venerdì 10 aprile 2015

27 marzo - 10 aprile 2015: 15 GIORNI A VINELAND....




25 marzo  - 10 aprile 2015 
American Trip


Venerdì 27 marzo 

A Roma 

Con questo primo articolo vi faccio un reportage giornaliero sugli 11 giorni, gli ultimi penso, di visita a Vineland NJ. Gli ultimi, perché, fr. Peter, il parroco della parrocchia che mi ospita, a giugno va in pensione. Addio St. Padre Pio parish, spero non scompaia la devozione a padre Pio da queste parti, addio ospitalità (anche se ho mezza parrocchia come amici), addio Vineland NJ, cittadina anonima, ma ottimo punto sulla mia cartina americana, pieno di persone che ho conosciuto, amato, e ricordato volentieri. Con questi pensieri il 27 aprile ho preso un volo, Roma-Filadelfia: durata 9.30. Il pensiero era a Barcellona-Dusserdolf, ma con tutti gli aerei, centinaia di migliaia, che volano sui cieli del mondo, proprio il mio doveva essere il prossimo? No! Ma incrociamo lo stesso le dita. Il viaggio sul mio biglietto è targato American Airlines, ma viaggio (dirottato?) su US Airwais, che fa la stessa rotta. Al check-in primo colpo al cuore, la distratta, distrattissima signorina, dietro il bancone, mi perde la Green Card, la carta verde che mi dà libero accesso agli USA e per tutto il tempo che voglio. “No, lei non me l’ha mai data”. “Guardi che stava dentro il passaporto”. Stupido io che ce l’avevo messo, per accelerare i tempi. Cerca sul tavolo, su quello vicino: “guardi che non me l’ha data”. Incomincio a sudare freddo. “Guardi che vado in America proprio per rinnovarla”. “Ah ecco, l’ho trovata, era caduta per terra”. L’avrei uccisa. Intanto mi ero fatto la prima sudata, tanto per cominciare. All’aeroporto ero arrivato un po’ in ritardo: alzata alle 6 del mattino, pulizie, chiusura bagagli, partenza per Fiumicino. L’onnipresente angelo, Pietro con la pazienza di sempre, mi accompagna all’aeroporto. “Oh c’è un distributore del metano. Ci fermiamo che ne approfitto pe fare rifornimento”. “Certo, basta che facciamo in fretta”. Passano i soliti 15 minuti per ogni sosta ad ogni autogrill delle nostre autostrade italiane. Ma arrivo lo stesso alle 8,30 (almeno 3 ore prima dicono i depliant). Sono solo due ore, visto che l’areo parte alle 10,30. Non ci dovrebbero essere problemi. Ai cancelli T3 dell’aeroporto, dedicato agli aerei che vanno in Israele e in America, un carabiniere, in tenuta anti sommossa: giubotto antiproiettile, mitragliatore in mano, ci ferma deciso all’ingresso dei cancelli e ci chiede cosa ci stiamo a fare. Rispondo “per prendere l’aereo per gli Stati Uniti”. “Compagnia?”. Un momento di indecisione. Un’eternità a suoi occhi. “American Airlanes”, rispondo. Ci lascia passare. A volte mi sconcerta la facilità con cui si superano certe barriere. Entro nell’androne della T3 e al box con relative file dell’AA, non c’è anima viva. Troppo presto? Troppo tardi? Chiedo a uno della US Airwais: “Noi facciamo servizio anche per l’AA”, è stata la risposta confortante. Ma la fila è lunga ugualmente. E i minuti passano. Altra novità. Ci danno buste trasparenti per mettere tutto il materiale elettronico che si porta in borsa. A me ne servono almeno tre. Ulteriore novità. Si vede che non viaggio dallo scorso anno: quei maledetti box elettronici per il controllo del passaporto e del biglietto. Digito nome e numero del biglietto: “ci scusiamo ma lei non risulta tra i passeggeri”. Questa poi. Chiamo un gentilissima hostess che fa il servizio per me. I miei pensieri sono altrove. Non ho ancora iniziato e già i contrattempi si sprecano e il sudore aumenta. Meno male che in valigia ho un cambio di canottiera (e mutande) e un seconda camicia clericale: non si sa mai, e un quantità mostruosa di fazzoletti. La prossima volta mi porto qualche asciugamano piccolo. Finalmente come Dio vuole arrivo al Gate per i voli internazionali. Manca un’ora. Mi guardo un po’ in giro. Soliti negozi. Solita mercanzia. Visto che ci sono cambio 50 euro in dollari. Altra sorpresa. Mi danno 40 dollari in cambio….diavolo tutto il resto va in competenze e cambi vari. Finita la pacchia dell’euro a uno e trenta cinque rispetto al dollaro. Qua siamo fifty fifty e il meno lo lasci al cambiavalute. Secondo me al tempio di Gerusalemme ai tempi di Gesù ci speculavano di meno. E si sono prese lo stesso tante mazzate. Ma non posso farci nulla. Alle 10 in punto sono sull’aereo, e con la mia fortuna di sempre, mi trovo sull’ala con il motore che mi ronza nelle orecchie e vicino al finestrino. Per cambiare di posto al check-in, quello automatico che manco sapeva della mia partenza, mi hanno chiesto 90 euro se volevo cambiare di posto. Ho lasciato perdere. Ma mi è parso un furto senza ritegno. Alle 11 in punto l’aereo comincia a rullare e a mettersi sulla pista per il decollo. Via si parte. Sì, ma mi aspettano 9,30 di volo. E mo’ che faccio per tutto questo tempo. Gli anni scorsi mi portavo libri da leggere e da scrivere. Quest’anno, “viaggio per un addio”, niente di niente. Per fortuna mi sono portato un vecchio ipod, vecchio di almeno 10 anni se non di più, con tutte le canzoni della mia vita. Miracolo: ancora funzionante (miracolo apple). Alla fine del viaggio le orecchie mi facevano male ma sono sopravvissuto. L’ultimo ricordo dall’Italia, prima di prendere la discesa verso l’aeroporto, B. Franklin di Philadelphia: una pizzella calda e un panino con la Nutella. Si vede che siamo partiti dall’Italia. Controllerò al ritorno. Puntuale alle 15,35 l’areo atterra. Le solite formalità alla dogana: Italiano? Food? Wine?”. “No, no, no”, e via verso l’uscita. L’ultimo controllo dove si lascia all’impiegato il foglio bianco blu, con le domande più stupide del mondo: porta armi, droga, dollari con sé? Ne fa un uso quotidiano? O cose del genere e si aprono le porte automatiche dell’uscita finale. Aspetto David, il solito giovanottone, factotum della parrocchia, e mi ritrovo una delle “suore laiche” che prestano servizio per il catechismo. Abbracci e baci e via per l’autostrada. Sta “big one” (anziana e grassoccia), accompagnata da una consorella ma molto “skinny” (anziana e magra da far paura) e un cane meticcio, che nel frattempo ha sparso tutti i suoi lunghi peli sul sedile davanti dove mi siedo, all’uscita, un po’ frettolosa, un po’ distratta, sembra voler andar dritto contro il parapetto del cavalcavia. “Don’t worry. I decide so”. Questo “don’t worry”, non mi rincuora affatto. Aveva perso il biglietto d’ingresso e prima s’era messo a cercarlo mentre guidava. Sotto, sopra, in borsa. E poi ha deciso di fermarsi, perché non lo trovava, ma a due centimetri dal parapetto. “Ho deciso così. Nessuna paura”. Sarà. Ma la cosa non mi convinceva. Lo trova e via di nuovo con il piede pesante sull’acceleratore. Guardare le macchine e i segnali, sembra un optional. Sbaglia a mettere prima il foglietto d’ingresso e poi la carta di credito e per qualche minuto non ci muoviamo di là, e la fila aumenta. Grazie all’inserviente si può aprire la sbarra, recuperare la carta, e partire verso la superstrada 55 per Vineland. La big-one corre come una pazza. E il traffico è quello dell’ora di punta, alle cinque del pomeriggio, e quello snodo fuori dell’autostrada è il peggiore di tutta Filadelfia. Come Dio vuole alle 6 arriviamo a Vineland. Ringrazio frettolosamente la big-one e la skinny e saluto parroco e amici presenti e via verso il bagno. Le nove e lo stress delle prime ore in America già si facevano sentire. Pranziamo. La solita Rosa, siciliana fa come primo un pesce impannato e poi la pasta: qui usano così. Vino: uno schifoso Zinfedel, dolciastro da far paura, e una buona pasta al sugo con olive. Oh qualcosa di buono. La pasta è Barilla: “dove c’è Barilla c’è casa”. A parte la pubblicità, la cosa funziona. Si erano fatte le 7 del pomeriggio. Pensavo già di andare nella mia stanza a disfare le valigie. “Andiamo al teatro che c’è la rappresentazione della pasqua da parte del gruppo teatrale parrocchiale (la stessa da oramai sette anni)”. Non avevo capito bene e ho detto un sì strappato. L’avessi mai fatto. Tre ore di una cosa già vista lo scorso anno, e registrata pure. Stessi attori. Stessa scenografia. Stesso pubblico. Come faranno ogni anno a ripetersi in questa maniera non lo capirò mai. Finalmente alle 9,30 il supplizio, non solo quello di Cristo, ma anche il mio, ha termine. Ho resistito tra sbadigli fantozziani e cambio continuo di posizione fino alla fine. Se ci facciamo un calcolo 6 + 3 fanno nove. Quindi se a Vineland erano le 9,30 in Italia le 3,30 del mattino. Potevo ben aver diritto a sentirmi stanco morto. Ci rimettiamo in macchina: “andiamo a prendere un drink?”, dice il parroco. L’altro amico don Sinatra, studente alla gregoriana di diritto, conosciuto in Italia, non fa una piega e dice subito di sì. Mi devo accodare. Tutta la compagnia teatrale è in ristorante e ci aspetta. Vongolone e gamberetti e un bicchierone di grappa (per giunta con il ghiaccio e le cannucce). Volevo morire. E si sono fatte le 12 di sera. Esattamente 17 ore dalla sveglia, 13 dalla partenza, alle quali vanno aggiunte le 6 ore del fuso orario. Insomma 23 ore sane sane. Un’altra ora per chiudere in bellezza e fanno 24: decisamente il mio giorno più lungo, the longest day,….e non ho alcuna intenzione di liberare l’America come loro fecero con l’Europa. Pensate sia finita qui? Ma la storia riguarda domani, la notte e le chiamate su skype e telefonino che i caproni di compagni hanno cominciato

