25 GIUGNO: L'ACQUA CHE NON C'E'
L’antifona ha cominciato a suonare male fin dal primo giorno
in Sicilia, in casa del mio amico di Licata: “non sprecare l’acqua”, “apri e
chiudi il rubinetto del lavandino quando ti lavi i denti o ti fai la barba”, “prima
ti insaponi senz’acqua e poi apri l’acqua della doccia”, “non bere l’acqua dal
rubinetto”. Mi sembravano tanti avvisi, “keep out” con relativo teschio e ossa
in croce, da campo minato: restrizioni antiche, da Foggia assetata, che avevo
proprio rimosso. Un tuffo nel passato, quando anche da noi l’acqua delle
fontanelle e a casa, senza l’autoclave, veniva a mancare sempre nel momento più
necessario, attorno all’ora di pranzo o poco dopo e io bambino che, tornato a
casa, accaldato dopo una partitella di calcio, bevevo la prima cosa che stava in
un bicchiere e spesso era acqua e candeggina, usata da mia madre per lavare i
panni. Ci sono cascato ben due volte da ragazzo e all’ospedale non ero il solo,
ma eravamo in tanti, in coda per la più classica delle lavande gastriche. L’odore
acre e il vomito verdastro è tutto quello che mi ricordo. Ma mi spavento
ancora. Altri ci morivano pure. Insomma anche ad Agrigento e dintorni l’acqua è
diventata più preziosa dell’oro, soprattutto quando ha cominciato a gestirla
una ditta privata appaltata dai comuni, la “Girgenti acque”, un nome che è un
programma, con bollette che fanno tremare i polsi a tutti i cittadini dei 43
comuni della provincia. Ogni tre mesi puntualmente avviene il salasso
organizzato da questa società che ha il monopolio delle acque. Bollette da
capogiro, al cui paragone quelle dell’Enel sono regalini di natale sotto
l’albero. Ma andiamo per gradi. Agrigento aveva due splendidi fiumi all’epoca
cartaginese-romana, che fiancheggiavano la valle dei templi. Da tempo
prosciugati o fatti prosciugare, non si bene quando, come e da chi. Punto
numero uno. Punto numero due: il sottosuolo è ancora ricco d’acqua, bastano i
pozzi artesiani e almeno per l’agricoltura la cosa dovrebbe essere risolta. Ma,
punto tre: è proibito assolutamente scavare pozzi. Punto quattro: tutte le case
della provincia di Agrigento si sono rifornite, come a Foggia nei tempi duri,
di vasche sul tetto e autoclavi nei box. Perché l’acqua viene erogata ogni tre
giorni, “quando va bene” mi dicono, e se non hai le riserve in casa, puoi anche
lavare, cucinare e bere con l’acqua minerale. Ma non è finita qui. Il mio amico
a parte limitarmi nell’uso dell’acqua mi ha anche tassativamente proibito di
berla. E ora si capisce perché. E’ acqua stagnante di autoclave e per giunta
senza il necessario cloro. Insomma una cosa da deserto del Sahara. E Licata sta
sul mare e da anni oramai usano i desalinatori, che qualcosa fanno, oltre a
dare un pessimo gusto all’acqua. Peggiore è la situazione dei paesini di
montagna, come i nostri sull’Appenino Dauno (ma da quelle parti l’acqua non è
mai stato un problema). Ne ho visitato uno, Casteltermini, 7.500 abitanti,
disoccupazione giovanile quasi all’80%, agricoltura e fabbriche tutte chiuse. L’acqua
non ce l’hanno neanche con i pozzi artesiani. Le industrie a una a una se ne
sono andate lasciando un paese di pensionati, con pensioni da fame, se si
eccettuano i privilegiati ex-schiavi solfatari, per loro è d’oro 4-5mila euro
al mese. La storia me l’ha raccontata un vecchio collaboratore del parroco,
amico siciliano, che ha avuto la “fortuna”, dice lui, di sostituire a quindici
anni il padre malato, nell’unica solfatara del paese che dava da mangiare a
metà paese. “Estrarre lo zolfo è diventato sempre più costoso e da una decina
d’anni è tutto chiuso”, mi ha detto allargando le braccia. E poi i racconti di
miniera, manco fosse un secondo “Ciaula scopre la Luna” di Pirandello. Vita
dura, quella in miniera, a cominciare dall’aria che non c’era, dall’umidità che
si appiccicava alla pelle e vi restava attaccata anche quando la si voleva
lavare con la poca acqua a disposizione in casa. Ha detto “vedi qualche giovane
in città? Solo vecchi e bambini”. Eravamo 18.000, ora 7500 e tutti avanti con
gli anni. Facciamo sacrifici d’ogni tipo e poi arriva il Girgenti ad alleggerire
ogni tre mesi le nostre pensioni. Tutto vero, l’ho constatato di persona. La
fabbrica dal tetto di lamiera chiusa e fatiscente, laggiù a valle. I bambini
che giocavano all’oratorio, vecchi per le strada, con la faccia stanca e
segnata da rughe antiche. In compenso hanno il mare, non quelli di Casteltermini,
ma quelli di Licata sì: un bel mare pulito come una piscina, mosso quanto
basta, guastato di tanto in tanto da qualche cadavere devastato dagli squali.
