25 marzo - 10 aprile 2015
American Trip
Venerdì 27 marzo
Con questo primo articolo vi faccio un reportage
giornaliero sugli 11 giorni, gli ultimi penso, di visita a Vineland NJ. Gli
ultimi, perché, fr. Peter, il parroco della parrocchia che mi ospita, a giugno
va in pensione. Addio St. Padre Pio parish, spero non scompaia la devozione a
padre Pio da queste parti, addio ospitalità (anche se ho mezza parrocchia come
amici), addio Vineland NJ, cittadina anonima, ma ottimo punto sulla mia cartina
americana, pieno di persone che ho conosciuto, amato, e ricordato volentieri.
Con questi pensieri il 27 aprile ho preso un volo, Roma-Filadelfia: durata
9.30. Il pensiero era a Barcellona-Dusserdolf, ma con tutti gli aerei,
centinaia di migliaia, che volano sui cieli del mondo, proprio il mio doveva
essere il prossimo? No! Ma incrociamo lo stesso le dita. Il viaggio sul mio
biglietto è targato American Airlines, ma viaggio (dirottato?) su US Airwais,
che fa la stessa rotta. Al check-in primo colpo al cuore, la distratta,
distrattissima signorina, dietro il bancone, mi perde la Green Card, la carta
verde che mi dà libero accesso agli USA e per tutto il tempo che voglio. “No,
lei non me l’ha mai data”. “Guardi che stava dentro il passaporto”. Stupido io
che ce l’avevo messo, per accelerare i tempi. Cerca sul tavolo, su quello
vicino: “guardi che non me l’ha data”. Incomincio a sudare freddo. “Guardi che
vado in America proprio per rinnovarla”. “Ah ecco, l’ho trovata, era caduta per
terra”. L’avrei uccisa. Intanto mi ero fatto la prima sudata, tanto per
cominciare. All’aeroporto ero arrivato un po’ in ritardo: alzata alle 6 del
mattino, pulizie, chiusura bagagli, partenza per Fiumicino. L’onnipresente
angelo, Pietro con la pazienza di sempre, mi accompagna all’aeroporto. “Oh c’è
un distributore del metano. Ci fermiamo che ne approfitto pe fare
rifornimento”. “Certo, basta che facciamo in fretta”. Passano i soliti 15
minuti per ogni sosta ad ogni autogrill delle nostre autostrade italiane. Ma
arrivo lo stesso alle 8,30 (almeno 3 ore prima dicono i depliant). Sono solo
due ore, visto che l’areo parte alle 10,30. Non ci dovrebbero essere problemi.
Ai cancelli T3 dell’aeroporto, dedicato agli aerei che vanno in Israele e in
America, un carabiniere, in tenuta anti sommossa: giubotto antiproiettile,
mitragliatore in mano, ci ferma deciso all’ingresso dei cancelli e ci chiede
cosa ci stiamo a fare. Rispondo “per prendere l’aereo per gli Stati Uniti”.
“Compagnia?”. Un momento di indecisione. Un’eternità a suoi occhi. “American
Airlanes”, rispondo. Ci lascia passare. A volte mi sconcerta la facilità con
cui si superano certe barriere. Entro nell’androne della T3 e al box con
relative file dell’AA, non c’è anima viva. Troppo presto? Troppo tardi? Chiedo
a uno della US Airwais: “Noi facciamo servizio anche per l’AA”, è stata la
risposta confortante. Ma la fila è lunga ugualmente. E i minuti passano. Altra
novità. Ci danno buste trasparenti per mettere tutto il materiale elettronico
che si porta in borsa. A me ne servono almeno tre. Ulteriore novità. Si vede
che non viaggio dallo scorso anno: quei maledetti box elettronici per il
controllo del passaporto e del biglietto. Digito nome e numero del biglietto:
“ci scusiamo ma lei non risulta tra i passeggeri”. Questa poi. Chiamo un gentilissima
hostess che fa il servizio per me. I miei pensieri sono altrove. Non ho ancora
iniziato e già i contrattempi si sprecano e il sudore aumenta. Meno male che in
valigia ho un cambio di canottiera (e mutande) e un seconda camicia clericale:
non si sa mai, e un quantità mostruosa di fazzoletti. La prossima volta mi
porto qualche asciugamano piccolo. Finalmente come Dio vuole arrivo al Gate per
i voli internazionali. Manca un’ora. Mi guardo un po’ in giro. Soliti negozi.
Solita mercanzia. Visto che ci sono cambio 50 euro in dollari. Altra sorpresa.
Mi danno 40 dollari in cambio….diavolo tutto il resto va in competenze e cambi
vari. Finita la pacchia dell’euro a uno e trenta cinque rispetto al dollaro.
Qua siamo fifty fifty e il meno lo lasci al cambiavalute. Secondo me al tempio
di Gerusalemme ai tempi di Gesù ci speculavano di meno. E si sono prese lo
stesso tante mazzate. Ma non posso farci nulla. Alle 10 in punto sono
sull’aereo, e con la mia fortuna di sempre, mi trovo sull’ala con il motore che
mi ronza nelle orecchie e vicino al finestrino. Per cambiare di posto al
check-in, quello automatico che manco sapeva della mia partenza, mi hanno
chiesto 90 euro se volevo cambiare di posto. Ho lasciato perdere. Ma mi è parso
un furto senza ritegno. Alle 11 in punto l’aereo comincia a rullare e a
mettersi sulla pista per il decollo. Via si parte. Sì, ma mi aspettano 9,30 di
volo. E mo’ che faccio per tutto questo tempo. Gli anni scorsi mi portavo libri
da leggere e da scrivere. Quest’anno, “viaggio per un addio”, niente di niente.
Per fortuna mi sono portato un vecchio ipod, vecchio di almeno 10 anni se non
di più, con tutte le canzoni della mia vita. Miracolo: ancora funzionante
(miracolo apple). Alla fine del viaggio le orecchie mi facevano male ma sono
sopravvissuto. L’ultimo ricordo dall’Italia, prima di prendere la discesa verso
l’aeroporto, B. Franklin di Philadelphia: una pizzella calda e un panino con la
Nutella. Si vede che siamo partiti dall’Italia. Controllerò al ritorno.
Puntuale alle 15,35 l’areo atterra. Le solite formalità alla dogana: Italiano?
Food? Wine?”. “No, no, no”, e via verso l’uscita. L’ultimo controllo dove si
lascia all’impiegato il foglio bianco blu, con le domande più stupide del
mondo: porta armi, droga, dollari con sé? Ne fa un uso quotidiano? O cose del
genere e si aprono le porte automatiche dell’uscita finale. Aspetto David, il
solito giovanottone, factotum della parrocchia, e mi ritrovo una delle “suore
laiche” che prestano servizio per il catechismo. Abbracci e baci e via per l’autostrada.