 A Vineland 

Il primo giorno era finito tardi, anzi tardissimo. Il secondo giorno è iniziato presto, anzi prestissimo. Hai voglia a dire…."telefonate o chiamate in skype solo a partire dalle due del pomeriggio, che in America sono le otto del mattino", puntualmente la mattina del 26 marzo sono stato svegliato da due telefonate sul cellulare e altrettante su skype. Ovviamente non ho risposto a nessuno, ma già il sonno era debole, la fatica del giorno prima, mostruosa e il jet lage ancora tutto da smaltire, l'ultima cosa da fare era alzarsi e rispondere tirando giu "sante e madonne". Potere immaginare i miei vafffff sprecati per agli amici importuni. “Ti abbiamo visto online e ti abbiamo chiamato”. Peccato che in America i computer, i cellulari, gli ipad non si spengono mai. Le tariffe sono tutte h24. Spegnere i computer o gli accessori elettronici può essere oltre che inutile anche dannoso. Quelli vanno a contate di off/on, e dopo un certo numero di accendi/spegni si possono anche consumare e buttare. Meno li si spegne e meglio è. Ma vallo a far capire ai caproni di amici. “Sei online?”, “Ti chiamo subito”, non è che prima “chiedo se ci sei, cosa fai, se hai tempo per chattare”. No, si va direttamente alla chiamata, stessi pure dicendo la messa: per loro online è sinonimo di disponibilità, come certe prostitute alle piazzole della statale 17. E guai se non rispondi o non rispondi subito: “cosa ti ho fatto?”, “ce l’hai con me?”, “perché non rispondi?”. Robe da matti. Così un gioco rischia di diventare una paranoia. E a paranoie eravamo proprio a digiuno di questi tempi. Poi sono partite le polemiche finto religiose per un sabato di quaresima passato al ristorante: pranzo e cena. "Come? In quaresima vai al ristorante a mangiare?”. Qui il ristorante è la seconda cucina di casa. Non quella cosa solenne e impegnativa come da noi. Oggi 26 marzo, sabato delle Palme, siamo andati due volte al ristorante. Già il ristorante: un'arena o una stanza degli equicovi, quando arriva il momento delle ordinazioni. Dannato inglese mai imparato fino in fondo: mi sono sbobbato un enorme panino alla porchetta con patate fritte (french fries, dicono da quete parte), da restarci secco. Al confronto quelli della Mac Donalds sono cibo per per bambini di scuole materne. Rigorosamente niente vino a pranzo. Che poi qui lo chiamano lunch e la nostra cena dinner, tanto per continuare a non capirsi. Il locale del lunch è carino: un vecchio centro golf, l’unico dell’est-Vinenald, trasformato in un modernissimo campo e annesse sale da pranzo e da ritrovo. Rimesso a nuovo da Bob, di chiara origine italiana e molto amico del parroco e della parrocchia. Se il mio panino alla porchetta non scherzava, non era da meno quello alla cotoletta milanese e al porc dei miei commensali (che però non l'hanno finito tutto come stakanovistcamente ho fatto io). Come Dio ha voluto siamo tornati a casa. La macchina di servizio della parrocchia è stata venduta dal parroco due mesi fa e così ho preso la sua per andare al Mall, al centro commerciale della città. "Se fai incidente mi paghi le spese mi ha ammonito". "Mi sono salvato da quello dell'aereo, ho pensato tra me e me, ora vengo giusto a Vineland per farne uno. Non sia mai". Al Mall per necessita:Qualche maglietta (9 euro l’una), due paia di pantaloni, e due camice nere, che solo noi preti oltre ai fascisti riusciamo ancora a portare, e le medicine da banco (non il viagra, per quello anche in America ci vuole la ricetta del medico), che qua sono davvero tante e variegate, dalle pomate alle cardioaspirine, alle pillole per prendere sonno. Insomma il primo centone se ne è volato così, con tre pacchetti di roba. Tanto non ho la macchina non penso nemmeno che un giro ad Atlantic city, mi rifonderebbe dei soldi spesi in questa prima giornata. Alle 5 pm (che sta per pomeriggio) c’era la messa del sabato sera, ma ho preferito stare vicino al letto, visto che ero ancora intontito, e un vangelo della passione del giorno delle Palme mi avrebbe devastato per il resto della settimana santa: meglio affrontarlo domani a mente lucida e corpo risposato. Un salto in chiesa l'ho fatto lo stesso almeno per salutare gli amici. Qui in effetti ci si vede solo in chiesa e al mall. Altri posti di ritrovo non li conosco o non li ho mia frequentati. La chiesa era piena come nelle grandi occasioni. Invece dei nostri rami d’ulivo (da queste parti non ne ho visto uno solo) hanno utilizzato palme vere, e di queste ce ne sono davvero tante in giro, andando sempre più a sud verso la Florida. Alle 7 di sera la giornata poteva dichiararsi conclusa. Ma così non è stato. La mazzata finale doveva ancora venire: la cena. Il ristorante del golf era pieno e abbiamo ripiegato in un altro, Fattolari (di chiara tradizione italiana). Maledetto inglese mai imparato fino in fondo. Avevo chiesto un’insalata da condire da me. Mi hanno portato un insalata “cesar” come la chiama qui, quella di lattuga, con tanto di formaggio (quello non manca mai) e una cosa biancastra che chiamano dressing (vestito). Mangiabile quanto si vuole ma l’insalata la voglio con tanto olio, un po’ di aceto balsamico e il sale quanto basta, e soprattutto meglio se è mista. La prossima volta mi dovrò spiegare meglio. Chiedo per l’unico piatto (un piattone, o big dish) degli spaghetti alla carbonara. Pensavo ai nostri spaghetti Barilla o qualcosa più vicino alle fettuccine. Mi portano un piattone di spaghettini alla carbonara, che nello strapazzo dell’uvo con prosciutto si erano tutti rotti e attorcigliati: un'altra sbobba. Dio che spettacolo. Alla fine del pranzo mi accorgo che sono l’unico che con un coraggio tutto seminaristico (ci facevano mangiare qualsiasi cosa e noi la mangiavamo fino in fondo con l'incoscienza della giovane età) ha finito il piatto. Oltre a Peter c’è una famiglia che canta tutti i sabati in parrocchia. Cantante country il padre, cantante lirica la madre, e i figli non da meno: promesse della canzone americana. Sono due meravigliosi gemelli, incontrati piccolini alla fine della scuola elementare, ora sono al penultimo anno dell’high school. Già si parlava del futuro universitario. La sorpresa è che la bambina, Kell, 17 anni compiuti ha vinto il concorso di bellezza locale ed è stata incoronata come Miss Vineland. Chi l’avrebbe detto che abbiamo avuto l’onore di incontrare, quando ancora era una sconosciuta jersey girl, la futura miss America? Spero solo che resti nella semplicità nella quale è cresciuta, grazie alla madre e al padre, in questi anni. Sto qui a scrivere dopo la cena, con il piattone di carbonare che non ne vuol saper di scendere dallo stomaco alla pancia e fa su e giù manco fosse su una giostra. Un ultimo dettaglio: padre, madre, figlio, figlia, e il sottoscritto, Peter è ancora tradizionale in questo, abbiamo parlato tutta la sera, chattato, inviato messaggi, visto video della manifestazione di miss Vineland: insomma anche qui in America il vituperato sistema di chatta e mangia ha devastato anche le famiglie più unite. Che sarà mai: un occhio al telefonino, uno all’interlocutore, e la mano sulla tastiere (tanto le mani non parlano). Anche il vino ha fatto la sua parte: un Morellino di Scansano del 2005. Prezzo in Italia 40 euro, prezzo in America 19. Quando capirò chi è quel babbeo che mette i prezzi ai vini importati dall’Italia sarà sempre troppo tardi. Comunque il vino era delizioso. Forse troppo poco per far digerire la carbonara, ma buono di suo e pure gustoso. Alla fine della cena eravamo tutti un po’ più allegri. Che sia colpa del vino? Ci siamo salutati ognuno con il suo dogybag tra le mani. Gli avanzi qui li chiamo “cibo per i nostri cani”, invece l’ho visto con i miei occhi il giorno dopo sta sulle tavole dei nostri commensali. E per i cani? Bastano i croccantini. Quanti vizi.



Domenica 29 marzo

E’ domenica delle palme. Oggi solo un ragazzo mi ha telefonato per augurarmi “buona palma”, ma erano per fortuna le 6,30. Poi la messa delle 9,00. Prima di uscire mi fermo ad osservare la foto del vescovo di Candem: mons.Williams Denis. Giovane, bello, riso accattivamente....ma ha i polsini alla camicia e per giunta dorati. Ne ho abbastanza. Certi dettagli parlano più di altri. Entro in chiesa: la folla domenicale, e tutti con le palme (quelle vere) in mano. Un anziano prete mons. Clark, di chiari origini irish, corre per tutta la messa, come avesse paura di perdere l’areo. Il vangelo è quello di Marco letto a più voci come da noi. La predica è breve, concisa e compendiosa, celere come tutta la celebrazione. Fuori c’è un sole che spacca le pietre, ma la temperatura è polare: un freddo tagliente che minaccia neve, ma per ora niente, visto che nuvole all’orizzonte neanche l’ombra. Mi ritiro nella mia stanza, ignaro di quanto la parrocchia aveva organizzato per il “Palm Sunday: annual macaroni dinner”. Aspetto che il parroco mi chiami ma niente di niente. Alla fine più per fame mi metto alla sua ricerca. Ma in canonica non c’è nessuno. Di solito, visto la raccolta domenicale, ci vogliono un paio d’ore per contare tutti i soldi che la gente generosamente dà.Tutti spariti,non i soldi, gli addetti alla conta. Mi porto fuori della canonica e vedo molte macchine davanti al salone delle feste della parrocchia. Capisco tutto: è là che si mangia. Entro. Tanti abbracci e baci dai parrocchiani che nonostante ormai quasi dieci anni dalla mia permanenza da queste parti mostrano di avere un caro ricordo di me, ricambiato cordialmente. E poi via a buttarsi su penne al sugo, polpette, e salsicce. Quanto basta per ammazzare la fame. La gente è quella delle grandi occasioni. Un cantante con la sua band non fa che suonare musiche italiane e siciliane. Al richiamo: “ma quanti sono gli italiani?”, la maggioranza. “E quanti i siciliani?”, più della metà. E lui canta e gli altri mangiano a volontà. Che comunità unita. Che piacere stare con loro. Faceva bella mostra di sé Kell, la miss Vineland 2015. Foto ricordo con un pupazzone e tanti bambini attorno. Non mi sono sottratto al rito. Vuoi vedere che il prossimo anno diventa miss America? Potrò dire: “io quella la conosco, ci ho cenato insieme. Ci ho pure fatto le foto”. Vuoi mettere. Un rapido saluto alle famiglie tra i tavoli e ai cuochi, quasi tutti d’origine italiana, e tutti volunteers come dicono da queste parti: gratis e con passione. Alla fine dopo l’immancabile dolce finale, ma senza frutta ho tagliato la corda. Un buon sigaro toscanello alla grappa, un bicchiere di cherry e la giornata si può dire chiusa. E’ sempre questa la storia. Dopo il momento religioso. Dopo il pranzo comunitario. Ognuno se ne torna a casa, e là piomba il silenzio più pieno. Peter, il parroco, se ne è scappato a casa sua. Dicono che non ha neanche mangiato. E’ un tipo emotivo e sa bene che queste feste saranno le ultime per lui che a giugno dovrà lasciare la parrocchia. Occasioni come queste mi fanno odiare un po’ la chiesa cattolica, la sua gerarchia e le sue leggi. Si è creato un piccolo paradiso qui a st. Padre Pio Parish, e lo si è creato a gran fatica e nel tempo. Prima la gente di queste parti stava cambiando religione tanto si era disaffezionata alla parrocchia. Ha fatto un gran lavoro Peter e ora per una legge cretina quanto basta, dopo nove anni, per lui dodici, deve lasciare ad altri questo piccolo capolavoro pastorale. Certo diranno i soliti cretini: tutti siamo utili e nessuno è indispensabile. Ma non è vero. La legge è legge, diranno quelli ancora più scemi, e va rispettata. La legge deve esser uguale per tutti, altrimenti che legge è. Mi domando: ma si può essere più cretini nella chiesa di oggi? Può una legge dei nove anni, o dei settacinque anni, tagliare storie e situazioni indistintamente come una mannaia che non guarda in faccia a nessuno se non alla legge. Mi domando Gesù avrebbe agito in questo modo? E’ il detto biblico, rispondono: come Dio fa piovere sui buoni e sui cattivi, così comunque tu hai lavorato, una legge vale più di tutte le altre considerazioni. Addio festival P. Pio. Addio macaroni dinner. Addio comunità di volontari disposti a tutto per Peter e la parrocchia e con il sorriso a 360 gradi. Noi non siamo una comunità, una vita, siamo una organizzazione, meglio un impero, con pochi capi e tanti sudditi. Un funzionario sostituisce un altro. Via Peter, non perché ha fatto male, è stanco o malato, ma perché la legge è legge e tutti la devono rispettare: eccetto il papa, ovviamente il capo impero. Insomma ci vedo tanto di storto e di scombinato in questa implacabile osservanza di una legge che dà solo potere insindacabile al vescovo di turno. Ma grazie a Dio per una specie di nemesi storica anche ai vescovi, Tamburrino compreso, la mannaia della legge che non ammette eccezioni cala inesorabile. Cosa costa lasciare le cose come stanno, specie quelle che oggettivamente funzionano meglio? Cosa costa, anche ammesso la legge dei nove anni, rinnovare per altri nove lo stesso incarico e per altri nove ancora? Chi è quel cretino che pensa che tutti siamo utili e nessuno è indispensabile? In teoria è bellissimo nella realtà a volte è un disastro. Nelle comunità i rapporti non sono funzionali, interscambiabili. Le comunità sono fatte di persone. Per amicizia gli apostoli seguirono Gesù non per dovere o per obbedienza. I rapporti sono con le persone. E se funzionano vanno lasciate in pace. E’ la pace la fonte della vita del cristianesimo, non l’organizzazione idiota, strumentale e funzionale, quando semplicemente inutile. Ma forse parlo di una chiesa del futuro, quella che avrà smaltito l’ubriacatura della legge sopra tutte le cose. Peccato. Il prossimo anno qui sarà tutta un’altra aria. Contento il diritto canonico che è stato rispettato. Contento il vescovo che l'ha applicata senza fantasia. Non so quanto sarà contenta la comunità: anche loro obbedienti di turno. Non so quanto si avvantaggerà il cristianesimo da queste parti. E forse finiranno pure i miei tour americani. Il prossimo anno mi scade pure la carta verde. Che sia questo che in fondo in fondo mi rode di più: essere condannato a restare per sempre a Foggia? Ma non ci sono altri cieli e altri mondi nel nostro universo?
  