Già dall’altra parte di questo canale di Sicilia c’è gente che sta peggio di
loro. Ma questa è un’altra storia.
27 GIUGNO:
TUTTA COLPA DI ESCULAPIO.
LA VALLE DEI TEMPLI: UNA FEDE ANTICA
Avevo sentito parlare della “Valle dei templi” nella piana
sottostante Agrigento, città sicula-greco-romana del VI secolo avanti Cristo,
ma non c’era mai stata occasione di visitarla. E così mi sono ritrovato in
questi giorni, ospite di un generoso amico siciliano, a poterne percorrere le
vie e visitarne le vestigia, senza la solita fretta del turista, giapponese
tutto scatti-sorrisi- e-via, e con una guida (che ha voluto solo si fa per dire
dieci euro a testa) tanto discreta quanto forse inconsapevole partecipe di una
“visita” che alla fine ha sortito l’effetto di un ritiro spirituale. Ma questo
la guida non poteva immaginarselo. Tre tassisti (tre euro a persona, e cinque
in una macchina fanno quindici euro per un tragitto di due minuti) ci hanno
portato sul punto più alto della valle, al cosiddetto tempio di Giunone. Così
finalmente dopo il ticket d’ingresso (10 euro a testa e siamo a quota 23), il
pellegrinaggio ha potuto muovere i primi veri passi, pedibus calcantibus, per
le impolverate strade della città sacra. Insomma un tour turistico-religioso.
tra i templi, in tutto dieci, ma solo cinque salvati dalle devastanti, si fa
per dire, fatiscenti, quanto si vuole, ma ruderi imponenti di una religione,
troppo sbrigativamente bollata dai cristiani per “pagana” e quindi di scarso
interesse se non culturale. Una domanda mi ha seguito per tutto il tempo e le
tante viuzze di questa cittadella degli dei: “ma chi ci ha dato tutto questo
diritto di declassare a “religione naturale”, una così ricca e vitale religione
capace di creare santuari tanto imponenti e ancora oggi pulsanti di vita? E
vada che si tratta di un movimento naturale che dall’uomo va verso Dio, ma si
chiede forse troppo se esso s’intrecci con quello che da Dio va verso gli
uomini, delle cosiddette religione rivelate? In quelle “naturali” la vita,
almeno a vedere queste imponenti vestigia, sembra stare al centro o al primo
posto, in altre religioni il sopravvento del “rivelato”, non sempre scevro da ideologie
a buon mercato, sembra essere riletta e reinterpretata fino ai disumani sanguinari
discendenti di Maometto, che in nome di un loro unico e presunto Dio
ispiratore, scannano e fanno strage di persone e di cose. E’ la vita che sembra
essersi allontana in queste religioni. In questa valle polverosa e per certi
versi desolata sembrava essere un altro il senso della vita: ogni tempio ne
esaltava uno dei suoi aspetti vitalistici. Forse agli animalisti dell’ultima
ora può risultare indigesto il massacro di cento tori (un’ecatombe) sacrificati
nelle principali feste religiose, ma tutto era centrato sull’uomo e la sua
terrena esistenza. Tutto sembrava armoniosamente intrecciarsi in questa valle
sacra: dalla fecondità (il tempio di
Giunone), al potere (il tempio di Zeus), al contropotere (il tempio dei
Titani), alla vita di tutti i giorni nei tempietti minori dei Dioscuri e di
tante altre divinità della natura, per poi concludersi nella la “clinica
religiosa”, come l’ha definita la nostra guida, del tempio di Esculapio. Templi
e necropoli che si rincorrono per tutta la valle. Il contrasto è tutto qua,
almeno sembra: la vita in tutti i suoi aspetti, nella religione cosiddetta