Sta “big one” (anziana e grassoccia), accompagnata da una consorella ma molto
“skinny” (anziana e magra da far paura) e un cane meticcio, che nel frattempo
ha sparso tutti i suoi lunghi peli sul sedile davanti dove mi siedo,
all’uscita, un po’ frettolosa, un po’ distratta, sembra voler andar dritto
contro il parapetto del cavalcavia. “Don’t worry. I decide so”. Questo “don’t
worry”, non mi rincuora affatto. Aveva perso il biglietto d’ingresso e prima
s’era messo a cercarlo mentre guidava. Sotto, sopra, in borsa. E poi ha deciso
di fermarsi, perché non lo trovava, ma a due centimetri dal parapetto. “Ho
deciso così. Nessuna paura”. Sarà. Ma la cosa non mi convinceva. Lo trova e via
di nuovo con il piede pesante sull’acceleratore. Guardare le macchine e i
segnali, sembra un optional. Sbaglia a mettere prima il foglietto d’ingresso e
poi la carta di credito e per qualche minuto non ci muoviamo di là, e la fila
aumenta. Grazie all’inserviente si può aprire la sbarra, recuperare la carta, e
partire verso la superstrada 55 per Vineland. La big-one corre come una pazza.
E il traffico è quello dell’ora di punta, alle cinque del pomeriggio, e quello
snodo fuori dell’autostrada è il peggiore di tutta Filadelfia. Come Dio vuole
alle 6 arriviamo a Vineland. Ringrazio frettolosamente la big-one e la skinny e
saluto parroco e amici presenti e via verso il bagno. Le nove e lo stress delle
prime ore in America già si facevano sentire. Pranziamo. La solita Rosa,
siciliana fa come primo un pesce impannato e poi la pasta: qui usano così.
Vino: uno schifoso Zinfedel, dolciastro da far paura, e una buona pasta al sugo
con olive. Oh qualcosa di buono. La pasta è Barilla: “dove c’è Barilla c’è
casa”. A parte la pubblicità, la cosa funziona. Si erano fatte le 7 del
pomeriggio. Pensavo già di andare nella mia stanza a disfare le valigie.
“Andiamo al teatro che c’è la rappresentazione della pasqua da parte del gruppo
teatrale parrocchiale (la stessa da oramai sette anni)”. Non avevo capito bene
e ho detto un sì strappato. L’avessi mai fatto. Tre ore di una cosa già vista
lo scorso anno, e registrata pure. Stessi attori. Stessa scenografia. Stesso
pubblico. Come faranno ogni anno a ripetersi in questa maniera non lo capirò
mai. Finalmente alle 9,30 il supplizio, non solo quello di Cristo, ma anche il
mio, ha termine. Ho resistito tra sbadigli fantozziani e cambio continuo di
posizione fino alla fine. Se ci facciamo un calcolo 6 + 3 fanno nove. Quindi se
a Vineland erano le 9,30 in Italia le 3,30 del mattino. Potevo ben aver diritto
a sentirmi stanco morto. Ci rimettiamo in macchina: “andiamo a prendere un
drink?”, dice il parroco. L’altro amico don Sinatra, studente alla gregoriana
di diritto, conosciuto in Italia, non fa una piega e dice subito di sì. Mi devo
accodare. Tutta la compagnia teatrale è in ristorante e ci aspetta. Vongolone e
gamberetti e un bicchierone di grappa (per giunta con il ghiaccio e le
cannucce). Volevo morire. E si sono fatte le 12 di sera. Esattamente 17 ore
dalla sveglia, 13 dalla partenza, alle quali vanno aggiunte le 6 ore del fuso
orario. Insomma 23 ore sane sane. Un’altra ora per chiudere in bellezza e fanno
24: decisamente il mio giorno più lungo, the longest day,….e non ho alcuna
intenzione di liberare l’America come loro fecero con l’Europa. Pensate sia
finita qui? Ma la storia riguarda domani, la notte e le chiamate su skype e
telefonino che i caproni di compagni hanno cominciato
Il primo giorno era finito tardi, anzi tardissimo. Il
secondo giorno è iniziato presto, anzi prestissimo. Hai voglia a
dire…."telefonate o chiamate in skype solo a partire dalle due del
pomeriggio, che in America sono le otto del mattino", puntualmente la
mattina del 26 marzo sono stato svegliato da due telefonate sul cellulare e
altrettante su skype. Ovviamente non ho risposto a nessuno, ma già il sonno era
debole, la fatica del giorno prima, mostruosa e il jet lage ancora tutto da
smaltire, l'ultima cosa da fare era alzarsi e rispondere tirando giu
"sante e madonne". Potere immaginare i miei vafffff sprecati per agli
amici importuni. “Ti abbiamo visto online e ti abbiamo chiamato”. Peccato che
in America i computer, i cellulari, gli ipad non si spengono mai. Le tariffe
sono tutte h24. Spegnere i computer o gli accessori elettronici può essere
oltre che inutile anche dannoso. Quelli vanno a contate di off/on, e dopo un
certo numero di accendi/spegni si possono anche consumare e buttare. Meno li si
spegne e meglio è. Ma vallo a far capire ai caproni di amici. “Sei online?”,
“Ti chiamo subito”, non è che prima “chiedo se ci sei, cosa fai, se hai tempo
per chattare”. No, si va direttamente alla chiamata, stessi pure dicendo la
messa: per loro online è sinonimo di disponibilità, come certe prostitute alle
piazzole della statale 17. E guai se non rispondi o non rispondi subito: “cosa
ti ho fatto?”, “ce l’hai con me?”, “perché non rispondi?”. Robe da matti. Così
un gioco rischia di diventare una paranoia. E a paranoie eravamo proprio a
digiuno di questi tempi. Poi sono partite le polemiche finto religiose per un
sabato di quaresima passato al ristorante: pranzo e cena. "Come? In
quaresima vai al ristorante a mangiare?”. Qui il ristorante è la seconda cucina
di casa. Non quella cosa solenne e impegnativa come da noi. Oggi 26 marzo,
sabato delle Palme, siamo andati due volte al ristorante. Già il ristorante:
un'arena o una stanza degli equicovi, quando arriva il momento delle
ordinazioni. Dannato inglese mai imparato fino in fondo: mi sono sbobbato un
enorme panino alla porchetta con patate fritte (french fries, dicono da quete
parte), da restarci secco. Al confronto quelli della Mac Donalds sono cibo per
per bambini di scuole materne. Rigorosamente niente vino a pranzo. Che poi qui
lo chiamano lunch e la nostra cena dinner, tanto per continuare a non capirsi.
