nei suoi confronti.
Non si dice, neanche, che egli abbia mai offeso o maltrattato Lazzaro,
incrociandolo davanti la porta di casa. Infine nessuno dei tradizionali
comandamenti sinaitici, “non fare”, “non dire”, “non commettere”, “non
desiderare”, imponeva, di per sé, al ricco epulone l’obbligo di aiutare il
povero Lazzaro, anche se la legge fondamentale dell’ebraismo, dell’amore per
Dio e per il prossimo (cfr.
Dt 6,4-5),
ricordata dallo scriba (cfr. Lc 10,27), imponeva al pio ebreo di
mostrare pietà e compassione, almeno verso i membri del proprio popolo
(“un’amore verso Dio e verso il prossimo” non ancora nel senso pienamente
universalistico proposto dai vangeli).
Il suo unico grave peccato, dunque, agli occhi del vangelo, rimane quello di non aver aiutato un
fratello in difficoltà: non un semplice peccato di omissione, ma una colpa
così grave da meritargli la stessa punizione riservata a chi, di proposito, fa
del male al prossimo, ossia l’inferno.
Conclusione
Nessuno, penso, può ignorare o sottovalutare l’attuale crisi sociale,
culturale e morale, che stiamo attraversando, che sembra andare ben al di là
delle stesse sfide del XX secolo.
Il dibattito (culturale e filosofico) di questi anni, ha fissato alcuni
punti di non ritorno: il
riconoscimento del valore ontologico insito
nell’esperienza e in particolare nell’esperienza
morale; la centralità di una persana
umana, libera e responsabile, capace, cioè, di atti coscienti, volontari, liberi e interpersonali,
elemento indispensabile per la validità dell’agire morale; e l’ineludibilità della
domanda di senso, che interpella
l’intera umanità, divenendo elemento di discrimine e di verifica delle varie
posizioni filosofiche, religiose e culturali.
Attardarsi nella difesa della morale preconciliare, oggi può essere una
tentazione da parte della comunità cristiana e dei suoi pastori, se non una colpa grave, come ammoniva Capone, e
come tale va vissuta e superata.
Il rinnovamento della teologia
morale è stato espressamente voluto dal Concilio Vaticano II, che ne ha,
anche, indicato gli elementi costitutivi: la centralità del Cristo per la
vita del cristiano e perno e riferimento di tutta la storia della salvezza;
la grandezza della vocazione cristiana, con l’obbligo di
apportare frutti di carità per la vita
del mondo (OT 16); l’attenzione al sacrario della coscienza, cuore
pulsante della vita morale cristiana, nel quale si realizza l’incontro
amoroso tra Dio e l’uomo, fonte di decisione morale (GS
16); e infine la libertà religiosa che
si poggia sulla libertà di coscienza,
e che ogni uomo è tenuto a seguire (anche se in errore), e nessuno può,
dall’esterno, violare (DH 2-3).
Capone, vivace interprete di quel periodo
storico, così fecondo per la Chiesa cattolica, ha composto una sua personalissima
sintesi di teologia morale, attenta al dato conciliare e alle istanze del
nostro tempo, intesa come superamento delle varie forme di manualismo, casismo, giuridismo morale e quidditativismo
essenzialistico, dominanti la teologia fino alle soglie del Vaticano II. Arricchiscono
la proposta: un personalismo cristologico,
ripreso da s. Tommaso, che ha il
suo costitutivo ontologico-fontale nel
Cristo, proto-uomo, sulla cui
immagine ogni uomo è stato creato, ed
esistenziale che si realizza nell’incontro personale con il Cristo, e che
fa sì che l’uomo si riconosca come persona, capace di autonomia e libertà
decisionale; l’opzione fondamentale,
da verificare e rinnovare costantemente, sostiene la sequela Christi, in cammino
di santità, da vivere in libertà e
fedeltà; la vita di unione sacramentale con il Cristo, nella quale soggetto e
con-soggetto si riconoscono reciprocamente e si ritrovano; la preghiera, personale e liturgica, fonte primaria di decisione morale; il legame-confronto con una comunità di cristiani, essa stessa, sacramento di salvezza; la dimensione escatologica, tesa a portare frutti di carità per la vita del
mondo e l’apertura universalistica a
tutti gli uomini di buona volontà, per una vita morale orientata più al servizio
di carità verso tutti gli uomini che all’auto-perfezionamento, ecc.
Quando si scrive “un’altra proposta
morale è possibile”, questo s’intende.
Domenico Capone nasce a Siracusa il 3 maggio 1907. Compie i suoi studi di
Filosofia presso la Gregoriana di Roma e presso L’Institut Catholique e
la Sorbona di Parigi. Dal 1957 al 1985 è docente di Teologia Morale
presso l’Accademia Alfonsiana di Roma. Muore il 23 giugno 1995. Per una
completa bibliografia su Capone, M.
Nalepa - T. Kennedy (a cura di), La coscienza morale oggi.