Lunedì 30 marzo 


Oggi giornata tranquilla. Ho ripreso a svegliarmi alle 6 del mattino, come in Italia, anche perché qui si va a letto alle 10 con le galline, in un silenzio di campagna davvero assordante, nemmeno un cane o un coyote che ulula nei boschi. Anche le cornacchie che di giorno sorvolano i campi se ne stanno tranquille da qualche parte. Uno, a volte, vorrebbe sentire anche la frenata o la corsa di una macchina, il suono di un clacson, la musica di un’autoradio, lo schiamazzo di ragazzi che ti passano sottocasa, la televisione ad alto volume del vicino, lo sbattere della porta dell’ascensore: qui niente di niente. Tutto tace. Neppure l’ommmm del muovere delle stelle, così caro ai monaci buddisti. Che si fa di sera a Vineland? Tappati in casa a vedere la tv. Di per sé in questo paese, che occupa l’area di 60 km, il più grande per estensione di tutto il New Jersey, oltre alle chiese e al mall, con cinema multisala annesso, davvero la sera non sai cosa fare se non stare tappati in casa. Inoltre è pasqua e in America esistono solo due feste, capaci di tenere gli americani ancorati alla casa e alla famiglia, e sono Natale e Pasqua. E solo il giorno di natale e pasqua: non santo Stefano né pasquetta. A scuola e al lavoro si torna il giorno successivo. Oggi dunque giornata normale ordinaria in parrocchia. E che si fa in una giornata normale? Niente, si aspetta che arrivi il lunch, a mezzogiorno: oggi pasta (perché ci sono io), cotolette alla milanese, insalata e un bicchiere di vino (sempre perché ci sono io). La cuoca è italiana, Rosa, qui da quasi dieci anni. Pasta e vino sono in onore dell’ospite, per agevolargli quel processo di adeguamento ai costumi locali (capaci di bere il tè durante il pranzo) che altrimenti sarebbe traumatico. Quello che proprio non riesco a superare è il mangiare tutto nello stesso piatto e con le stesse posate e senza soluzione di continuità: pasta, insalata, cotoletta, frutta (uva in inverno grossa come la nostra uva Italia o uva Regina, ma forse d’origine argentina o peruviana) e dolce. Non uno alla volta ma tutto (non so quanto allegramente) insieme, mescolando sapori, colori e odori. E per il ripasso, di nuovo pasta, insalata ecc, tutto forzatamente assieme nello stesso piatto. Non faccio più resistenza a queste barbariche abitudini (mi meraviglio che non mangiano con le mani, ma forse nel frattempo si saranno evoluti). Ci ho rinunciato da tempo, anche se loro mi guardano sempre come un extraterrestre. In fondo contenti loro contenti tutti. Questa volta non ho chiesto un altro piatto o nuove posate, ma ho messo in fila e in successione le portate, come si usa da noi: prima la pasta, poi la cotoletta con la verdura, la frutta e infine il dolce, a parte su un tovagliolino di carta. Il vino come intervallo tra le varie portate. E per chiudere un bicchierino di amaro come nella migliore tradizione italiana. In tanti anni di permanenza e di venuta qui a Vineland non sono riuscito a cambiare le mie abitudini, né tanto meno a cambiare le loro: troppo autoreferenziali in tutto. Dopo il lunch, ma anche prima, ho ripreso a studiare: l’articolo su “Religiosità naturale (o popolare), liturgia cristiana e servizio di carità”, imbastito in Italia, ha bisogno di qualche approfondimento e due settimane di silenzio e solitudine mi aiuteranno senz’altro nell’impresa. In queste stesse stanze ho scritto il libro sul capitalismo americano d’ispirazione cristiana, che neanche i mei allievi si sono mai degnati di leggere…(mah, forse sarò famoso dopo morte, chi lo sa). Qui ho tutto il tempo che voglio. Mi sono portato dietro l’ultimo libro della Queriniana su “Sacramtnalità, essenza e ferite del cattolicesimo” di K.H. Menke, il solito teologo tedesco, supinamente tradotto in italiano. Le stesse cose le diciamo qui da anni ma dette dai tedeschi è da sempre tutta un’altra cosa. Così sono convinti a Brescia e glielo lasciamo credere. Ci mancherebbe altro. Comunque il libro, nonostante tutto, è interessante, affronta il rapporto tra protestanti e cattolici sul tema dei sacramenti, che nessun ecumenismo potrà mai accordare, per buona pace di chi ci lavora da anni. Il tema è intrigante. Quello che ci differenzia dai protestanti è proprio la concezione dei sacramenti, per noi legati alla natura, per loro alla sola parola, che tutto assorbe e tutto comprende (K. Barth), nonostante il rischio di una strisciante ideologia, che neppure la religione riesce a mitigare o scongiurare del tutto. Alcuni cattolici elitari (e diciamo pure con la puzza la naso) considerano la devozione e la religione popolare come una degenerazione del cristianesimo, da guardare sempre con sospetto, per quel pericolo di superstizione e paganesimo mai veramente debellato. La tesi nuova, o antica, basta intendersi, è che la religiosità popolare, con le sue credenze e soprattutto con i suoi riti, è non la degenerazione del cristianesimo ma la sua base costitutiva, sulla quale pur si regge l’intera vita cristiana. La religione rivelata non è venuta per distruggere questa religione naturale, ma semmai per combattere e redimere l'umanità dal peccato (non tanto dal suo paganesimo). In questa concezione che si sta facendo sempre più strada tra i telogici cattolici, il nemico da combattere non sono certo le forme di devozione popolare, sempre e solo il peccato che fa male all'uomo (con la violenza o anche solo con la negligenza) perché lontani da Dio. Nel cattolicesimo contrariamente al protestantesimo da sempre la devozione popolare è stata salvaguardata e ha prosperato (e forse è questo uno degli elementi del suo successo popolare). Nel protestantesimo (e oggi anche in certi circoli elitari del cattolicesimo) la religiosità popolare è vista con sospetto, quando non da debellare, per salvaguardare una presunta purezza della religione vera e rivelata. Noi cattolici abbiamo sempre combinato sacralità e teologia, sacralità, devozione popolare e liturgia. I protestanti hanno perso per strada la devozione popolare e se ne pentono e hanna collegato la sacramentalità solo alla Parola rivelata e non alla vita e ai suoi ritmi naturali. Non è stato il peccato originale a creare la devozione o la religiosità naturale. La natura è per i cattolici “incrinata” non distrutta (tutta qui la differenza) e la redenzione non va intesa, dice l’autore, come “ideologica” ricostruzione di una umanità, a partire da zero. Interessante. Sono arrivato a pagina cento….ce ne stanno ancora altre 270. Ma ho sempre due settimane a disposizione e 9 ore di volo Filadelfia-Roma, Hai voglia ad approfondire.


1 aprile: mercoledi




Alle 3 del mattino, ora locale qui in America, arriva questo messaggio “carissimo don Fausto credo che già tu sia a conoscenza che stamane all'alba con un infarto è deceduto mons PELVI, ti abbraccio”. Mi ha preso un colpo, non tanto per un affetto verso il vescovo nuovo, le cui relazioni sono state burrascose fin dal primo incontro, ma per tutto quello che avrebbe potuto significare per una diocesi che ancora non si riprende dai disastrosi dieci anni di Tamburrino, ben preparati da quelli di Casale, con la parentesi di D’Ambrosio. Cerco subito sui siti locali, ma la notizia non esiste. Solo a questo punto mi sono reso conto che era il primo di aprile e un buon pesce d’aprile ci stava proprio bene. Benedetto Fortunato. Bravo nel capire cosa mi avrebbe potuto sviare e me l’ha condito ben bene lo scherzo. Ok scherzo accettato. La giornata, quella vera, è iniziata con la messa a st. Mary, l’altra chiesa della parrocchia st. Padre Pio, con la vicina scuola che con i suoi 350 bambini ben sopravvive alla crisi delle scuola cattoliche che anche in America sta facendo strage. Emozionati loro, i bambini della 4 classe, ancora più emozionato io con il mio povero inglese, pieno di errori di pronuncia ad ogni rigo di vangelo. Loro buoni buoni nessun sorriso sotto i baffi, in effetti così piccoli non ce li hanno, e hanno ben poco da nascondere. Attentissimi, ordinati. Tutti in fila per fare la loro brava comunione. Insomma uno spettacolo tutto da vedere. Alla fine della messa ho chiesto loro scusa per il mio inglese approssimativo e ho detto loro di prestare maggiore attenzione alle loro professoresse che al sacerdote. Hanno sorriso, non so se per compiacermi o per compassione. E poi li ho visti uscire ordinati come erano entrati, in fila per uno, con un grande cartello Stop per fermare le macchine che in quel tratto, tra la chiesa e la scuola proprio normalmente non scherzano. Poi la giornata sembrava finita alle nove, con la messa. Invece ha avuto un epilogo a Hegg Harbor (porto delle uova, vado a naso), una cittadina sul mare, non a caso nata come porto...per le uova. In tutto il New Jersey, ma in particolare nella zona di Vineland ne hanno provate di iniziative prima di arrivare alla ciclica coltura ortofrutticola. Si vedono ancora sparsi per la campagna, pollai fatiscenti. Per gran parte del Novecento questa era la principale attività della zona: polli e uova, che esportavano in tutta l’America; di qui forse il nome dato alla cittadina sul mare. Poi hanno capito che si poteva guadagnare di più con l’agricoltura e tutti hanno cominciato a scavare pozzi artesiani e a coltivare ortaggi, che ancora esportano in tutta l’America, forse più con camion e cargo che via nave. Non per niente il New Jersey ha come secondo nome quello di “Garden State”, stato giardino, e ne ha ben diritto. Lo stato di New York, ha il secondo nome di Empire State, ci mancherebbe altro. Qui il verde dei boschi e dei prati è davvero dominante. Ero andato ad Hegg Harbor con David Saglimbeni (di origine itaiana, il padre tocano, la madre francese), factotum della parrocchia per un check up del suo trucker, furgone diremmo noi o pick up. Avere macchine normali qui in campagna è un’eccezione. Tutti viaggiano, ne hanno bisogno o meno, cone pick up, proprio lo stesso che i tagliagole dell’Isis utilizzano come panzer con tanto di mitragliatrice sul retro. Ce ne erano di tutti i tipi, della General Motor e della Chevrolet, di tutte le dimensioni e di tutti i prezzi, dai 32mila dollari in su. Uno enorme, e forse inutile, con ruote da trattore, costava persino 72mila dollari, un piano terra del nostro centro storico. Il proprietario della concessionaria era un certo Benett, forse irlandese, forse italiano chi sa, semmai di origine veneta. Siamo tornati per mangiarci un lunch freddo, ma riscaldato al micronde, e aspettare il dinner, la cena (con un tempismo da matti). Peter da eterno indeciso mi ha fatto fare tre telefonate: vengo dai Sopranzetti. A che ora? No non vengo più con Peter andiamo al ristorante. Quello solito del campo da golf. Finalmente riesco a capire che le porzioni del piatto possono anche essere più ridotte, più umane, cambia solo il prezzo (large o small). E ordino un bel risotto ai frutti di mare. Ho sempre paura a ordinare qualcosa che non sia fettuccine alla bolognese, o rigatoni o penne all’arrabbiata. Mai fettuccine Alfredo, una schifezza in panna e qualcosa che ci naviga sotto, forse pezzi di pollo o altro, di un sapore indescrivibile e soprattutto immangiabile. Le sorprese nei ristoranti americani sono all’ordine del giorno. Invece questa volta mi sono dovuto ricredere: un risotto allo zafferano, saporitissimo, in salsa salmonata, con tanto di vongole giganti, scalope (pesce un po’ insipido dell’oceano), saporitissimi shrimp (gamberetti), e cozze. Il risultato finale è stato graditissimo con tanto di complimenti allo chef, sia per le giuste proporzioni sia per il sapore. Me lo devo segnare. Ma in questo ristorante di Bono, amico di Peter, si mangia sempre qualcosa di fatto bene. Lo chef è suo figlio: un omaccione con il sorriso sempre pronto, che invita a nozze. E ora, in canonica, sono ripiombato nel solito silenzio assordante della mia stanza. Sono appena le 8 della sera: cher fare fino alle 11? Ho davanti la tv italiana, quella di skygo, che grazie a uno strattagemma, funziona benissimo anche qui in America, e un bel bicchiere di rum, di quello proprio nostrano, così buono non era neanche a Santo Domingo. Spero che mi concili il sonno. Purtroppo per cattiva vecchia abitudine sono molto resistente all’alcol, difficile che mi ubriaco, non per niente “odiavo” mio padre che dopo il primo bicchierino dava sempre i numeri. Ma queste sono storie vecchie. Domani è Giovedì santo. La chiesa sarà un turbinio di fiori, se la tradizione verrà rispettata. Qui non si fanno i sepolcri, ma un po’ di veglia si. Dall'Italia mi arrivano foto di mia sorella Maria con le stampelle e leggermente dimagrita: era ora. Il peggio è passato e il meglio deve ancora venire. Congratulation al coraggio e lei sa cosa intendo dire. Auguri di pronta guarigione