Il locale del lunch è carino: un vecchio centro golf, l’unico
dell’est-Vinenald, trasformato in un modernissimo campo e annesse sale da
pranzo e da ritrovo. Rimesso a nuovo da Bob, di chiara origine italiana e molto
amico del parroco e della parrocchia. Se il mio panino alla porchetta non
scherzava, non era da meno quello alla cotoletta milanese e al porc dei miei
commensali (che però non l'hanno finito tutto come stakanovistcamente ho fatto
io). Come Dio ha voluto siamo tornati a casa. La macchina di servizio della
parrocchia è stata venduta dal parroco due mesi fa e così ho preso la sua per
andare al Mall, al centro commerciale della città. "Se fai incidente mi
paghi le spese mi ha ammonito". "Mi sono salvato da quello
dell'aereo, ho pensato tra me e me, ora vengo giusto a Vineland per farne uno.
Non sia mai". Al Mall per necessita:Qualche maglietta (9 euro l’una), due
paia di pantaloni, e due camice nere, che solo noi preti oltre ai fascisti
riusciamo ancora a portare, e le medicine da banco (non il viagra, per quello
anche in America ci vuole la ricetta del medico), che qua sono davvero tante e
variegate, dalle pomate alle cardioaspirine, alle pillole per prendere sonno.
Insomma il primo centone se ne è volato così, con tre pacchetti di roba. Tanto
non ho la macchina non penso nemmeno che un giro ad Atlantic city, mi
rifonderebbe dei soldi spesi in questa prima giornata. Alle 5 pm (che sta per
pomeriggio) c’era la messa del sabato sera, ma ho preferito stare vicino al
letto, visto che ero ancora intontito, e un vangelo della passione del giorno
delle Palme mi avrebbe devastato per il resto della settimana santa: meglio
affrontarlo domani a mente lucida e corpo risposato. Un salto in chiesa l'ho
fatto lo stesso almeno per salutare gli amici. Qui in effetti ci si vede solo
in chiesa e al mall. Altri posti di ritrovo non li conosco o non li ho mia frequentati.
La chiesa era piena come nelle grandi occasioni. Invece dei nostri rami d’ulivo
(da queste parti non ne ho visto uno solo) hanno utilizzato palme vere, e di
queste ce ne sono davvero tante in giro, andando sempre più a sud verso la
Florida. Alle 7 di sera la giornata poteva dichiararsi conclusa. Ma così non è
stato. La mazzata finale doveva ancora venire: la cena. Il ristorante del golf
era pieno e abbiamo ripiegato in un altro, Fattolari (di chiara tradizione
italiana). Maledetto inglese mai imparato fino in fondo. Avevo chiesto
un’insalata da condire da me. Mi hanno portato un insalata “cesar” come la
chiama qui, quella di lattuga, con tanto di formaggio (quello non manca mai) e
una cosa biancastra che chiamano dressing (vestito). Mangiabile quanto si vuole
ma l’insalata la voglio con tanto olio, un po’ di aceto balsamico e il sale
quanto basta, e soprattutto meglio se è mista. La prossima volta mi dovrò
spiegare meglio. Chiedo per l’unico piatto (un piattone, o big dish) degli
spaghetti alla carbonara. Pensavo ai nostri spaghetti Barilla o qualcosa più
vicino alle fettuccine. Mi portano un piattone di spaghettini alla carbonara,
che nello strapazzo dell’uvo con prosciutto si erano tutti rotti e
attorcigliati: un'altra sbobba. Dio che spettacolo. Alla fine del pranzo mi
accorgo che sono l’unico che con un coraggio tutto seminaristico (ci facevano
mangiare qualsiasi cosa e noi la mangiavamo fino in fondo con l'incoscienza
della giovane età) ha finito il piatto. Oltre a Peter c’è una famiglia che canta
tutti i sabati in parrocchia. Cantante country il padre, cantante lirica la
madre, e i figli non da meno: promesse della canzone americana. Sono due
meravigliosi gemelli, incontrati piccolini alla fine della scuola elementare,
ora sono al penultimo anno dell’high school. Già si parlava del futuro
universitario. La sorpresa è che la bambina, Kell, 17 anni compiuti ha vinto il
concorso di bellezza locale ed è stata incoronata come Miss Vineland. Chi
l’avrebbe detto che abbiamo avuto l’onore di incontrare, quando ancora era una
sconosciuta jersey girl, la futura miss America? Spero solo che resti nella
semplicità nella quale è cresciuta, grazie alla madre e al padre, in questi
anni. Sto qui a scrivere dopo la cena, con il piattone di carbonare che non ne
vuol saper di scendere dallo stomaco alla pancia e fa su e giù manco fosse su
una giostra. Un ultimo dettaglio: padre, madre, figlio, figlia, e il
sottoscritto, Peter è ancora tradizionale in questo, abbiamo parlato tutta la
sera, chattato, inviato messaggi, visto video della manifestazione di miss
Vineland: insomma anche qui in America il vituperato sistema di chatta e mangia
ha devastato anche le famiglie più unite. Che sarà mai: un occhio al
telefonino, uno all’interlocutore, e la mano sulla tastiere (tanto le mani non
parlano). Anche il vino ha fatto la sua parte: un Morellino di Scansano del
2005. Prezzo in Italia 40 euro, prezzo in America 19. Quando capirò chi è quel
babbeo che mette i prezzi ai vini importati dall’Italia sarà sempre troppo
tardi. Comunque il vino era delizioso. Forse troppo poco per far digerire la
carbonara, ma buono di suo e pure gustoso. Alla fine della cena eravamo tutti
un po’ più allegri. Che sia colpa del vino? Ci siamo salutati ognuno con il suo
dogybag tra le mani. Gli avanzi qui li chiamo “cibo per i nostri cani”, invece
l’ho visto con i miei occhi il giorno dopo sta sulle tavole dei nostri
commensali. E per i cani? Bastano i croccantini. Quanti vizi.