naturale, e un’altra vita, spesso costruita a tavolino, di come “dovrebbe
essere quella rivelata direttamente da Dio”. Anche se poi gli stessi riti della
vita e della morte le attraversano entrambe. Chi guarda comparativamente le
cose, ci vede poche differenze, e purtroppo visto le stragi prodotte dalle
cosiddette religioni rivelate o presunte tali, in tutta la storia del mondo, non
c’è da stare molto allegri, qualora prendessero il sopravvento. E intanto si
passava da un tempio all’altro troppo soprappensiero per me, in un’inaspettata
cittadella della fede. Imponenti ruderi divenuti tali grazie ai cristiani
conquistatori che li avevano trasformati in cava a cielo aperto e a buon
mercato per le loro chiese quello dell’”unico vero Dio” e senza pagare alcun
biglietto. In contrasto chiese nuove ma costruite con materiale antico e a
volte senza l’accortezza di cancellarne i simboli e i riferimenti pagani come
avvenuto per Roma e tante altre città dell’impero. La conclusione “rivelatrice”
è stata proprio il tempio di Esculapio, là più a valle. In esso l’adorazione
del Dio della medicina e l’invocazione della grazia si intrecciava con la cura,
la migliore del tempo. Passando per quella valle si rimane impressionati, quasi
sgomenti davanti a tanta forza religiosa e se si vuole anche tanta forza morale.
Su tutto domina il silenzio neppure rotto dalle tante comitive di turisti che
si perdono e si disperdono in quei quasi due-tre chilometri quadrati di area
sacra, senza accavallarsi o interferirsi, in un itinerario che non poteva non
diventare religioso e mistico di fronte a tale profluvio di chiese e chiesette
di una religione, forse morta prima di suo che per diretto influsso delle tante
successive, certamente più agguerrite e forti per ideologia. Dopo circa tre ore
abbondanti si chiude la visita, o forse la giornata di ritiro spirituale. Si
esce dall’area sacra per ritornare alla vita profana, lontana chilometri da
ogni tipo di religione sia essa naturale o rivelata. Ci pensano le bancarelle
di souvenir e i distributori automatici di graditissime bibite ghiacciate a
cancellare quello che partito come gita turistica si era trasformata in ritiro.
L’imponenza della valle e dei suoi templi rende patetiche tante nostre chiese e
chiesuole cosiddette cristiane, spoglie fino al minimalismo architettonico, a volte
asettiche come tante corsie d’ospedali, ridotte a luoghi di convivialità e d’incontro
più che di preghiera e intimità mistica con Dio, come avevano ben capito i
pagani e soprattutto sempre più lontane da quella dimensione vitalistica e di
ritmi di vita che questa valle ricorda con tanta forza. Nessuno vuol tornare al
vitalismo delle religioni antiche, ma che almeno in nome di Dio, Geova o Allah,
ci si ripieghi sui problemi degli uomini invece di allontanarsi da essi. La
domanda resta: chi ci ha fatto dimenticare la religiosità dei ritmi delle stagioni
e della vita? Chi ha paura che un rosario possa inquinare una messa, o una
processione di incappucciati far ritornare al tribalismo preistorico? Se una
pulsione religiosa naturalistica ha dato vita a una cittadella degli dei, tanto
imponente e significativa, capace ancora di impressionare dopo duemila e
cinquecento anni, qualcosa di grande e di significativo per l’uomo d’oggi dovrà
pur esserci, anche se ebreo, cristiano o mussulmano. Troppa sufficienza ci porta
a fare i turisti sorrisi-flash-e-via, mentre sarebbe tempo di cambiare passo.