Omaggio al prof. Domenico Capone, Edacalf, Roma 1987, 15-22; su D. Capone: C. Nappo, La decisione:
culmine della moralità personale. Indagine in alcuni autori italiani, Napoli
1996; M. Doldi, Fondamenti
cristologici della morale in alcuni autori italiani. Bilancio e prospettive. LEV,
Roma 2000; A. Niemira Religiosità
e Moralità. Vita morale come realizzazione della fondazione cristica dell’uomo
secondo B. Häring e D. Capone, Ed. PUG, Roma 2003; M. Perchinunno, La dimensione
pneumatologica della vita cristiana nei manuali italiani di teologia morale,
(1970-1990), Morlacchi Ed., Perugia 2003.
Non è raro,
infatti, trovare nei confessionali di certi santuari o in internet alla voce esame di coscienza o sacramento della confessione, materiali
o brochure con riferimenti ai soli comandamenti, mentre circolano persino
riedizioni del catechismo di san Pio X, giudicato di più facile memorizzazione
per bambini e ragazzi. Di contro si assiste a un altissimo numero di abbandoni della pratica religiosa, attorno
all’80-90%, proprio dopo il sacramento della cresima, che dovrebbe sancire la
fine dell’iniziazione cristiana e l’ingresso a pieno titolo nella comunità
degli adulti. I gruppi di post-cresima,
tesi a recuperare, per qualche anno ancora, la restante parte, sono per lo più
lodevoli palliativi, certo non efficaci cure per tanta emorragia. In sostanza,
sembra che, in quasi sette anni di catechismo, e forse anche più, se si contano
quelli che vanno dal battesimo alla prima confessione, le nuove generazioni di
cristiani non riescano ad appassionarsi-innamorarsi
di un Cristo, Maestro buono, che
può dare senso e significato a un’intera esistenza, a vivere una dimensione liturgica e sacramentale, non ridotta a ritualismo
o devozionismo, e a percepire la vita di carità come servizio per
la vita del mondo.
In supporto alla casistica, differenti scuole
teologiche hanno prodotto nei secoli un ventaglio impressionante di sistemi morali (probabilismo e probabiliorismo, equiprobabilismo e rigorismo), che avrebbero dovuto agevolare in dubiis la formazione del giudizio di
coscienza, nella pratica in continuo e aspro contrasto tra i vari sostenitori
dell’una o dell’altra teoria, con il risultato di complicare la vita morale del
cristiano più che semplificarla (cfr. D.
Capone, Sistemi morali, in Nuovo Dizionario
Enciclopedico di Teologia Morale, Ed. Paoline, Roma 1990, 1246-1254).
La condanna del Modernismo, “sintesi di tutte le eresie”, da parte
di Pio X nel 1907, è solo un altro esempio, ultimo in ordine di tempo, della
difficoltà di dialogo tra un consolidato cristianesimo, la cui epoca patristica
termina con il XIII secolo, e i nuovi contesti culturali e filosofici emersi
nel frattempo ed esplosi in epoca moderna.
Cfr. G. Mura,
«Dal moderno al postmoderno: sfide e prospettive», in Aquinas 46 (1998/3), 553-582.
Nell’impostazione
preconciliare, ricorda Capone, il laico era considerato come un cristiano di
serie B, uno che non avendo avuto il coraggio o la forza di seguire i consigli
evangelici, si dava alle cure secolari, e tra queste anche il matrimonio,
realtà tutte che, in una visione stoico-neoplatonica, avrebbero impedito quel
distacco dal mondo, richiesto dal cristianesimo. Non è un caso che il vecchio
diritto canonico indicava tra gli scopi del matrimonio quello del “remedium concupiscientiae” e della
procreazione, mettendo in oblio l’amore coniugale, giustamente recepito dal
nuovo Codice (Cfr. D. Capone, «La teologia morale, ieri, oggi», 547-549).
D. Capone,
Teologia morale e carità, in Atti del I convegno teologico pastorale
su Carità: ermeneutica e metodologia, Dehoniane, Bologna 1987, 141; cfr. M. Nalepa - T. Kennedy (a cura di), La coscienza morale oggi, 12-14.
A tal proposito si fa illuminante il n. 22 “La
persona, cuore della pastorale”, della
Nota Pastorale dopo il 4° Convegno Ecclesiale di Verona del 2006: “L’attuale
impostazione pastorale, centrata
prevalentemente sui tre compiti fondamentali della Chiesa (l’annuncio del
Vangelo, la liturgia e la testimonianza della carità), pur essendo
teologicamente fondata, non di rado può apparire troppo settoriale e non è
sempre in grado di cogliere in maniera efficace le domande profonde delle
persone: soprattutto quella di unità, accentuata dalla frammentazione del
contesto culturale. [...] Mettere la
persona al centro costituisce una chiave preziosa per rinnovare in senso missionario la pastorale e
superare il rischio del ripiegamento, che può colpire le nostre comunità. Ciò
significa anche chiedere alle strutture ecclesiali di ripensarsi in vista di un
maggiore coordinamento, in modo da far emergere le radici profonde della vita
ecclesiale, lo stile evangelico, le ragioni dell’impegno nel territorio, cioè
gli atteggiamenti e le scelte che pongono la Chiesa a servizio della speranza
di ogni uomo”.
Cfr. Carlo
Maria Martini, Farsi prossimo, Lettera pastorale (1986-1987), Milano,
9 dicembre 1986.