Domenica 29 marzo
E’ domenica delle palme. Oggi solo un ragazzo mi ha
telefonato per augurarmi “buona palma”, ma erano per fortuna le 6,30. Poi la messa
delle 9,00. Prima di uscire mi fermo ad osservare la foto del vescovo di
Candem: mons.Williams Denis. Giovane, bello, riso accattivamente....ma ha i
polsini alla camicia e per giunta dorati. Ne ho abbastanza. Certi dettagli
parlano più di altri. Entro in chiesa: la folla domenicale, e tutti con le
palme (quelle vere) in mano. Un anziano prete mons. Clark, di chiari origini
irish, corre per tutta la messa, come avesse paura di perdere l’areo. Il
vangelo è quello di Marco letto a più voci come da noi. La predica è breve,
concisa e compendiosa, celere come tutta la celebrazione. Fuori c’è un sole che
spacca le pietre, ma la temperatura è polare: un freddo tagliente che minaccia
neve, ma per ora niente, visto che nuvole all’orizzonte neanche l’ombra. Mi ritiro
nella mia stanza, ignaro di quanto la parrocchia aveva organizzato per il “Palm
Sunday: annual macaroni dinner”. Aspetto che il parroco mi chiami ma niente di
niente. Alla fine più per fame mi metto alla sua ricerca. Ma in canonica non
c’è nessuno. Di solito, visto la raccolta domenicale, ci vogliono un paio d’ore
per contare tutti i soldi che la gente generosamente dà.Tutti spariti,non i
soldi, gli addetti alla conta. Mi porto fuori della canonica e vedo molte
macchine davanti al salone delle feste della parrocchia. Capisco tutto: è là
che si mangia. Entro. Tanti abbracci e baci dai parrocchiani che nonostante
ormai quasi dieci anni dalla mia permanenza da queste parti mostrano di avere
un caro ricordo di me, ricambiato cordialmente. E poi via a buttarsi su penne
al sugo, polpette, e salsicce. Quanto basta per ammazzare la fame. La gente è
quella delle grandi occasioni. Un cantante con la sua band non fa che suonare
musiche italiane e siciliane. Al richiamo: “ma quanti sono gli italiani?”, la
maggioranza. “E quanti i siciliani?”, più della metà. E lui canta e gli altri
mangiano a volontà. Che comunità unita. Che piacere stare con loro. Faceva
bella mostra di sé Kell, la miss Vineland 2015. Foto ricordo con un pupazzone e
tanti bambini attorno. Non mi sono sottratto al rito. Vuoi vedere che il
prossimo anno diventa miss America? Potrò dire: “io quella la conosco, ci ho
cenato insieme. Ci ho pure fatto le foto”. Vuoi mettere. Un rapido saluto alle
famiglie tra i tavoli e ai cuochi, quasi tutti d’origine italiana, e tutti
volunteers come dicono da queste parti: gratis e con passione. Alla fine dopo
l’immancabile dolce finale, ma senza frutta ho tagliato la corda. Un buon
sigaro toscanello alla grappa, un bicchiere di cherry e la giornata si può dire
chiusa. E’ sempre questa la storia. Dopo il momento religioso. Dopo il pranzo
comunitario. Ognuno se ne torna a casa, e là piomba il silenzio più pieno.
Peter, il parroco, se ne è scappato a casa sua. Dicono che non ha neanche
mangiato. E’ un tipo emotivo e sa bene che queste feste saranno le ultime per
lui che a giugno dovrà lasciare la parrocchia. Occasioni come queste mi fanno
odiare un po’ la chiesa cattolica, la sua gerarchia e le sue leggi. Si è creato
un piccolo paradiso qui a st. Padre Pio Parish, e lo si è creato a gran fatica
e nel tempo. Prima la gente di queste parti stava cambiando religione tanto si
era disaffezionata alla parrocchia. Ha fatto un gran lavoro Peter e ora per una
legge cretina quanto basta, dopo nove anni, per lui dodici, deve lasciare ad altri
questo piccolo capolavoro pastorale. Certo diranno i soliti cretini: tutti
siamo utili e nessuno è indispensabile. Ma non è vero. La legge è legge,
diranno quelli ancora più scemi, e va rispettata. La legge deve esser uguale
per tutti, altrimenti che legge è. Mi domando: ma si può essere più cretini
nella chiesa di oggi? Può una legge dei nove anni, o dei settacinque anni,
tagliare storie e situazioni indistintamente come una mannaia che non guarda in
faccia a nessuno se non alla legge. Mi domando Gesù avrebbe agito in questo
modo? E’ il detto biblico, rispondono: come Dio fa piovere sui buoni e sui
cattivi, così comunque tu hai lavorato, una legge vale più di tutte le altre
considerazioni. Addio festival P. Pio. Addio macaroni dinner. Addio comunità di
volontari disposti a tutto per Peter e la parrocchia e con il sorriso a 360
gradi. Noi non siamo una comunità, una vita, siamo una organizzazione, meglio
un impero, con pochi capi e tanti sudditi. Un funzionario sostituisce un altro.
Via Peter, non perché ha fatto male, è stanco o malato, ma perché la legge è
legge e tutti la devono rispettare: eccetto il papa, ovviamente il capo impero.
Insomma ci vedo tanto di storto e di scombinato in questa implacabile
osservanza di una legge che dà solo potere insindacabile al vescovo di turno.
Ma grazie a Dio per una specie di nemesi storica anche ai vescovi, Tamburrino
compreso, la mannaia della legge che non ammette eccezioni cala inesorabile.
Cosa costa lasciare le cose come stanno, specie quelle che oggettivamente
funzionano meglio? Cosa costa, anche ammesso la legge dei nove anni, rinnovare
per altri nove lo stesso incarico e per altri nove ancora? Chi è quel cretino
che pensa che tutti siamo utili e nessuno è indispensabile? In teoria è
bellissimo nella realtà a volte è un disastro. Nelle comunità i rapporti non
sono funzionali, interscambiabili. Le comunità sono fatte di persone. Per
amicizia gli apostoli seguirono Gesù non per dovere o per obbedienza. I
rapporti sono con le persone. E se funzionano vanno lasciate in pace. E’ la
pace la fonte della vita del cristianesimo, non l’organizzazione idiota,
strumentale e funzionale, quando semplicemente inutile. Ma forse parlo di una
chiesa del futuro, quella che avrà smaltito l’ubriacatura della legge sopra
tutte le cose. Peccato. Il prossimo anno qui sarà tutta un’altra aria. Contento
il diritto canonico che è stato rispettato. Contento il vescovo che l'ha
applicata senza fantasia. Non so quanto sarà contenta la comunità: anche loro
obbedienti di turno. Non so quanto si avvantaggerà il cristianesimo da queste
parti. E forse finiranno pure i miei tour americani. Il prossimo anno mi scade
pure la carta verde. Che sia questo che in fondo in fondo mi rode di più:
essere condannato a restare per sempre a Foggia? Ma non ci sono altri cieli e
altri mondi nel nostro universo?