2 aprile: giovedì santo

Quest’anno o con una scusa o con un’altra mi sono perso la messa crismale. A Foggia era prevista per ieri, mercoledì, e così e stato. Anche se a vedere le facce dei preti in un filmato postatomi da un amico, sembrava più una sfilata da museo delle cere o da zombi, senza anima né sorriso. Qui invece addirittura per martedì. Ma il parroco era malato. E senza parroco non si va da nessuna parte. Pazienza, penso che il mio sacerdozio non ne risentirà più di tanto. Le promesse sacerdotali, dei quattro preti concelebranti, sono statele rinnovate davanti al popolo, e forse è anche più giusto così. Prima di essere sacerdoti del vescovo, con tutti gli annessi e connessi, cortigianeria e ruffianesimo compresi, siamo sacerdoti di Dio per il popolo cui indicare nella carità la via della salezza. E vada pure per la gerarchia, basta che non rompa più di tanto, com’è successo immancabilmente in tutti questi anni, 34, della mia vita sacerdotale. “Prometti obbedienza a me e ai miei successori?” mi ha chiesto il vescovo il 1 luglio 1978. “Certo” gli ho risposto, “lo prometto”. Tutto poi sta a capire bene quale tipo di obbedienza andava cercando, vista la non univocità della parola. Anche Hitler chiedeva un'obbedienza, molto simile, ai suoi gerarchi nazisti. Esiste anche l'obbedienza-fedeltà, come quella giurata militari e ministri alla nostra repubblica. Obbeidenza è anche quell'orripilante gesuitica, "tamquam cadavera", chi mi sa tanto di necrofilia: obbedienti come tanti zombi, senz'anima e partecipazione (critica). L'unica obbedienza che riconosco è quella di Cristo, fino alla morte, in missione sulla terra, per conto di un Padre amoroso, che vuole che tutti si salvino e che nessuno perisca. Sarà che sono vissuto senza padre, ma la semplice "obbedienza gerarchica" al superiore, senza un fine o uno scopo, mi è sempre scivolata addosso. Quando chiedevo “perché bisognasse fare o non fare quella determinata cosa”, cioè di essere aiutato a capire il motivo di una scelta piuttosto che un altra, mi guardavano come un’extraterrestre e non sempre erano capaci di rispondere. Le domande semplici non erano il loro forte. Ma iniziamo il racconto della giornata. La sveglia oscilla oramai dalle 5 alle 6 del mattino. Il problema è sempre quello di andare a letto con le galline. E’ ovvio che poi il gallo ti sveglia alle prime luci dell’alba, che da queste parti nonostante l’ora legale inizia chissà perché sempre prima del solito. Mattinata persa, a far nulla. Ho sempre il libro del tedesco sui sacramenti. Sono arrivato a quasi metà del libro e potrei anche finirla qui. Ma il tema mi attizza e voglio vedere dove va a parare: i sacramenti (l’atto magico per eccellenza della nostra religione, ma lui non lo chiama così) è la cosa che ci distingue e ci distinguerà per sempre dai protestanti, che per un eccesso di razionalismo e illuminismo ante litteram, hanno bruciato ogni rapporto con la creazione e la natura, sia pure incrinata dal peccato, per ripartire solo dalla redenzione e dalla grazia (ideologia allo stato puro). I sacramenti, l’aspetto umano, materiale, magico, viene trascurato in nome di una grazia, che parte direttamente da Dio attraverso lo Spirito per raggiungere il singolo cristiano. Contenti loro contenti tutti. Il problema dei cattolici, invece,, e qui sto aspettando la seconda parte del libro, è l’utilizzo dei sacramenti come “aiutino” sulla via della santità. Non l’incontro fondamentale e fondante la vita del cristiano con il Cristo, ma un sostegno nel cammino di perfezione, del quale molti cristiani ne fanno a meno volentieri. La tesi dell’aiutino e della comunità per i perfetti (confessarsi prima di fare la comunione) non mi ha mai convinto neppure durante gli anni di teologia. Immaginarsi ora. Siamo così arrivati al pranzo. Prima di pranzo ancora spese a Shop Rite, un supermercato alimentare con farmacia annessa. Qui è tutto da banco. Grazie alla molecola, la lidocaine, rintracciata in internet sono riuscito a recuperare una crema magica, un anestetico della pelle adoperato per i tatuaggi, per calmare un fastidioso itch (prurito) all’orecchio che dopo 9 ore di auricolare e di musica a tutto volume, ha pensato bene di irritarsi e farmi impazzire. Miracolo con “apercreme lidocaine, mumbs away pain” e il gioco è fatto. Solo che dura qualche ora, e poi tutto ritorna come prima. Spero di non dover ricorrere agli antibiotici. Oggi è giovedì santo e la messa in coena domini è fissata per le 7 del pomeriggio. Questa mattina un funerale, così per aspettare il parroco abbiamo mangiato all’una, il lunch. Poi per non stare troppo a ridosso della celebrazione, abbiamo fatto cena alle 4,30 del pomeriggio. Insomma paese che vai e abitudini che trovi. Sarà ma a me sia il lunch che il dinner mi stanno ancora sullo stomaco. Di dormire dopo il pranzo-cena neanche l’ombra. Mi sono messo sul letto, come al solito dopo pranzo (il dinner) ma un altro poco diventavo un salamino con coperte e lenzuola per tutte le volte che mi sono girato e rigirato nel letto. Il pranzo-dinner, poi, è stato un vero disastro. Dopo l’esperienza dell’altra volta del risotto ai frutti di mare, ho voluto cambiare. L’avessi mai fatto. Bucatini alla fra diavolo. Ho pensato: saranno come le penne all’arrabbiata, forse un po’ più piccanti. Non sono riuscito ad andare oltre la terza o quarta forchettata. Ho dovuto smettere. Avrò bevuto due o tre bicchieri d’acqua, il vino era finito da tempo. Cercavo un estintore. Mi è venuto incontro Steve Junior, visto che anche il padre e forse anche il nonno si chiamavano Steve, a dirmi che in inglese l’estintore si dice fire estinguisher. Sì, ma tanto non se ne vedevano in giro per il ristorante. Ho dovuto supplire con l’acqua e lasciare sul tavolo un piatto da 17 dollari. Che doveva essere pure buono, ma forse per i messicani (infarcito com’era di quel peperoncino che solo loro riescono a digerire). Ho fatto mettere il resto in un dogy bag, mangiare per cani. Ma penso che neanche Nina e Samy mai lo mangeranno. L’ospedale per cani non è tanto lontano. E poi se succede qualcosa ai suoi cagnolini, Pietro mi seppellisce vivo nel giardino della parrocchia. Più fortunato Steve che si è gustato un risotto all'anatra da far invidia, con scarpetta finale. Ho passato così il pomeriggio a convincere lo stomaco a digerire questo piatto ma niente da fare. Alla fine mi sono deciso e sono sceso in cucina per ritornare alla vecchia cara cocacola, con la quale da queste parti, ci puliscono i cerchioni delle macchine e a me non so perché le sue bollicine mi fa tanto digerire (Vasco Rossi). Mah! Sarà forse per la caffeina o la coca utilizzata a piene mani. Guardo dalla finestra della cucina e vedo un sacco di gente che entra in chiesa. Diavolo si erano fatte le sette e non me ne ero accorto. Il diavolo ci stava mettendo la coda. Quello dei bucatini. Mi sono precipitato in chiesa e con non chalance mi sono vestito ed entrato in presbiterio che stavano iniziando le letture della messa. Succede. Tutta colpa di fra diavolo. La predica di Peter, il parroco, sul sacerdozio. Il coro impeccabile. La gente delle grandi occasioni. Tutti un po’ tristi. Sanno che sarà l’ultima pasqua di Peter con loro. E la tristezza si poteva tagliare a fette. Ieri ho cercato su internet gli anni di mons. Denis Sullivan, vescovo di Candem e superiore di Peter: settanta. Sono rimasto molto contento, fra cinque anni toccherà anche a lui la stessa sorte. Intanto la messa finisce. Peter benedice panini e bottiglie, con su scritto Holy Thursday 2015, che finita la messa vanno a ruba. Portiamo in processione il santissimo nella cappella feriale e tutti a casa. Domani è un altro giorno. Il Diacono George presiederà la via Crucis al grotto (il grottino di fianco al teatro Giordano non c’entra questa volta) una costruzione di mattoni e cemento, che, appena fuori dal cimitero, traccia una via crucis tutta in salita e in pochi metri. Questo alle 12. Ma anche domani sarà un altro giorno. Via col vento l’hanno scritto da queste parti evidentemente (Alabama….un po’ più giù). 