Dalla morta valle dei templi la vita, quella vera degli uomini, pulsa ancora. Una
lezione da imparare. Un’ultima domanda: come mai una normalissima gita
turistica si è trasformata in un ritiro spirituale? Di chi la colpa? Certo
dell’imponenza di ruderi e del ricordo vivo delle tante celebrazioni che in
essi si rincorrevano per tutto l’arco dell’anno e delle stagioni. Ma dobbiamo
confessarlo è stata tutta colpa di Esculapio: il Dio della medicina, un
tempietto minore, laggiù in un angolo in fondo alla valle, dove si adorava un
Dio che prometteva salute e benessere, all’uomo sofferente di oggi, più che
paradisi futuri semmai ricchi di belle donne e di tante altre gioie. Davvero è tutta
colpa di Esculapio.
28 GIUGNO:
LA FEDE RITROVATA
Ero già stato a visitare Monreale e Cefalù, i due capolavori
dell’arte normanna in terra di Sicilia. Mi mancava, perché quel giorno chiusa,
la Cappella Palatina a Palermo. Questa volta è stato possibile. E’ proprio
vero, da queste parti le cose di cultura, arte, storia, che le altre regioni
pur ti offrono a spizzichi e mozzichi, sono date a piene mani, non in un solo
esemplare, ma in dieci, cento, in un progress
di straordinaria ricchezza e bellezza. La stessa impressione per le chiese di
Noto e Ragusa Ibla, veri gioielli dell’arte barocca siciliana, visitate l’altro
ieri. Le chiese, si sa, sono luoghi di culto e spesso esprimono, bene o male, la
fede della gente che le ha edificate e consegnate alla storia. In una
discontinuità che impressiona, invece, molte delle nostre chiese sono spesso capannoni
o garage riadattati, costruiti in fretta, con poca spesa e diciamo pure senza troppa
fede. Pur di avere in poco tempo “un’aula liturgica”, come dicono gli esperti,
ogni ambiente, garage, capannone, stanzone va bene: “la gente non può attendere
i cento anni che ci sono voluti per la fabbrica di san Pietro”, dicono. E’
proprio in questa frettolosa realizzazione di strutture religiose, che si
percepisce a volte non solo la mancanza di buon gusto e di arte, ma più spesso
di fede e di quella vera. Mi ha detto un prete siciliano incontrato davanti
alla cattedrale di Ragusa che, meno male che il materiale utilizzato per queste
rabberciate chiese moderne è spesso scadente, fatto di cemento, ferro e colori
acrilici, che presto si dissolveranno, per poi scomparire con noi, così non
saremo giudicati male dalle future generazioni. Celebrare una messa o un
sacramento è un atto sacrale a tutti gli effetti e necessita di tempi e luoghi
adatti. Sopportiamo malamente che qualcuno nella storia abbia affermato che “Parigi
val bene una messa”, ma così non è e non può affatto essere. La messa e le
celebrazioni liturgiche sono altra cosa che puro formalismo religioso, cui
sottostare per obbligo o interesse. La Cappella Palatina e le chiese barocche
di Noto e di Ragusa questo vogliono farci intendere. Le loro navate da sogno, che
sanno di paradiso, le splendide icone, gli sfondi dorati, gli intarsi
multicolori, la successione di scene bibliche alle pareti, sono il segno di una
grande fede: un’anticipazione sulla terra proprio di quel paradiso, promesso ai
buoni. Quando il prete dice “questo è il mio corpo” e “questo è il mio sangue”,
compie l’atto magico per eccellenza della nostra religione e si addentra in un
mistero che l’abitudine ha reso, in alcuni casi, persino banale nella sua
stentorea ripetitività. Molta colpa di questa banalità va anche addebitata a un
ambiente, nel quale quelle sacre parole si disperdono in un minimalismo
architettonico, disadorno e asettico. Tutto ha inizio da certi androni delle
nostre chiese, tappezzati di ogni tipo di manifesti e manfestini, sempre più
simili a edicole di giornali. Provate a vedere l’ostia alzata e tenuta alta per
qualche minuto, nella prospettiva del Cristo Pantocrator della cattedrale di
Monreale, Cefalù o Cappella palatina o con lo sfondo barocco della cattedrale
di Ragusa: dietro quell’ostia appare tutta l’imponenza di una figura che ti
convince, senza ulteriori sforzi di fantasia o di fede sublimata, che sei in
presenza di un Dio che ti è vicino, ti ama e ti salva. Quel Cristo che si sta
reincarnando in quell’ostia, è lo stesso che ti guarda tra il severo e
l’amorevole da absidi da favola, che ti fa innalzare verso il cielo col
movimento delle volte e degli archi spezzati di un baracco pieno di sacralità:
c’è continuità religiosa non discontinuità di fede tra la loro visione e la
nostra. O provate a dire “questa volta sulla terra”, come dicevano gli ebrei,
sospirando la terra santa, e la “prossima in paradiso”, che dovrebbe essere il