Lunedì 30 marzo
Oggi giornata tranquilla. Ho ripreso a svegliarmi alle
6 del mattino, come in Italia, anche perché qui si va a letto alle 10 con le
galline, in un silenzio di campagna davvero assordante, nemmeno un cane o un
coyote che ulula nei boschi. Anche le cornacchie che di giorno sorvolano i
campi se ne stanno tranquille da qualche parte. Uno, a volte, vorrebbe sentire
anche la frenata o la corsa di una macchina, il suono di un clacson, la musica
di un’autoradio, lo schiamazzo di ragazzi che ti passano sottocasa, la
televisione ad alto volume del vicino, lo sbattere della porta dell’ascensore:
qui niente di niente. Tutto tace. Neppure l’ommmm del muovere delle stelle,
così caro ai monaci buddisti. Che si fa di sera a Vineland? Tappati in casa a
vedere la tv. Di per sé in questo paese, che occupa l’area di 60 km, il più
grande per estensione di tutto il New Jersey, oltre alle chiese e al mall, con
cinema multisala annesso, davvero la sera non sai cosa fare se non stare
tappati in casa. Inoltre è pasqua e in America esistono solo due feste, capaci
di tenere gli americani ancorati alla casa e alla famiglia, e sono Natale e
Pasqua. E solo il giorno di natale e pasqua: non santo Stefano né pasquetta. A
scuola e al lavoro si torna il giorno successivo. Oggi dunque giornata normale
ordinaria in parrocchia. E che si fa in una giornata normale? Niente, si
aspetta che arrivi il lunch, a mezzogiorno: oggi pasta (perché ci sono io),
cotolette alla milanese, insalata e un bicchiere di vino (sempre perché ci sono
io). La cuoca è italiana, Rosa, qui da quasi dieci anni. Pasta e vino sono in
onore dell’ospite, per agevolargli quel processo di adeguamento ai costumi
locali (capaci di bere il tè durante il pranzo) che altrimenti sarebbe
traumatico. Quello che proprio non riesco a superare è il mangiare tutto nello
stesso piatto e con le stesse posate e senza soluzione di continuità: pasta,
insalata, cotoletta, frutta (uva in inverno grossa come la nostra uva Italia o
uva Regina, ma forse d’origine argentina o peruviana) e dolce. Non uno alla
volta ma tutto (non so quanto allegramente) insieme, mescolando sapori, colori
e odori. E per il ripasso, di nuovo pasta, insalata ecc, tutto forzatamente
assieme nello stesso piatto. Non faccio più resistenza a queste barbariche
abitudini (mi meraviglio che non mangiano con le mani, ma forse nel frattempo
si saranno evoluti). Ci ho rinunciato da tempo, anche se loro mi guardano
sempre come un extraterrestre. In fondo contenti loro contenti tutti. Questa
volta non ho chiesto un altro piatto o nuove posate, ma ho messo in fila e in
successione le portate, come si usa da noi: prima la pasta, poi la cotoletta
con la verdura, la frutta e infine il dolce, a parte su un tovagliolino di
carta. Il vino come intervallo tra le varie portate. E per chiudere un bicchierino
di amaro come nella migliore tradizione italiana. In tanti anni di permanenza e
di venuta qui a Vineland non sono riuscito a cambiare le mie abitudini, né
tanto meno a cambiare le loro: troppo autoreferenziali in tutto. Dopo il lunch,
ma anche prima, ho ripreso a studiare: l’articolo su “Religiosità naturale (o
popolare), liturgia cristiana e servizio di carità”, imbastito in Italia, ha
bisogno di qualche approfondimento e due settimane di silenzio e solitudine mi
aiuteranno senz’altro nell’impresa. In queste stesse stanze ho scritto il libro
sul capitalismo americano d’ispirazione cristiana, che neanche i mei allievi si
sono mai degnati di leggere…(mah, forse sarò famoso dopo morte, chi lo sa). Qui
ho tutto il tempo che voglio. Mi sono portato dietro l’ultimo libro della
Queriniana su “Sacramtnalità, essenza e ferite del cattolicesimo” di K.H.
Menke, il solito teologo tedesco, supinamente tradotto in italiano. Le stesse
cose le diciamo qui da anni ma dette dai tedeschi è da sempre tutta un’altra
cosa. Così sono convinti a Brescia e glielo lasciamo credere. Ci mancherebbe
altro. Comunque il libro, nonostante tutto, è interessante, affronta il
rapporto tra protestanti e cattolici sul tema dei sacramenti, che nessun
ecumenismo potrà mai accordare, per buona pace di chi ci lavora da anni. Il
tema è intrigante. Quello che ci differenzia dai protestanti è proprio la
concezione dei sacramenti, per noi legati alla natura, per loro alla sola
parola, che tutto assorbe e tutto comprende (K. Barth), nonostante il rischio
di una strisciante ideologia, che neppure la religione riesce a mitigare o
scongiurare del tutto. Alcuni cattolici elitari (e diciamo pure con la puzza la
naso) considerano la devozione e la religione popolare come una degenerazione
del cristianesimo, da guardare sempre con sospetto, per quel pericolo di
superstizione e paganesimo mai veramente debellato. La tesi nuova, o antica,
basta intendersi, è che la religiosità popolare, con le sue credenze e
soprattutto con i suoi riti, è non la degenerazione del cristianesimo ma la sua
base costitutiva, sulla quale pur si regge l’intera vita cristiana. La
religione rivelata non è venuta per distruggere questa religione naturale, ma
semmai per combattere e redimere l'umanità dal peccato (non tanto dal suo paganesimo).
In questa concezione che si sta facendo sempre più strada tra i telogici
cattolici, il nemico da combattere non sono certo le forme di devozione
popolare, sempre e solo il peccato che fa male all'uomo (con la violenza o
anche solo con la negligenza) perché lontani da Dio. Nel cattolicesimo
contrariamente al protestantesimo da sempre la devozione popolare è stata
salvaguardata e ha prosperato (e forse è questo uno degli elementi del suo
successo popolare). Nel protestantesimo (e oggi anche in certi circoli elitari
del cattolicesimo) la religiosità popolare è vista con sospetto, quando non da
debellare, per salvaguardare una presunta purezza della religione vera e
rivelata. Noi cattolici abbiamo sempre combinato sacralità e teologia,
sacralità, devozione popolare e liturgia. I protestanti hanno perso per strada
la devozione popolare e se ne pentono e hanna collegato la sacramentalità solo
alla Parola rivelata e non alla vita e ai suoi ritmi naturali. Non è stato il
peccato originale a creare la devozione o la religiosità naturale. La natura è
per i cattolici “incrinata” non distrutta (tutta qui la differenza) e la
redenzione non va intesa, dice l’autore, come “ideologica” ricostruzione di una
umanità, a partire da zero. Interessante. Sono arrivato a pagina cento….ce ne
stanno ancora altre 270. Ma ho sempre due settimane a disposizione e 9 ore di
volo Filadelfia-Roma, Hai voglia ad approfondire.