3 aprile: Venerdì santo

Come al solito levata alle 5,30, primi saluti online, che in Italia sono le 11,30, per alcuni quasi ora di pranzo. La solita abbondante colazione, all’americana. Distrattamente ho affettato, come a solito, un po’ di salame: dimenticando digiuno e astinenza. Il parroco per poco non mi uccideva con gli occhi. “It is holy friday”. E’ venerdì santo: niente carne. Quelle due fettine che mi sono mangiato inavvertitamente certamente oggi mi andranno di traverso. Non ho mangiato carne, oltre le due fettine, ma sono stato a trovare i Santangelo, famiglia abruzzese di Roccamorice, trapiantata nella notte dei tempi qui a Vineland. Ero andato per salutarli come ogni anno, quando vengo da queste parti. Resoconto di acciacchi di vecchia, una valvola di maiale che sostituisce quella umana, varie artrosi e malanni di stagione. E via con il primo caffè, biscottini, pane tostata e marmellata. Poi il secondo caffè accompagnato dalla stessa dose di biscotti ecc. E per chiudere un bicchierino di amaretto di Saronno. E meno male che era venerdì santo. La carità dice il vangelo copra una moltitudine di peccati. E quale migliore carità di quella dell’ospitalità, sempre tanto gradita. In ogni caso un po' di penitenza l'ho fatta: a mezzo giorno c'era la via crucis, anche a quest'ora in pieno giorno la chiesa è gremita. Da non crederci. Dopo la via crucis il lunch, al solito ristorante del golf. Menù semplice: formaggio impanato, tuna (tonno), e spaghetti ai gamberetti, il tutto condito con dell’ottimo vino bianco. Questa volta il proprietario, un grande amico del parroco e mio, ha voluto che visitatissimo le cucine e la solita foto ricordo. Un omaccione tanto grande e tanto buono. All’una e trenta si torna a casa. La funzione è alle 3. Giusto un velocissimo abbandono sul letto, neanche mezzoretta, qui lo chiamano nap (sonnellino pomeridiano) che solo i ricchi e gli sfaccendati come noi si possono permettere, e subito in chiesa per la preghiera del venerdì santo. La chiesa piena. Erano le tre del pomeriggio. Non oso rapportarlo alle quattro bizzoche della mia parrocchia. “Alle tre? Ma dove si è visto mai?”. O alle cinque o niente. E io ostinato che riproponevo cronologicamente le tre, orario presumibile della morte del Signore, mi ritrovavo sempre con quattro bizzochelle, alcune già morte, che mi staranno aspettando, spero, in paradiso. La funzione procede ordinata. Della predica, in inglese, non afferro una parola, ma ci vado dietro a senso. Dopo l'adorazione della croce ognuno accendeva un lumino sull'altare. Non ho capito molto il senso, ma l'effetto era garantito. La cantante Kit, divinamente canta una serie spirituals, che mi fanno ritornare indietro alla mia giovinezza, quando semplicemente li adoravo in italiano. In inglese sono davvero tutta un’altra cosa. A ben pensarci forse non saranno stati dei capolavori di musica, un po’ sempliciotti nei testi e un po’ ripetitive le melodie, ma all’epoca il confronto era con “T’adoriam ostia divina”, “inni e canti sciogliamo fedeli”, “io son cristiano dal sacro fonte”. Penso d’averli cantati da quando sono nato fino a qualche anno dopo il concilio, sempre gli stessi, per ogni occasioni: natale, pasqua, feste varie. Dopo il concilio le acque si sono rotte e molti altri canti nuovi hanno preso il sopravvento. Mi domando come ho fatto, allora, a sopravvivere. Già sopravvivere a tutto quel periodo, seminario compreso. Finalmente un ragazzo (sotto i trent’anni) ha deciso di farsi prete. Un ragazzo splendido, un’anima candida, sacerdote da sempre nell’animo. Indeciso quanto basta per ritardare l’ingresso in seminario fino a questa età. Mi ha chiesto a bruciapelo, ieri mentre stavo litigando con il piatto di bucatini alla diavola: “tu a che età sei entrato in seminario”. “A 10 anni”. “Nooooo! Possibile?”. “E sapessi le lotte con mia madre che proprio non voleva un figlio prete”. Ne aveva già avuto abbastanza con don Mario Aquilino, un sant’uomo, forse burbero e un po’ borderline (ma si era ai tempi della guerra e della POA), nonché parroco di san Tommaso. Imperiosa e decisa mia madre: “non voglio che ti faccia prete, come questi di Foggia”. “Sarò diverso”. “Devi passare sul mio corpo”. “Mamma, sdraiati che ci passo”. Devo essere stato un bambino terribile. Il mio interlocutore faceva fatica a credermi. Eppure questa è la storia della mia vocazione. Eravamo 300 in seminario in quegli anni: forse una decina sono diventati preti, e io tra questi. “E come hai resistito tanti anni in seminario?”. Da 10 a 28 anni: ben 18 anni. Sono davvero tanti. “Non lo so. Si vede che era destino che diventassi prete”. “Ti sei mai pentito?”. “Finora no, anche se motivi ne avrei a buttare, per una chiesa sempre più ottusa e a volta mascalzona”. Non sono sceso nei dettagli per non turbarlo. Gli ho solo detto che uno, in effetti, è prima sacerdote di Cristo per la salvezza del mondo e poi appartiene anche a una chiesa e a una comunità locale, semmai passando sotto vescovi idioti, quando non cattivi, carrieristi o più semplicemente stupidi. Ma sono pur sempre i vescovi cui devi far riferimento, nel bene e nel male. E poi non litigavano anche gli apostoli, con Gesù presente? E’ un vizio, diciamo congenito alla chiesta stessa. Non ho celebrato questa sera il rito della passione. Stavo nei banchi, insieme al parroco. Certo dai banchi la prospettiva è proprio un’altra. Ogni tanto bisognerebbe cambiare posizione. Si capiscono i tempi, il tono della voce, le parole di più, i gesti sbadati. Insomma è proprio un’altra prospettiva. Fino a domani sera silenzio e meditazione. Sento che fra poco il parroco, nonostante il digiuno mi chiamerà per il dinner: ma quanto pesce dovrò mangiare oggi? Con domani sera inizia la Pasqua. Penseremo a ingrassare da domani in poi. Oh in finale. Marc Di Benedetto, un ragazzo tutto fare della parrocchia, legge, forse l'unico questi post, e se li traduce con il traduttore di google. Merita una menzione particolare. Grazie Marc. Almeno uno li legge questi post: una frustrazione in meno.



4 aprile: Sabato Santo

Cosa si fa in chiesa il Sabato Santo? Niente si aspetta la veglia di Pasqua, si addobba la chiesa, si dovrebbe stare in silenzio meditativo. E così è stato. Un salto al mall, ai grandi magazzini, per comperare la spilla promessa al mio avvocato, e visto che c’ero (ma non ne avevo proprio bisogno) qualche maglietta per me estiva di quelle 4 al prezzo di una. Un affare. Spero solo che non pesi troppo la valigia al mio ritorno. Poi a casa. Niente lunch. Non c’è tempo. Comunque un prosciutto cotto, che qui chiamano ham, e un po’ di sottilette di formaggio, un bicchiere di vino e il lunch è fatto. Mi sa che anche la cena, il dinner, avrà la stessa sorte. Qua non se magna oggi. Piccolo interemezzo pima della cena: si tosano i cani in casa. Quelli già due terribili scriccioli sono, tosati, sembreranno agnellini....Spero non vengano portati all'offertorio in Chiesa per la veglia pasquale. Finalmente si fa sera e alle otto in punto inizia la veglia di pasqua. Il fuoco si accende nell’atrio della chiesa, quello interno. Troppo vento e la paura più grande per gli americani sono le scintille. Le case sono di legno e diventano un cerino in pochissimo tempo. Quindi dentro. Tutte le luci spente. Gli inconvenienti di sempre. La pila scarica e non si legge una mazza. Ma per caso avevo l’iphone in tasca (non per caso, non mi separo neanche al bagno), e con la funzione pila a pieno giorno. E si può procedere. Si entra con il cero pasquale e la chiesa rimane al buio delle candeline. Sempre suggestiva questa luce che si diffonde piano piano per tutta l’assemblea. Poi l’exultet, forma breve e per giunta in inglese, che è tutto un altro suono. E poi le letture. Sempre al buio. Delle sette se ne leggono tre: creazione, Abramo e Mosè. Tutte nella forma breve. Poi finalmente la luce e che luce, l’alleluia, le campagne, insomma Cristo è finalmente risorto. La predica di Peter, questa volta è fatta dall’altare, senza troppe emozioni, bella pacata, molto ascoltata. Il momento toccante è stato il battesimo di un giovane (forse accompagnato dalla fidanzata cattolica) e la cresima di un adulto. Mentre da noi con facilità lasciano la chiesa cattolica o per il nulla o per qualcuna di queste nuove sette, non più cristiane, ma anche solo religiose (penso a scientology), qui molti, anzi moltissimi si convertano al cattolicesimo. Di per sé se sono cristian (come chiamano qui tutte le sette cristiane) il battesimo dovrebbe essere lo stesso e valido. Ma fuori dalla religione cattolica, l’organizzazione delle chiese è talmente labile, che quasi nessuno sa sicuramente se è stato o meno battezzato, non trovandosi mai i relativi documenti. Poi lo spostamento da uno stato all’altro, come per noi andare a Siponto, non fa che complicare le cose. Così si taglia la testa al toro e si fa di nuovo (o forse per la prima volta) il battesimo. Nel battesimo dei bambini, è la madre o la madrina che asciuga la testa del neo battezzato. Questa volta ha fatto lui tutto da solo. Insomma, un po’ come dopo una doccia. Poi assieme all’altro adulto ha ricevuto la cresima. La gente partecipava con molta attenzione e con l’immancabile applauso finale. Queste conversioni qui significano molto, evidentemente. La messa procede come al solito. Meno male che il mio iphone non è appariscente. Ma sono riuscito a fare foto per quasi tutta la messa. Spero di non aver scandalizzato nessuno. Domani ho intenzione di firlmare la mia messa in inglese. O spasso o tragedia. Giuidicherete voi domani. Alla fine della messa un altro coRo ha cantato un pezzo del recital sulla passione già cantato venerdì scorso, ha chiuso la celebrazione. Bello. Già postato ieri sera. Dopo la messa la cena: prosciutto cotto, sottilette di formaggio, cheescake, vino, quello imbottigliato per il giovedì santo (niente male per essere un vino di queste parti), e nient’altro: il venerdì santo abbiamo decisamente mangiato meglio. Si va a dormire presto. Domani c’è la messa all’alba, alle 6,15 del mattino e non me la voglio perdere. Le foto le ho già postate ed è stata davvero una cosa suggestiva. Ma ne parliamo questa sera. “Sufficit diei malitia sua”: ogni giorno il suo post, visto che non parliamo più latino.