nostro sospiro di cristiani, in un abside bianco smorto, con un incombente Cristo, morto-insanguinato da una
croce. Il contrasto si fa vivace tra due modi di intendere la fede e la
religione: da un lato il Cristo pantocrator, vivo che ispira vita, come i tanti
simboli dell’eucarestia sparsi per le chiese barocche, e dall’altra un Cristo crocifisso,
sofferente in eterno (realtà pur sempre vera e necessaria al cristianesimo ma
solo a partire da una certa data divenuto predominante), troppo spesso
accompagnata da una Addolorata, con sette spade conficcate nel cuore. Sarà a
volte una questione di gusti o di visioni del cristianesimo, personalmente il
primo mi attira e mi entusiasma di più, il secondo a volte irrita per una
resurrezione che tarda a venire. Preferisco pensare alla chiesa come al luogo
dei beati sulla terra, che inneggiano alla risurrezione del Cristo, in attesa
del suo ritorno, e da questa esperienza attingono forza e coraggio per aiutare
il mondo sofferente e bisognoso. Preferisco vivere quest’esperienza
mistico-religiosa, qual è appunto la messa, avvolto dall’oro dei mosaici palatini, sui
quali si stagliano dopo il Cristo risorto e glorioso, le immagini altrettanto
solenni di Maria, degli apostoli e dei santi, colti nello splendore del
paradiso e proprio in quello stesso momento ti stanno osservando e sostenendo
nella fede. Quegli sguardi che ci vengono da un modo pensato bello e beato sono
un invito a fare presto e bene nella carità, per entrare a far parte anche noi
quanto prima di quella stessa schiera beata. Questa è chiesa, questa è aula liturgica
che invita alla gioia e alla speranza, non certo certe stamberghe, garage o
stanzoni impropriamente chiamati luoghi di culto. Per far raggiungere ai fedeli
quei livelli di fede, in certe nostre chiese, c’è quasi bisogno di un miracolo.
Qualche settimana fa ho detto la messa a San Ciro a Foggia per un ragazzo morto
d’infarto. Non riuscivo ad alzare lo sguardo sulla navata, scarsamente
illuminata e meno male, perché attenuava quel colore giallo paglierino, più
simile a cacca di bambini che all’oro della cappella palatina, con il quale qualche
prete, forse daltonico, aveva pensato bene di affrescarne le pareti. E poi ci
si meraviglia che la gente viene in chiesa, spesso in ritardo e “per dovere”,
vi sta lo stretto tempo necessario, per poi scapparsene, come un fiume in piena,
appena il sacerdote dite “andate in pace”, che suona più come liberazione che un
invito alla pace e alla gioia da portare nel mondo. Ecco tutta qui la
differenza. Altra cosa da una cappella bianco smorto, con un Cristo enorme che
ci sovrasta dall’abside, nella quale ogni mattino mi tocca celebrare
l’eucarestia, sempre con la fretta che alle 8,30 inizia la scuola e si deve
correre a fare “il proprio dovere”. Bianco l’abside, bianca la navata, bianco
vestite le suore, per un momento di apnea mistica, interrotto solo dal marrone
chiaro del Cristo e il marrone scuro delle tre porte, sempre rigorosamente
chiuse, che non fanno passare neanche l’aria, visto che non danno sull’esterno ma
in altri ambienti della casa. “La chiesa come il cuore della comunità” avevano
pensato il Vescovo Farina e il suo architetto, ma si erano dimenticati che quel
cuore ha bisogno d’aria, e d’aria pura e di colore oltre che di colore, per
ricordare appunto il rosso vivo pulsante di un cuore, altrimenti diventa
asfittico diluito in un onirico biancore. Qualcuno dirà “troppa sensibilità di
questo tipo può dare alla testa, in fondo una messa è valida dovunque e
comunque essa venga celebrata”. Questo sarà vero, per dogmatici e catechisti dell’ultima
ora. Com’è vero che l’importante in fondo è mangiare, poi che si mangi con
tanto di tovaglia, doppi bicchieri, tovagliolo di stoffa, posate e un regolare primo,
secondo, vino e frutta, o in un fast food alla MacDonald con posate di plastica
e tovagliolini di carta, la differenza è minima. Mi ricorda quel parroco
americano che metteva tutto nello stesso piatto, antipasti, primo, secondo e
frutta, e poi faceva una seconda ripassata con gli stessi ingredienti. A me
allibito che osservavo la scena mi diceva “ma che vuoi, sempre nello stomaco
vanno a finire”, inutile controbattere. Lascio con una pena nel cuore questi
angoli di paradiso, visitati forse troppo in fretta. So che fra non molto dovrò
tornare al biancore spento della mia cappellina feriale. Potrò dire d’essere
stato in paradiso, almeno per qualche giorno, sarà più facile sopportare così
il purgatorio o se si vuole l’etero limbo, nel quale mi tocca pur vivere ancora
per un po’.