Alle 3 del mattino, ora locale qui in America, arriva
questo messaggio “carissimo don Fausto credo che già tu sia a conoscenza che
stamane all'alba con un infarto è deceduto mons PELVI, ti abbraccio”. Mi ha
preso un colpo, non tanto per un affetto verso il vescovo nuovo, le cui
relazioni sono state burrascose fin dal primo incontro, ma per tutto quello che
avrebbe potuto significare per una diocesi che ancora non si riprende dai
disastrosi dieci anni di Tamburrino, ben preparati da quelli di Casale, con la
parentesi di D’Ambrosio. Cerco subito sui siti locali, ma la notizia non
esiste. Solo a questo punto mi sono reso conto che era il primo di aprile e un
buon pesce d’aprile ci stava proprio bene. Benedetto Fortunato. Bravo nel
capire cosa mi avrebbe potuto sviare e me l’ha condito ben bene lo scherzo. Ok
scherzo accettato. La giornata, quella vera, è iniziata con la messa a st.
Mary, l’altra chiesa della parrocchia st. Padre Pio, con la vicina scuola che
con i suoi 350 bambini ben sopravvive alla crisi delle scuola cattoliche che
anche in America sta facendo strage. Emozionati loro, i bambini della 4 classe,
ancora più emozionato io con il mio povero inglese, pieno di errori di
pronuncia ad ogni rigo di vangelo. Loro buoni buoni nessun sorriso sotto i
baffi, in effetti così piccoli non ce li hanno, e hanno ben poco da nascondere.
Attentissimi, ordinati. Tutti in fila per fare la loro brava comunione. Insomma
uno spettacolo tutto da vedere. Alla fine della messa ho chiesto loro scusa per
il mio inglese approssimativo e ho detto loro di prestare maggiore attenzione
alle loro professoresse che al sacerdote. Hanno sorriso, non so se per
compiacermi o per compassione. E poi li ho visti uscire ordinati come erano
entrati, in fila per uno, con un grande cartello Stop per fermare le macchine
che in quel tratto, tra la chiesa e la scuola proprio normalmente non
scherzano. Poi la giornata sembrava finita alle nove, con la messa. Invece ha
avuto un epilogo a Hegg Harbor (porto delle uova, vado a naso), una cittadina
sul mare, non a caso nata come porto...per le uova. In tutto il New Jersey, ma
in particolare nella zona di Vineland ne hanno provate di iniziative prima di
arrivare alla ciclica coltura ortofrutticola. Si vedono ancora sparsi per la
campagna, pollai fatiscenti. Per gran parte del Novecento questa era la
principale attività della zona: polli e uova, che esportavano in tutta
l’America; di qui forse il nome dato alla cittadina sul mare. Poi hanno capito
che si poteva guadagnare di più con l’agricoltura e tutti hanno cominciato a
scavare pozzi artesiani e a coltivare ortaggi, che ancora esportano in tutta
l’America, forse più con camion e cargo che via nave. Non per niente il New
Jersey ha come secondo nome quello di “Garden State”, stato giardino, e ne ha
ben diritto. Lo stato di New York, ha il secondo nome di Empire State, ci
mancherebbe altro. Qui il verde dei boschi e dei prati è davvero dominante. Ero
andato ad Hegg Harbor con David Saglimbeni (di origine itaiana, il padre
tocano, la madre francese), factotum della parrocchia per un check up del suo
trucker, furgone diremmo noi o pick up. Avere macchine normali qui in campagna
è un’eccezione. Tutti viaggiano, ne hanno bisogno o meno, cone pick up, proprio
lo stesso che i tagliagole dell’Isis utilizzano come panzer con tanto di
mitragliatrice sul retro. Ce ne erano di tutti i tipi, della General Motor e
della Chevrolet, di tutte le dimensioni e di tutti i prezzi, dai 32mila dollari
in su. Uno enorme, e forse inutile, con ruote da trattore, costava persino
72mila dollari, un piano terra del nostro centro storico. Il proprietario della
concessionaria era un certo Benett, forse irlandese, forse italiano chi sa,
semmai di origine veneta. Siamo tornati per mangiarci un lunch freddo, ma
riscaldato al micronde, e aspettare il dinner, la cena (con un tempismo da
matti). Peter da eterno indeciso mi ha fatto fare tre telefonate: vengo dai
Sopranzetti. A che ora? No non vengo più con Peter andiamo al ristorante.
Quello solito del campo da golf. Finalmente riesco a capire che le porzioni del
piatto possono anche essere più ridotte, più umane, cambia solo il prezzo
(large o small). E ordino un bel risotto ai frutti di mare. Ho sempre paura a
ordinare qualcosa che non sia fettuccine alla bolognese, o rigatoni o penne
all’arrabbiata. Mai fettuccine Alfredo, una schifezza in panna e qualcosa che
ci naviga sotto, forse pezzi di pollo o altro, di un sapore indescrivibile e
soprattutto immangiabile. Le sorprese nei ristoranti americani sono all’ordine
del giorno. Invece questa volta mi sono dovuto ricredere: un risotto allo
zafferano, saporitissimo, in salsa salmonata, con tanto di vongole giganti,
scalope (pesce un po’ insipido dell’oceano), saporitissimi shrimp (gamberetti),
e cozze. Il risultato finale è stato graditissimo con tanto di complimenti allo
chef, sia per le giuste proporzioni sia per il sapore. Me lo devo segnare. Ma
in questo ristorante di Bono, amico di Peter, si mangia sempre qualcosa di
fatto bene. Lo chef è suo figlio: un omaccione con il sorriso sempre pronto,
che invita a nozze. E ora, in canonica, sono ripiombato nel solito silenzio
assordante della mia stanza. Sono appena le 8 della sera: cher fare fino alle
11? Ho davanti la tv italiana, quella di skygo, che grazie a uno strattagemma,
funziona benissimo anche qui in America, e un bel bicchiere di rum, di quello
proprio nostrano, così buono non era neanche a Santo Domingo. Spero che mi
concili il sonno. Purtroppo per cattiva vecchia abitudine sono molto resistente
all’alcol, difficile che mi ubriaco, non per niente “odiavo” mio padre che dopo
il primo bicchierino dava sempre i numeri. Ma queste sono storie vecchie.
Domani è Giovedì santo. La chiesa sarà un turbinio di fiori, se la tradizione
verrà rispettata. Qui non si fanno i sepolcri, ma un po’ di veglia si.