5 aprile: Domenica di Pasqua

Alle cinque del mattino sento il parroco che si alza precipitosamente dal letto e con un gran rumore esce dalla stanza. La messa all’alba è prevista per le 6,15. Prudentemente avevo messo la sveglia alle 5,30, per essere puntuale per il reportage fotografico. Lo scorso anno di questi tempi ho poltrito nel letto e mi è dispiaciuto perdermi questa celebrazione. Svegliato dal parroco anch’io mi alzo faccio le mie cose e scendo in giardino. Già la gente stava seduta sulle panchine e sulle sedie, di quelle messe a disposizione dalla parrocchia. Ma molti prudentemente se le sono portate da casa. Si vede che qui ai raduni ognuno si porta la propria seggiola, non si sa mai. La messa inizia puntuale alle 6,15. Non capisco sul momento questo quarto d’ora dopo le sei. Intanto i canti (un amplificatore ci voleva) e poi l’omelia, solitamente breve del parroco (anche questa senza altoparlanti). L’offertorio, la consacrazione e infine la comunione. E’ qui che proprio al momento della comunione sorge un sole che se non proprio riscalda, illumina molto bene la scena. Ecco il perché del tutto ritmato della celebrazione. Comunione, sole, luce, calore. Le cose a volte si capiscono più con l’esperienza che con le nostre brave omelie o catechesi. Finita la messa attorno alle 7,10 mi affretto ad entrare in chiesa. A volte il genio. Salgo di corsa nella mia stanza e prendo la videocamera. Voglio registrarmi quella che potrebbe essere la mia ultima messa in Vineland, ma soprattutto detta in inglese. Metto un vaso sull’altare, piazzo la videocamera e inizio la messa. Mi sono accorto che quando leggo, l’inglese mi esce abbastanza chiaro e fluente. Ma quando predico, a risentirmi, non riesco a capire io stesso quello che dico. Immaginarsi la gente che sta in chiesa. Ho dato la colpa ai due microfoni, quello dell’altare più preciso, quell’ambone un po’ rimbombante. O forse è proprio il mio inglese parlato che fa acqua da tutte le parti: eppure a tavola quando chiedo pane e vino me lo passano sempre. Brava gente che sopporta tutto e ti sorride pure. Che bravi questi americani. Più antipatici sono per davvero i british (ma chi se ne). “Thank you father, a beautiful preaching”. Mi dicono sempre all'uscita di chiesa. Se lo dicono loro, c’è da crederci. La predica parlava dell’amore, della felicità dell’incontro con il Cristo Risorto, una felicità da spargere nel mondo, a servizio soprattutto dei poveri e bisognosi (needy). Questo il concetto, la parole forse andavano per i fatti loro. Chiudiamo questa parantesi. Forse era meglio lasciarmi nella mia illusione e ignoranza e non registrare nulla. Ma si dice sempre chi è causa del suo mal pianga se stess. Arriva l’ora del pranzo. La scusa di procurarmi una macchina, ma anche la voglia di mangiare italiano, mi hanno subito fatto accogliere la proposta della famiglia Santangelo di andare da loro. Non me lo sono fatto ripetere due volte. Ravioli (doppia porzione), agnello (doppia porzione), spinaci, patate, vino homemade (fatto in casa). Solo il genero Cleveland, un manager di banca, non capiva molto l’italiano, ma seguiva tutto con attenzione. Vanta antenati sulla nave Mayflower, che dall’Inghilterra portò i reietti della regina, (i famosi quaqqueri), i primi emigranti nel nord dell’America. Con tanto di documento e medaglia al merito. Insomma una ascendenza importante, anzi importantissima. Per un momento ho pensato che tra Gargano Montesantangelo (mia nonna materna), Montevergine-Mugnano del Cardinale (mio nonno materno), Terlizzi (mio nonno paterno), Canosa (mia nonna materna), non avevo molto di che vantarmi, pugliese con ascendenti avellinesi (insomma). Va però detto che con tali ascendenti uno poi rischia anche di essere davvero molto intelligente. Ma lasciamo perdere. Intorno alle 4,30 del pomeriggio cerco di entrare nell’auto datami in concessione per questa settimana (una Subaru, niente male) e torno a casa. La prima e la seconda pespi riescono a farmi smaltire un italianissimo pranzo delizioso (maybe i ate too much) ma forse ho mangiato troppo. E via a letto, sperando che il sonno smaltisca quanto voluttuosamente ingerito. Mi ero dimenticato dell’invito per cena degli amici di sempre i Sopranzetti. Verso le 6,30 mi alzo, violentandomi non poco, e vado da loro. Grazie a Dio, la signora Maria, ha pensato bene a fare un brodino con un’ottima pastina fatta in casa. Un po’ di verdura. Un paio di bicchieri di vino fatto in casa e l’insalata. E per chiudere una grappa Amarone, che solo David, il tutto fare della parrocchia, giunto alla fine della cena, non sa come bere e gustare (ma tanto lui va avanti a birra coors, bevuta in non so quante lattine, dopo 40 giorni di astinenza (e ci credo: i giorni scorsi era davvero sobrio, oggi lasciamo perdere). Ho bevuto anche il suo: perché nulla vada sprecato. Poco prima era venuto anche Peter, rimasto a letto tutto il giorno, per le fatiche della settimana santa. E qualche ragione pure ce l’aveva. Non è un colosso di natura, anche se grosso come me, e poi molto emotivo. Finalmente alle 10,00 della sera siamo tutti alle nostre case. Per tv SNJtv (south NewJersey television) trasmettono il recital di venerdì scorso. Ho detto a Peter, ora capisco se qualcuno mostra un po’ di invidia nei tuoi confronti. Sarà l’unica parrocchia di tutto il New Jersey a fare una cosa del genere. Trasmessa più volte da una tv locale (il NJ è quasi un terzo dell’Italia, come estensione), che tanto locale non è. La vedono anche nella vicina Filadelfia. Domani destinazione New York. Devo rinnovare la mia carta verde e incontrare mons. Di Marzio (vescovo di Brooklyn). Sarò matto. Avrò sprecato dieci anni della mia vita per progetti imbroglioni: seminario e scuola di teologia. Il primo finito miseramente il secondo lo seguirà a ruota fra non molto. Quando c’è miopia nei progetti, succede questo e altro. Lo dice anche il vangelo, stupido a non capirlo: le perle non vanno date ai porci. Ho pure il diritto di pensare a cosa farò da grande, o il mio destino è segnato come tanti preti zombi in giro per le nostre diocesi? Ricordo la frase di uno che poi ha voluto farsi sacerdote nello stesso mio giorno, per non quali diritti di precedenza (manco fossi Giacobbe e Esaù): “tu sei troppo diverso da noi, o cambi o vedrai quanti guai passerai”. Non ho perso un minuto a rispondergli: “ma ti sei mai fatto visitare da uno psichiatra? Guarda che sei giovane e qualcosa si può aggiustare". Ho proseguito per la mia strada, lasciandomi alle spalle da subito una vita da zombi omologati, che proprio non era nel mio DNA. E sono qui questa sera, della domenica di Pasqua, a domandarmi seriamente: “ma cosa farò da grande?”. A domani la risposta.



6 aprile lunedì: andata e ritorno da Brooklyn.