7 LUGLIO:
L'ACCOGLIENZA FAMILIARE:
L'ALTRA FACCIA DELLA SICILIA,
ALTRO CHE MAFIA
La battuta più infelice che mi è capitata dire in questi
giorni è stata a san Cataldo quando ho chiesto a un amico del sacerdote che mi
ospita: “oltre alla mafia qual è il lavoro da queste parti?”. Mi ha guardato
storto ma si è subito ricreduto, quando ho detto al mio interlocutore che a
Foggia (citta non certo mafiosa?) da qualche tempo salta per aria un esercizio
al mese. Il lavoro, almeno quello agricolo a San Cataldo, città originaria dei
parenti di Padre Peter, il parroco americano di Vineland, ce n’è ed è tanto. Mi
ha sorpreso invece l’amicizia tra i due ex commilitoni, il parroco e
l’architetto, che pur vivendo a pochi chilometri di distanza non si erano visti
dal giorno del congedo militare, e si sono abbracciati come due ragazzini,
raccontando aneddoti e fatterelli da caserma. E’ proprio questo che balza agli
occhi tra la gente di Sicilia: l’amicizia, la familiarità, il bacio su tutte e
due le guance, anche se ci si è incontrati la mattina di quello stesso giorno.
Sono diventato amico della famiglia del sacerdote che mi ospita e ho notato un
certo disappunto quando il primo giorno li ho salutati con una normalissima
stretta di mano, non conoscendoli ed essendo io timido di natura. Loro si
aspettavano un bacio, proprio di quelli che ogni giorno a profusione si
scambiano gli adolescenti della nostra città, come vecchi amici che non s’incontrano
da anni, mentre forse è passata solo qualche ora. La familiarità e
l’accoglienza sono la nota caratterizzante di questa gente. Si dirà ecco la
fonte del “mafismo siciliano”: è un abbaglio. Forse la “famiglia mafiosa” ha
solo preso a prestito la normale e comunissima familiarità tipica della gente
di Sicilia per mimetizzarsi, far apparire che in fondo sono gente normale: s’incontrano,
si salutano, si baciano e poi pensano chi intimidire o peggio far sparire
semmai con la lupara bianca e il famoso sasso in bocca per i più ciarlieri. Grazie
agli Sciascia e Camilleri che su queste storie hanno scritto romanzi, facendo
anche la loro fortuna. I Quasimodo, i Verga e i Pirandello avevano altro per la
testa. Qualcuno in Italia ha troppo presto dimenticato che la mafia, da queste
parti come da noi i Briganti, è una realtà fatta nascere, crescere e prosperare
dai nostri cari piemontesi, visto che le cronache borboniche non ne parlano mai;
che dopo e solo dopo l’impresa dei mille, come una pietra nella piccionaia, a
migliaia se non a milioni i siciliani se ne sono scappati dalle loro terre (o
meglio cacciati) e hanno preso la via dell’oceano per non perdere lavoro e dignità;
che ogni governo, sia monarchico che repubblicano, e addirittura i puritani
americani, hanno preso accordi continui, sottobanco e non solo, per far sì che
la mafia tenesse a bada questa voglia di riscatto e di libertà, che la seconda
guerra mondiale aveva solo fatto conoscere al mondo, ma che qui era viva e
palpitante da sempre. I libri di storia, quelli studiati a ridosso dei cento
anni dell’unità d’Italia (“Italia ’61”, manco fosse un campionato mondiale di
calcio), non facevano che esaltare Cavour, Mazzini e Garibaldi, uno politico
senza scrupoli, l’altro visionario e l’altro ancora guerriegliero ante litteram,
ma tutti eroi nazionali e per giunta massoni (ma questo termine a noi non lo