Dall'Italia mi arrivano foto di mia sorella Maria con le stampelle e
leggermente dimagrita: era ora. Il peggio è passato e il meglio deve ancora
venire. Congratulation al coraggio e lei sa cosa intendo dire. Auguri di pronta
guarigione
2 aprile:
giovedì santo
Quest’anno o
con una scusa o con un’altra mi sono perso la messa crismale. A Foggia era
prevista per ieri, mercoledì, e così e stato. Anche se a vedere le facce dei
preti in un filmato postatomi da un amico, sembrava più una sfilata da museo
delle cere o da zombi, senza anima né sorriso. Qui invece addirittura per
martedì. Ma il parroco era malato. E senza parroco non si va da nessuna parte. Pazienza,
penso che il mio sacerdozio non ne risentirà più di tanto. Le promesse
sacerdotali, dei quattro preti concelebranti, sono statele rinnovate davanti al
popolo, e forse è anche più giusto così. Prima di essere sacerdoti del vescovo,
con tutti gli annessi e connessi, cortigianeria e ruffianesimo compresi, siamo
sacerdoti di Dio per il popolo cui indicare nella carità la via della salezza.
E vada pure per la gerarchia, basta che non rompa più di tanto, com’è successo
immancabilmente in tutti questi anni, 34, della mia vita sacerdotale. “Prometti
obbedienza a me e ai miei successori?” mi ha chiesto il vescovo il 1 luglio
1978. “Certo” gli ho risposto, “lo prometto”. Tutto poi sta a capire bene quale
tipo di obbedienza andava cercando, vista la non univocità della parola. Anche
Hitler chiedeva un'obbedienza, molto simile, ai suoi gerarchi nazisti. Esiste
anche l'obbedienza-fedeltà, come quella giurata militari e ministri alla nostra
repubblica. Obbeidenza è anche quell'orripilante gesuitica, "tamquam cadavera",
chi mi sa tanto di necrofilia: obbedienti come tanti zombi, senz'anima e
partecipazione (critica). L'unica obbedienza che riconosco è quella di Cristo,
fino alla morte, in missione sulla terra, per conto di un Padre amoroso, che
vuole che tutti si salvino e che nessuno perisca. Sarà che sono vissuto senza
padre, ma la semplice "obbedienza gerarchica" al superiore, senza un
fine o uno scopo, mi è sempre scivolata addosso. Quando chiedevo “perché
bisognasse fare o non fare quella determinata cosa”, cioè di essere aiutato a
capire il motivo di una scelta piuttosto che un altra, mi guardavano come
un’extraterrestre e non sempre erano capaci di rispondere. Le domande semplici
non erano il loro forte. Ma iniziamo il racconto della giornata. La sveglia oscilla
oramai dalle 5 alle 6 del mattino. Il problema è sempre quello di andare a
letto con le galline. E’ ovvio che poi il gallo ti sveglia alle prime luci
dell’alba, che da queste parti nonostante l’ora legale inizia chissà perché
sempre prima del solito. Mattinata persa, a far nulla. Ho sempre il libro del
tedesco sui sacramenti. Sono arrivato a quasi metà del libro e potrei anche
finirla qui. Ma il tema mi attizza e voglio vedere dove va a parare: i
sacramenti (l’atto magico per eccellenza della nostra religione, ma lui non lo
chiama così) è la cosa che ci distingue e ci distinguerà per sempre dai
protestanti, che per un eccesso di razionalismo e illuminismo ante litteram,
hanno bruciato ogni rapporto con la creazione e la natura, sia pure incrinata
dal peccato, per ripartire solo dalla redenzione e dalla grazia (ideologia allo
stato puro). I sacramenti, l’aspetto umano, materiale, magico, viene trascurato
in nome di una grazia, che parte direttamente da Dio attraverso lo Spirito per
raggiungere il singolo cristiano. Contenti loro contenti tutti. Il problema dei
cattolici, invece,, e qui sto aspettando la seconda parte del libro, è
l’utilizzo dei sacramenti come “aiutino” sulla via della santità. Non
l’incontro fondamentale e fondante la vita del cristiano con il Cristo, ma un
sostegno nel cammino di perfezione, del quale molti cristiani ne fanno a meno
volentieri. La tesi dell’aiutino e della comunità per i perfetti (confessarsi
prima di fare la comunione) non mi ha mai convinto neppure durante gli anni di
teologia. Immaginarsi ora. Siamo così arrivati al pranzo. Prima di pranzo
ancora spese a Shop Rite, un supermercato alimentare con farmacia annessa. Qui
è tutto da banco. Grazie alla molecola, la lidocaine, rintracciata in internet
sono riuscito a recuperare una crema magica, un anestetico della pelle
adoperato per i tatuaggi, per calmare un fastidioso itch (prurito) all’orecchio
che dopo 9 ore di auricolare e di musica a tutto volume, ha pensato bene di
irritarsi e farmi impazzire. Miracolo con “apercreme lidocaine, mumbs away
pain” e il gioco è fatto. Solo che dura qualche ora, e poi tutto ritorna come
prima. Spero di non dover ricorrere agli antibiotici. Oggi è giovedì santo e la
messa in coena domini è fissata per le 7 del pomeriggio. Questa mattina un funerale,
così per aspettare il parroco abbiamo mangiato all’una, il lunch. Poi per non
stare troppo a ridosso della celebrazione, abbiamo fatto cena alle 4,30 del
pomeriggio. Insomma paese che vai e abitudini che trovi. Sarà ma a me sia il
lunch che il dinner mi stanno ancora sullo stomaco. Di dormire dopo il
pranzo-cena neanche l’ombra. Mi sono messo sul letto, come al solito dopo
pranzo (il dinner) ma un altro poco diventavo un salamino con coperte e
lenzuola per tutte le volte che mi sono girato e rigirato nel letto. Il
pranzo-dinner, poi, è stato un vero disastro. Dopo l’esperienza dell’altra
volta del risotto ai frutti di mare, ho voluto cambiare. L’avessi mai fatto.