Avevo l’appuntamento con mons. Ronald Marino, un pezzo da novanta, della parrocchia Regina Pacis e della diocesi di Brooklyn. Un’istituzione: incaricato degli emigranti da sempre. Di qui la nostra conoscenza dieci anni fa. Parla benissimo l’italiano, non solo per la sua origine, ma per averlo studiato a scuola, con molto impegno. L'accento è quasi romano. Oltre a essere monsignore è anche Cavaliere del Santo Sepolcro (senza cavallo, dice lui) e Cavaliere della repubblica Italiana (al posto di Berlusconi, per capirci). Nel suo piccolo è un grande. Oltre ad essere amato da tutto il quartiere, multietnico a maggioranza italiana, ha ripreso le vecchie tradizioni popolari e ridato vita alla parrochia. Ma non è grande solo per questo: ha brevettato una macchinetta per le offerte, che pare l'uovo di Colombo. Il meccanismo è semplice. In America tutti usano la carta di credito, anche per pagarsi una coca cola al bar. Di moneta ne gira poco. Così chi vuole fare la sua offerta in chiesa, quando entra va ad una di queste macchinette, striscia la sua carta di credito (minimo cinque dollari) e ha in cambio due ricevute: una da depositare nel cestino, per la contabilità parrocchiale e un'altra da conservare. Alla sua banca, però, hanno già segnato l'operazione. Così si facilita anche la dichiarazione dei redditi e la detrazione, in America possibile da sempre, delle offerte date alla chiesa. Due piccioni con una fava. Oh ci ha messo il brevetto e lo sta vendendo a tuta l'America. Il ricavato va alla chiesa Regina Pacis. Ora un'altro colpo di genio: i loculi nella cripta della chiesa. Le chiese, prima dei napoleonidi, erano anche cimiteri. Lo sono molte delle cappelle, diciamo tutte, delle confraternite di Foggia. Almeno fino all'Ottocento. L'idea non è né lugubre, né peregrina e ha un fondamento teologico di tutto rispetto,forse oggi smarrito. La comunità è fatta di vivi e di defunti (in cielo) da sempre uniti, in attesa della risurrezione finale e del ritorno del Signore. La basilica di san Pietro sorge su uno di questi cimiteri, sorti attorno alla tomba di Pietro, al colle Vaticano. Quindi grazie (si fa per dire) ai napoleonidi, le necropoli (le città dei morti, che etruschi e romani ha sempre avuto) sono tornate di moda. Cresciute a dismisura: città nelle città (Milano ha persino gli autobus al suo interno, per i vivi ovviamente e non per i morti). La cremazione, che si sta diffondendo rapidamente, fra non molto sarà un obbligo. Ecco allora l'idea di mons. Marino (approvata dal Vesovo e dalla curia di Brooklyn): perché non utilizzare le cripte delle chiese come nuovi cimiteri? Detto, fatto. Il progetto prevede una cappella centrale e tanti loculi alle pareti per accogliere le urne dei cristiani defunti (e cremati). Se ne prevedono, in un aprima fase, ottocento e più, ma il numero potrebbe perfino raddoppiare. Qualcuno dirà: come si fa a stare in chiesa sapendo che è un cimitero: che idea lugubre. Lugubre? Ma se la nostra chiesa è nata nelle catacombe, che altro non erano che cimiteri alle porte delle città romane. Chi parla così non conosce la tradizione della chiesa e la suta teologia sui novissimi, e non conosce neanche l'America. In molti stati uno può seppellire i propri morti nel campo sottocasa o nel cimitero vicino alla chiesa, come qui a san Pio a Vineland: una cosa bellissima da vedere e una meditazione continua sul senso della vita e della morte, per i cristiani, e non solo, che vi passano accanto. E vi posso assicurare che questo cimitero lo visito tutti i giorni, mentre per quello di Foggia ho una nausea che mi cresce dentro. Grazie mons Marino, spero che anche questa tua trovata come qualle dei poss per le offerte abbia successo e sia seguita da altre chiese, che la possono realizzare. In ogni caso ero andato a mons. Marino per il rinnovo della carta verde. Il prossimo anno mi scade e non sapevo cosa fare. Mi ha detto semplicemente che qualche mese prima della scadenza, mi avvertono loro, quelli dell'immigrazione, così posso avviare la pratica online (pagando ovviamente) e ne avrò per altri 10 anni. Bella notizia. Ora posso progettare con più calma cosa farò da grande. La via di fuga è assicurata: Brooklyn o Vineland. Le due ore di tragitto fino a Brooklyn sono state come un flash back di tutti gli anni passati in America. Le speranze, i primi inserimenti al college di Cumberland, la zona (county), diciamo noi la provincia, nella quale è ubicata la cittadina di Vineland. L’accorato appello a tornare a Foggia, da parte di mons. Galantino: “torna, abbiamo bisogno di te, per mettere su la scuola di teologia. E’ una università. Servirà alla chiesa. C’è bisogno di gente capace”. E menate del genere. Mi sono fatto convincere non so neanch’io perché. Sono tornato e nel frangente del ritorno la proposta di insegnare filosofia al Seminario e poi la decisione di una scuola paritaria, resa possibile dal ragazzino d'un tempo, ora ministro, Beppe Fioroni. Dieci anni di lavoro sodo, spesi tra ISSR e Scuola paritaria. La fatica che a un certo punto si fa sentire e il bisogno di passare la mano, almeno nella scuola paritaria. Ma con gli imbecilli che ci ritroviamo nella chiesa il passamano è sempre una tragedia. Don Tonino, lui e suo cugino: “bastiamo noi a gestire la scuola, tutti i dipendenti, segretari, amministratori, bidelli possono andare a casa”. Per fortuna non mi ero ancora dimesso e l’ho fatto correre per tutta Foggia e provincia. L’anno dopo la cosa riesce meglio. Il furbetto di Tamburrino, prima mi fa dimettere, con la prospettiva che a prendere la scuola sarebbe stato il prof. Frasca e poi, dopo le inspiegabili sue dimissioni a una settimana dalla nomina, arriva il pierino di turno, che in due anni riesce a far scendere gli iscritti da 90 a 35 e la scuola si chiude. Che bestie. E poi la volta dei dipendenti cacciati (deve essere stato il chiodo fisso del solito cretino, che non vedeva l’ora di fare un gesto così sconsiderato, e gravido di conseguenze legali). E poi le cause, tutte perse. E poi finalmente Pelvi che con coraggio e determinazione ripara il danno. “Bravo Pelvi", per certe cose ci vuole gente decisa, altrimenti le cazzate cescono a dismisura e poi qualcuno si appella al detto che una mano lava l'altra, perché siamo sempre tutti colpevoli, in qualche modo. E vai con questa menata del male diffuso, manco fosse un peccato originale che amorba l'universo. Il prezzo pagato è forse stato troppo: chiudere, con un doloroso taglio chirugico, una realtà che avrebbe potuto dare tanto alla diocesi e al territorio, fa sempre un po' male. Rimangono gli impuniti: cosa si fa con chi ha messo su tutto questo casino, tanto rumore per nulla? Se la scappotteranno come sempre?”. Diciamo che da qua, dall'America, la cosa me ne può fregar di meno. Devo confessare però che la cosa mi secca non poco. Anche perché fra non molto toccherà alla stessa scuola di teologia: è un cliché oramai. Un supponente baldanzoso, vuoto e incapace quanto basta, con alle spalle un altro fallimento per una scuola simile, è stato imposto da chi non vedeva l'ora di liberarsi di me. Parole di Panzetta all'assembela dei docenti: "tu, poi, non sei in comunione con il vescovo (quello stesso che mi aveva diffamato) e questo è un altro elemento a tuo discarico (una pessima teologia imparata per corrispondenza e utile solo a far carriere, in questo nostro barocco e decadente cristianesimo meridionale). Una buona scusa, assieme ad altre forse più plausibili, come quella d'aver sforato incolpevolemente di un paio d'anni, il mio mandato precedente, per nominare un reggente, esautorando il consiglio d'Istituto e facendolo pure insegnare (tutto legale a loro avviso). E lui il poveretto ob torto collo che non l'ha cercata la cosa, gliel'hanno chiesta e lui è religiosamente obbediente si è accollato questo onere: Dio, che fatica a credere a certe manovre di palude mentale. Ma come la mettiamo che si è subito candidato per la nuova terna dei futuri direttore? Anche questo per obbedienza e obtorto collo? E vai: a quando la prossima chiusura, per un'altra croce nel suo curriculum honorum? Perché se qualcuno la scuola la tiene aperta e qualche altro le fa chiudere (diamo tempo un anno o due), una differenza ci dovrà pur essere o siamo sempre tutti uguali, tutti utili e nessuno indispensabile (vedi la scuola paritaria in seminario)? Una decisione qui dall'America è pur presa: mai più collaborare con la struttura chiesa, mi dovrebbero cascare le braccia. Per carità, resto prete, professore e ordinario (questi ci sono stati e ci saranno sempre). Ma niente di più. Che le castagne dal fuoco se le tirino su da soli, visto che ce le hanno messe loro (ci siamo dimenticati che fine ha fatto la scuola di pastorale: da settecento iscritti alla sua ingloriosa chiusura o il più classico tirare a campare. Questa è la chiesa di Foggia: appiattire sempre e appiattire tutto. Ah quel benedetto mons. Galantino se solo potessi averlo tra le man, non so cosa gli farei. Ormai è vescovo e segretario della CEI, alla mia domanda: “ma dove andremo a finire con queste scuolei teologia, ormai ridotte a scuolette per sfornare professorini di religione: una materia che fra non molto verrà tolta, e aggiungo speriamo presto, così finisce l'equivoco?”. Nessuna risposta: "ormai non sono più in quel settore della chiesa", mi ha detto. E va bene, abbiamo capito anche te. Però bastava dirlo prima. Uno restava in America e chissà ora dove sarei finito. Le porte, ha detto mons. Marino, sono sempre aperte: basta che mi decido. Se vuoi anche domani ne parliamo con mons. Di Marzio. Dovevi ritornare appena ti sei accorto che l’aria era cambiata. Già tornare in America. E i tanti rapporti instaurati con amici, studenti, allievi, politici? Si dice presto taglia tutto e vieni. Come si fa? Una cosa è certa: la tentazione c'è e non prego con il "non indurmi in tentazione", tanto ci sono già. In un anno il mondo può cambiare. Intanto a ottobre avrò la soddisfazione di vedere Tamburrino di fronte ai giudici del tribunale per la pacchiana diffamazione. Dovrà pur spiegare loro come gli è venuto in testa di dire che mi sono fatto una scuola abusiva dentro la scuola paritaria, che i dipendenti li avevo assunti a titolo personale, che i debiti lasciati sono i miei e non della scuola. Dopo che avrò finito con lui, inizierò con quelli della curia romana, che con la stupidità e faciloneria con la quale gestiscono cose tanto delicate, hanno decretato sensa leggere le mie carte che Tamburrino, senz'altro aveva ragione, e che io mi ero fatto una scuola abusiva. Spero che ci sia anche per loro, presto, un tribunale, come per Tamburrino. E che dire dell'altro tribunale ecclesiastico della Segnatura Aspostolica, quello adibito a dirimere le questioni tra preti e tra preti e vescovi? Solo per "esaminare la pratica" mi ha chiesto 1800 euro e altri 5000 per l'avvocato, da scegliere obbligatoriamente da una lista di venti accreditati da loro. Il primo avocato interpellato mi ha detto testualmente "ma lasci perdere che è tutta una farsa". Ma quanto tempo ci vorrà ancora che qieusta finta giustizia clericale, del "cane non mangia cane" abbia fine? Ha sempre gli organi superiori, la via gerarchica per avere giustizia, mi avevano detto i soliti idioti. E così ho fatto, per restare ancora nella chiesa cattolica. Ma: il vescovo mi ha risposto sull'onda dell "ispe dixit", senza leggere le carte (un'abitudine tutta chiesastica, quella di giudicare per sentito dire) che aveva ragione lui: mi ero inventato una scuola parallela. Qualche idiota giurista di curia deve averli suggerita una cosa che non è farina del suo sacco, perché intelligente a modo suo lo è. La congregazione del Clero aveva sentenziato che Tamburrino essendo un vescovo non poteva dire bugie e falsità, e che quindi aveva certamente ragione lui nel dirmi che mi ero fatto una scuola abusiva all'inerno della scuola paritaria (paraculi). Il supremo tribunale non entra nel merito se non ben oleato con milleottocento euro: mica stanno a servizio nostro.... Le cause costano sempre e in ogni caso, anche se l'offeso non ha soldi e mezzi per farle avviare e avere giustizia una buona volta. Lo stato, quello scombinato stato italiano, con i tribunali allo sbando, batte quelli ancora più scombinati della chiesa, tre a zero e palla al centro. E’ bastato il primo round dei tre processi intentati dai dipendenti cacciati come cani, perché questa tesi, messa sua da mascalzoni navitagati e di lungo percorso, crollasse senza appello al solo esame delle carte e delle prove risultate inesitenti. Bene, ma chi mi restituirà questi anni di duro lavoro finiti nel nulla? E gli autori di questa vergognosa e infantile bufala, resteranno ancora una volta impuniti (come spesso accade nella chiesa: "e tu perdonalo" mi ha detto Pelvi)? Non cerco vendetta, non so cosa sia, ma per lo meno che si faccia luce sugli eventi e ci si metta una pietra sopra (quella della giustizia) a una vicenda al limite della commedia goldoniana. Intanto continuo a guidare per la via del ritorno, con questi pensieri e il sottofondo di musica americana che oggi proprio non riesco a digerire. Dopo la prima delle due ore a gonfie vele, improvvisamente la marcia si fa a passo d’uomo. Avremo fatto dieci chilometri in un’ora. Un cartello elettronico ci aveva avvertito di un incidente più avanti. E lo avevamo già passato. Non ci avevano detto che gli incidenti erano due. Il secondo un camion che trasportava pacchi di carta si è letteralmente frantumato sul gard rail distruggendolo e invadendo la nostra corsia. Come Dio ha voluto abbiamo passato il punto cruciale e poi via di nuovo con il vento. La cosa strana è stata che anche l’altro corsia, quella riservata ai camion e ai caravan, alla nostra destra, non toccata dall’incidente andava lo stesso a rilento come noi. Evidentemente in America le sbirciatine sono d’obbligo e con la massa di macchine in circolazione, anche una sbirciatina rallenta il traffico in maniera paurosa. Comunque non sembrano esserci stati feriti. Solo macchine sfasciate e camion gambe all’aria. Intanto si sono fatte le cinque e mezzo. Peter è a casa sua. In canonica non c’è proprio nessuno. Voglia di andare al ristorante non ne ho e da bravo scout mi faccio penne al ragù, cotolette tirate al vino bianco, insalata, e due bicchieroni di vino di bottiglia, rigorosamente un cabernet californiano. Insomma una cenetta niente male. Il silenzio dei giorni scorsi a quest’ora sembra raddoppiato. Peter si è portato a casa sua sia Samy che Nina, i suoi cagnonili frignanti a ogni ora, così sono solo, proprio come un cane, anzi senza neanche un cane di compagnia. C’è sempre sky però, quella italiana. Con un trucco di poche lire, lo posso seguire integralmente, anche nei film a command, anche qui da Vineland. Se non fosse che il silenzio e la solitudine mi fanno venire pensieri e ricordi terribili come quelli sopra descritti, nessuno può immaginare quanta creatività c’è in questo silenzio e quanti progetti per il futuro possono nascere. Ho ancora 4 giorni prima di venerdì, data del rientro (sigh) e li voglio sfruttare al meglio. Il libro sui sacramenti, l’articolo su Religiosità popolare, liturgia e carità, sta aspettando di essere scritto e sembra palpitare sotto la tastiera del computer. Proprio qui in America, dove i nostri cristiani italiani, si sono portati tutti i loro santarelli, le loro devozioni, i loro culti popolari, si capisce quanto questa religiosità popolare, sia davvero importante e grazie a Dio, rispeto ai protestanti non abbiamo mai avuto il coraggio di buttarla a mare, come quaclche sciocco teologo e pastoralista di terza mano, va sbandierando dal concilio in poi. Tutto gioca a favore di un recupero del cristianesimo a tutto campo e non solo a partire dal citazionismo patristico o dal liturgismo ideologico o da un attivismo pastorale, fine a se stesso quando non autorefernziale e compensativo di un celibato mai ben vissuto. Che sia anche questa un’altra tentazione? In Italia sono le tre, qui ancora le nove….il giorno è ancora lungo per pensarci su.