spiegavano, sembrava addirittura un termine religioso, rafforzati da simboli,
come il grembiule e la croce che a questo alludevano), mettendo la sordina a
tutto il macello, nel senso più vero del termine, che la banda di camicie rosse
andavano disseminando per tutto il Sud, liberandolo, dicono loro,
dall’oppressione borbonica, mai così sanguinaria nel suo regime pur totalitario
e non monarchico costituzionale, come Deliceto docet e non solo. Chissà poi
perché è dal sud che nasce il sindacato alla Di Vittorio e alla Giovanni
Coniglio, un sindacalista molto noto da queste parti, nonché nonno del
sacerdote che mi ospita, e il cui elogio funebre fu tenuto dallo stesso Enrico
Belinguer nel ’57, già politico nazionale affermato. Un sindacalista-comunista,
che faceva della solidarietà sociale e comunista il suo credo, così di mi
diceva la figlia, che spesso prendeva il pane dalla dispensa e lo dava ai
poveri. Mandato al confino, durante il
fascismo, proprio dalle nostre parti, alle Tremiti, un nome che ci avvicina e
che ritorna spesso tra i racconti di questa famiglia. E ancora non è un caso
che don Sturzo e l’attuale presidente Mattarella siano siciliani. C’è e
soprattutto c’era qualcosa che sa di malevolo pregiudizio per la gente di
Sicilia, costruito ad arte sul nulla e alimentato per lungimirante convenienza,
sempre a favore di quelli del nord, ovviamente, puritani peggio degli americani (almeno a
chiacchiere) e ladri come tutti in Italia (adesso ce ne stiamo accorgendo anche
noi del sud: il Mose di Venezia e gli appalti truccati per l’Expo stanno lì a
ricordarcelo). Da queste parti come antidoto, c’è il sacro detto “e tu
futtitinni” (tradotto e “tu futtatenne”), perché il tempo sarà galantuomo e
darà a Cesare quel che è di Cesare. L’arte, la storia, la cultura, il mare, le
spiagge da sogno, ci sono e vengono offerte a piene mani ai turisti (più
stranieri che italiani), c’è la familiarità di un popolo, aperto e generoso,
che si saluta quotidianamente con un bacio e una abbraccio di pace come se non
si vedesse da mesi, e poi c’è anche, come oramai in tutta Italia, chi imitando,
famiglia, baci e abbracci, pensa e agisce da delinquente, sempre rubagalline,
che con il tempo mira sempre più in alto. Un cancro, meglio un virus, contro il
quale da queste parti da tempo gli abitanti hanno attivato gli antivirus. E pur
si vive, tra mangiate che mi hanno fatto salire il diabete a 160, ogni picco è
una piccagione, dicono da noi, ma forse il detto non è che sia molto
pertinente. Fra qualche giorno dovrò dare l’arrivederci (non certo l’addio) a
questa gente e a questa terra. Mi dispiace che quindici giorni siano volati
come il vento. Troppe cose da vedere, troppe ancora lasciate per i prossimi
tour, troppa gente da avvicinare e capire, tanti gusti da assaporare, diabete
permettendo, tanto mare e tante altre isolette, come Lampedusa, famosa in
Italia e nel mondo per la sua generosa accoglienza, Linosa, Lipari, Stromboli isole
da sogno da visitare. Già perché da sempre la Sicilia, lo sanno bene i
cartaginesi, i greci, i romani, gli arabi, i normanni, i francesi, gli spagnoli
questa è terra d’accoglienza che sa ricervere, ospitare e conservare per la
storia. Grazie Sicilia, ero venuto per un tempo di relax e mai pensavo che si
trasformasse in ritiro spirituale e stage culturale. Alla prossima.