7 aprile martedì

Oggi giornata di relax. Pasqua e pasquetta sono ormai alle spalle. Alzarsi tardi è di rigore. Fare le cose con lentezza ancora meglio. Tanto nessuno ti corre dietro. Peter è a casa sua. La parrocchia va avanti da sola. Quando scendo in cucina, la cuoca Rosa, sta già preparando il pranzo e io non ho fatto ancora colazione. Tutti i dipendenti sono nelle loro stanze. La vacanza qui dura poco. Finalmente ho avuto una macchina a disposizione e mi posso muovere con libertà. Vado a mall a comprare qualcosa per i regalini. Oramai fra pochi giorni si torna a casa. Quando sono qui, mi pare sempre di comprare tante di quelle cose. Quando torno a casa tutto diventa insignificante da mostrare alle fameliche nipotine. Meno male che questa volta si sono accontentate di un po’ di bigiotteria, molta apparenza e poca spesa. Sorpresa al mall: JCPenny ha chiuso. In America è un’istituzione, un grande magazzino, davvero alla moda. Mi hanno detto che ha chiuso per mancanza di clientela. In effetti la gente preferisce Walmart, più alla mano e senza pretese. Così ho speso poco questa mattina. Domani devo vedere Boscov, un altro store, per alcun aspetti migliore di JCPenny. Il pomeriggio passa in attesa della sera: la grande cena dalla famiglia di Louis Tolotti, un amico e una famiglia che mi entrata nel cuore e che difficilmente potrò mai dimentare. Louis, il capostipite, è morto già sette anni fa, e sembra ieri. L'ho visto malato qualche mese prima del decesso e forse è stato meglio così: ricordarmelo da vivo, pacioccone, intelligente, con una grande storia alle spalle e un cuore grande come l'America. Quante chiacchierate, quanti racconti colti dalla sua viva voce, da montanaro trentino, anche se nato in America. Ma l’imprinting era quello. Un uomo pratico, un po’ rude, gran lavoratore. Dal niente ha fatto una proprietà di 150 ettari, sulla quale lavorano e vivono quattro famiglie. Produzione ortofrutticola, da maggio a ottobre inoltrato,. Ininterrottamente: finito il raccolto si prepara la semina per il nuovo (altro che pollai e selvaggina). L’acqua qui si spreca. Il terreno è sabbioso, perfetto per questo tipo di coltura. Il clima mite. Forse un po’ afoso in estate, ma non certo il caldo della California o della Florida. Camminare a piedi nudi sulle spiagge della Florida in estate è come camminare sui carboni ardenti: da sconsigliare. Lo so per esperienza. Ora Louis non c’è più, ma la cena con la sua famiglia una cosa da non perdere anche se vengo qui per pochi giorni. La moglie è poi originaria di Sant’Elia a Pianisi, un paesino del Molise a mezzora di macchina da Foggia, prendendo il fondovalle si arriva in un attimo. Il paese è famoso anche perché c’è stato per un certo tempo padre Pio. Oggi segue il destino dell’estinzione, come tutti i paesi di quel crinale, tagliati fuori dalla fondovalle del Fortore, il fiume che alimenta la diga di Occhito. Per anni Louis parlava solo inglese, ma conosceva bene il veneto delle sue origini, di suo padre. Quando si accorse che lo capivo, visti i miei trascorsi in quel di Ponte di Piave (provincia di Treviso), quasi gli lucchicavano gli occhi e da allora sono diventato suo amico e amico di famiglia. In lui ammiravo con venerazione l’emigrante italiano, selfmade, come dicono da queste parti, che dal nulla si è fatto una posizione. Lavorava i suoi terreni e anche quelli dei vicini, faceva da mezzadro, e giorno dopo giorno ha messo su un’azienda tra le prime di Vineland capace di esportare ortaggi in tutta l’America. Abbiamo mangiato italiano, ottimi i ravioli con la ricotta, proprio come si fanno da noi e così anche l’arrosto e il dolce, tutto preprato dalla moglie Angelina e Lisa sua figlia. Curioso: come il padre anche il figlio, Louis jn distribuisce il vinoprendendo il bottiglione da sotto il tavolo, per non berne troppo e perché riservato solo agli adulti. Abbiamo passato la serata tra i mille ricordi comuni, miei, di mia sorella Enza venuta qua alcuni anni fa, di Louis quando in ospedale Mario Salvatore lo rallegrò con i suoi canti napoletani.In macchina aveva solo cassette di canti italiani, quelli della montagna, che conoscevo pure io e di qeusto lui si meravigliava e quelli napoletani, che ascoltava per tutto il tempo del tragitto. Ci siamo ricordati della vendemmia, delle uva che staccava con le proprie mani dai due filari che si era riservato per il vino fatto in casa, e che conservava in grandi otri nella cantina sotto casa. Mi raccontava di suo padre e di quando lui gli faceva da interprete, visto che non ha mai saputo né voluto imparare l’inglese. Erano fatti così i montanari trentini, tagliati con l’ascia, passati dal regno asburgico a quello sabaudo, ma giusto in tempo per emigrare visto che il nylon aveva ormai sostituto la seta un po’ dappertutto. E addio allevamento dei bachi da sete con tutta la cultura che la sosteneva. E stava ore a raccontarmi quello che suo padre aveva raccontato a lui e che io sapevo corrispondere esattamente alla triste storia di quelle montagne, belle, ma alla fine poco produttive. E, come spesso succede, l’onda dei ricordi si è fatta grande questa sera. Già anche questa è l’America che ho conosciuto e apprezzato di più di tutta New York, Washington, o san Francisco messe insieme. L'America grande della povera gente, fattasi dal niente, e rimasta semplice e genuina nonostante i fiumi di soldi che i loro sodo lavoro le ha procurato. Grazie Louis, la prima visita al cimitero di st. Padre Pio è alla sua tomba. Non ci metto fiori, non faccio preghiere, faccio solo riecheggiare per qualche momento le tante belle giornate trascorse assieme a lui e alla sua famiglia e i tanti racconti che conservo come reliquie..


mercoledì 8 aprile 

Questa mattina mi sono recato a Fildelfia per incontrare Annamaria Rufino. La storia da raccontare è lunga. Ma è stata la prima famiglia che mi ha accolto in America nell’ormai lontanissimo 1999 per una visita, poi per le vacanze un po' tristi del settembre 2001 e infine nel 2002, per un corso d’Inglese alla Penn University, una delle più prestigiose al mondo. Si facevano corsi di lingua inglese per i giovani, provenienti da ogni parte della terra, per poi iscriversi all'università. Ogni studente pagava 3000 dollari, solo per l’iscrizione ai corsi di luglio. Altrettanti per vitto e alloggio. Eravamo più di 300 studenti. Fate un po’ voi i calcoli di quanti soldi entrano in quella università solo d’estate, a corsi ordinari chiusi. Si pagano in media 25mila dollari l'anno di tasse. Meglio non pensarci. Ogni mattino prendevo il mio bravo autobus per recarmi al campus e mi illudevo di essere diventato uno studente americano con un grande futuro. Peccato che il mio era già alle spalle da tanti anni. Sono arrivato a Cottman avenue, ripercorrendo a memoria una strada che avrò fatto non so quante volte, sempre sullo stesso ponte B. Franklin, lineare e solenne, tra Camden e Filadelfia. Stesse fabbriche in disuso, stessi agglomerati di case inguardabili, stesso traffico micidiale ma in qualche modo scorrevole (le corsie della tangenziale nord-sud di Filadelfia sono quattro da una parte e quattro dall’altra e in certe ore del giorno il traffico è paralizzato nonostante tutto). E di queste tangenziali ce ne sono almeno quattro o cinque che io sappia. Arrivo a casa di Annamaria, deposito il pacco di 3 chili di scaldatelli e taralli (anche qui si vendono in qualche negozio all’italiana, ma non sono buoni come i nostri, certo). Alla dogana mi avevano chiesto: "Cibo italiano?", "no", "wine?", "Why? It's so good the american wine". Non era vero ovviamente. Potevo mai dire che avevo tre chili di taralli, prima me li sequestravano e poi se li mangiavano loro. Non penso che andrò all'inferno per queste bugie di scusa, a fin di bene come dicevano le vecchiette in confessionale. Dopo un caffè con Lola, un chiwawa che non smette di saltellare come un grillo, e i convenevoli ce ne andiamo a un ristorante italiano: “Mia Napoli”. Nessuno parla italiano in questo ristorante e la proprietaria è di origini siciliane molto alla lontana. Mia Napoli, non capisco perché. Perfino il cameriere è un emigrato albanese. Il mangiare è buono, almeno il cuoco deve essere italiano. In passato ci siamo venuti altre volte e non ci siamo mai pentiti. Campeggia nella sala una vespa rossa, che da queste parti è un mito. Ordino linguine alle vongole (quelle piccole nostrane e non quelle mostruose americane) e Annamaria rigatoni alla matriciana: dignitosi. Un buon bicchiere di Falangina, un tiramisu, un amaretto di Saronno (niente grappa) e il pranzo è servito. Una chiacchierata sull’onda dei ricordi. Di Cesare Rufino, il marito, morto di leucemia tre anni fa, proprio durante una vacanza in Italia; della madre Angela anche lei deceduta due mesi dopo e tanti altri guai di famiglia. Ma quello che mi colpisce di più è lo spirito, che considero tipico di queste parti, “non abbattersi mai e trovare sempre un motivo per andare avanti”. Non era partita dall’America la crisi del ’29? Eppure i primi a rialzarsi furono proprio gli americani. E lo stesso è per la crisi di qualche anno fa. Qui i supermercati si sono di nuovo riempiti di merce e di gente (e noi stiamo a piagnucolare). Da noi facciamo festa se il pil aumenta di qualche + 0,1. Siamo fatti diversamente. Non c’è niente da fare. Un giro di telefonate tra i parenti: Michael, dottore laureatosi alla cattolica di Roma e ora in una clinica di Indianapolis, tre stati più in là della Pennsylvania, Zia Ninetta che sta in ospedale con il femore rotto, Zia Rosaria in Italia, nella mia ex parrocchia di san Giuseppe Artigiano, Angela la figlia, che ha voluto sposarsi in Italia, che ama da sempre, e oggi lavora da casa con il computer sempre acceso. Amedeo, che infermiere anestesista, non è potuto venire al telefono perché in sala operatoria. Insomma è stato come un piacevole ritrovarsi. E i ricordi sono davvero tanti come quello del padre che con mano ferma a quasi novantanni taglia il tacchino del thanks giving, o della madre Lina, con il suo inglese quasi perfetto, imparato prima da figli e sulla strada che a scuola. Insomma avevo trovato una famiglia in Filadelfia e l’ho ritrovata ancora. Ridotta ma con lo spirito di sempre. “Sappi, mi ha detto Annamaria, che se hai bisogno di un soggiorno qui in America, casa mia è sempre a tua disposizione”. Non poteva giungermi un invito più gradito e accattivante di questo. Ritorno a Vineland giusto in tempo che il parroco mi invita a mangiare (ancora!) con un prete americano di origine messinese, che parla un perfetto italiano, ed è un religioso pallottino (una delle tante, tantissime congregazioni italiane, che forse ha più sacerdoti all’estero che in Italia). Anche qui un altro ristorante italiano. Polipo per antipasto, Pappardelle al ragù, una bottiglia d'acqua minerale, niente meno la Gaudinello del Vulture-laghi di Monticchio, due bicchieri di vino, per convincere lo stomaco ad accettare questa tortura di due pranzi a distanza di quattro ore. Una bella chiacchierata tra preti, su una chiesa che fa fatica a riprendersi anche da queste parti. Di una burocrazia diventata arma letale nelle mani di vescovi incapaci del più tradizionale buon senso e discrezione. Un incrocio similare con i miei racconti della decadente diocesi nella quale mi tocca pur vivere. Non ne usciamo più allegri, ma almeno con un condiviso umore che qualcosa pur si deve fare per non farsi cascare le braccia. Torno finalmente a casa. Prendo due pepsi e mi chiudo in camera a chiacchierare con un prete siciliano, che proprio non riesce a dormire (e in Italia sono quale le due del mattino: stress da feste pasquali). Ora i preti siciliani sono tre: Peter è di Santa Ninfa (i genitori), il pallottino è di Messina (originario), l’amico di skype di Agrigento. Se non riesco di nuovo a fare il salto in America, vuoi vedere che il Signore mi sta indicando la Sicilia come soluzione intermedia? Semmai ci dirotto il prossimo aereo.



9 e 10 aprile

Siamo alle battute finali. Ieri un cenone da non dormire tutta la notte. Questa notte una notte d'inferno non solo per la lenta digestione, ma anche per i fulimini, tuoni, saette, pioggia battente, che proprio non ne vole sapere di smettere. Ho dormito poco e male. Io sono triste di mio, ma il cielo ci ha messo tutto il suo, ho detto questa mattina alla messa, l'ultima celebrata in st. Mary. Un ultimo saluto ai Sopranzetti, sempre ospitali e generosi, e poi qui in camera in canottiera e mutande, visto che mi sono già fatto un primo bagno di sudore a chiudere questi straordinari 15 giorni qui a Vineland Nj. Sono passati in fretta, com sempre accade. Con tante domande senza risposta: cosa farò da grande? Per ora torno a Foggia, Vedremo come si mettono le cose. Il Pelvi dal canto suo non mi dà soddisfazioni verbali, è di poche parole, però onore al merito in 3 mesi ha riparato, andando di persona nei tribunali e all'ispettorato del lavoro, quanto gli imbecilli precedenti erano riusti a fare di danno per la diocesi. Tanto di cappello. Forse ci voleva per Foggia un vescovo detrminato e deciso della sua tempra. Non so quanto andremo daccordo, ma se il buon giorno si vede dal mattino, penso che sarà un buon giorno per davvero. IN ogni caso diamogli tempo. Per quanto mi riguarda rimane chiaro che la collaborazione che avevo dato alla diocesi per la nascita della scuola paritaria e dells scuola di teologia, visto come sono andate a finire, se la possono proprio scordare. Ho ben altro per la testa. La fondazione don Antonio Silvestri al primo posto. Poi tutte le iniziative connesse. E infine, asso nella manica, why not be back to here, maybe for good. Vedremo. Un ringraziamento speciali da questi post va a P. Peter, sempre genroso, intelliggente, disponibile. Un secondo a mons. Marino di Brooklyn, la mia sempre aperta porta per l'America. Un terzo alle tante famiglie alle quali mi sono legato da tempo, Tolotti, Sopranzetti, Santangelo, Saglimbeni, Rufino e tante che da sole riemperibbero l'intero post. Ho promesso che verrò con il papa a settembre, il 20 c'è il tradizinale festival di Padre Pio e il 28 il papa va a Filadelfia. Quindi la storia non è finita. Anzi è proprio una storia infinita.