Bucatini alla fra diavolo. Ho pensato: saranno come le penne all’arrabbiata,
forse un po’ più piccanti. Non sono riuscito ad andare oltre la terza o quarta
forchettata. Ho dovuto smettere. Avrò bevuto due o tre bicchieri d’acqua, il
vino era finito da tempo. Cercavo un estintore. Mi è venuto incontro Steve
Junior, visto che anche il padre e forse anche il nonno si chiamavano Steve, a
dirmi che in inglese l’estintore si dice fire estinguisher. Sì, ma tanto non se
ne vedevano in giro per il ristorante. Ho dovuto supplire con l’acqua e
lasciare sul tavolo un piatto da 17 dollari. Che doveva essere pure buono, ma
forse per i messicani (infarcito com’era di quel peperoncino che solo loro
riescono a digerire). Ho fatto mettere il resto in un dogy bag, mangiare per
cani. Ma penso che neanche Nina e Samy mai lo mangeranno. L’ospedale per cani
non è tanto lontano. E poi se succede qualcosa ai suoi cagnolini, Pietro mi
seppellisce vivo nel giardino della parrocchia. Più fortunato Steve che si è
gustato un risotto all'anatra da far invidia, con scarpetta finale. Ho passato
così il pomeriggio a convincere lo stomaco a digerire questo piatto ma niente
da fare. Alla fine mi sono deciso e sono sceso in cucina per ritornare alla
vecchia cara cocacola, con la quale da queste parti, ci puliscono i cerchioni
delle macchine e a me non so perché le sue bollicine mi fa tanto digerire
(Vasco Rossi). Mah! Sarà forse per la caffeina o la coca utilizzata a piene
mani. Guardo dalla finestra della cucina e vedo un sacco di gente che entra in
chiesa. Diavolo si erano fatte le sette e non me ne ero accorto. Il diavolo ci
stava mettendo la coda. Quello dei bucatini. Mi sono precipitato in chiesa e
con non chalance mi sono vestito ed entrato in presbiterio che stavano
iniziando le letture della messa. Succede. Tutta colpa di fra diavolo. La
predica di Peter, il parroco, sul sacerdozio. Il coro impeccabile. La gente
delle grandi occasioni. Tutti un po’ tristi. Sanno che sarà l’ultima pasqua di
Peter con loro. E la tristezza si poteva tagliare a fette. Ieri ho cercato su
internet gli anni di mons. Denis Sullivan, vescovo di Candem e superiore di
Peter: settanta. Sono rimasto molto contento, fra cinque anni toccherà anche a
lui la stessa sorte. Intanto la messa finisce. Peter benedice panini e
bottiglie, con su scritto Holy Thursday 2015, che finita la messa vanno a ruba.
Portiamo in processione il santissimo nella cappella feriale e tutti a casa.
Domani è un altro giorno. Il Diacono George presiederà la via Crucis al grotto
(il grottino di fianco al teatro Giordano non c’entra questa volta) una
costruzione di mattoni e cemento, che, appena fuori dal cimitero, traccia una
via crucis tutta in salita e in pochi metri. Questo alle 12. Ma anche domani
sarà un altro giorno. Via col vento l’hanno scritto da queste parti
evidentemente (Alabama….un po’ più giù).
3 aprile:
Venerdì santo
Come al
solito levata alle 5,30, primi saluti online, che in Italia sono le 11,30, per
alcuni quasi ora di pranzo. La solita abbondante colazione, all’americana.
Distrattamente ho affettato, come a solito, un po’ di salame: dimenticando
digiuno e astinenza. Il parroco per poco non mi uccideva con gli occhi. “It is
holy friday”. E’ venerdì santo: niente carne. Quelle due fettine che mi sono
mangiato inavvertitamente certamente oggi mi andranno di traverso. Non ho
mangiato carne, oltre le due fettine, ma sono stato a trovare i Santangelo,
famiglia abruzzese di Roccamorice, trapiantata nella notte dei tempi qui a
Vineland. Ero andato per salutarli come ogni anno, quando vengo da queste
parti. Resoconto di acciacchi di vecchia, una valvola di maiale che sostituisce
quella umana, varie artrosi e malanni di stagione. E via con il primo caffè,
biscottini, pane tostata e marmellata. Poi il secondo caffè accompagnato dalla
stessa dose di biscotti ecc. E per chiudere un bicchierino di amaretto di
Saronno. E meno male che era venerdì santo. La carità dice il vangelo copra una
moltitudine di peccati. E quale migliore carità di quella dell’ospitalità,
sempre tanto gradita. In ogni caso un po' di penitenza l'ho fatta: a mezzo
giorno c'era la via crucis, anche a quest'ora in pieno giorno la chiesa è
gremita. Da non crederci. Dopo la via crucis il lunch, al solito ristorante del
golf. Menù semplice: formaggio impanato, tuna (tonno), e spaghetti ai
gamberetti, il tutto condito con dell’ottimo vino bianco. Questa volta il
proprietario, un grande amico del parroco e mio, ha voluto che visitatissimo le
cucine e la solita foto ricordo. Un omaccione tanto grande e tanto buono.
All’una e trenta si torna a casa. La funzione è alle 3. Giusto un velocissimo
abbandono sul letto, neanche mezzoretta, qui lo chiamano nap (sonnellino
pomeridiano) che solo i ricchi e gli sfaccendati come noi si possono
permettere, e subito in chiesa per la preghiera del venerdì santo. La chiesa
piena. Erano le tre del pomeriggio. Non oso rapportarlo alle quattro bizzoche
della mia parrocchia. “Alle tre? Ma dove si è visto mai?”. O alle cinque o
niente. E io ostinato che riproponevo cronologicamente le tre, orario
presumibile della morte del Signore, mi ritrovavo sempre con quattro bizzochelle,
alcune già morte, che mi staranno aspettando, spero, in paradiso. La funzione
procede ordinata. Della predica, in inglese, non afferro una parola, ma ci vado
dietro a senso. Dopo l'adorazione della croce ognuno accendeva un lumino
sull'altare. Non ho capito molto il senso, ma l'effetto era garantito. La
cantante Kit, divinamente canta una serie spirituals, che mi fanno ritornare
indietro alla mia giovinezza, quando semplicemente li adoravo in italiano. In
inglese sono davvero tutta un’altra cosa. A ben pensarci forse non saranno
stati dei capolavori di musica, un po’ sempliciotti nei testi e un po’
ripetitive le melodie, ma all’epoca il confronto era con “T’adoriam ostia
divina”, “inni e canti sciogliamo fedeli”, “io son cristiano dal sacro fonte”.
Penso d’averli cantati da quando sono nato fino a qualche anno dopo il
concilio, sempre gli stessi, per ogni occasioni: natale, pasqua, feste varie.
Dopo il concilio le acque si sono rotte e molti altri canti nuovi hanno preso
il sopravvento. Mi domando come ho fatto, allora, a sopravvivere. Già
sopravvivere a tutto quel periodo, seminario compreso. Finalmente un ragazzo
(sotto i trent’anni) ha deciso di farsi prete. Un ragazzo splendido, un’anima
candida, sacerdote da sempre nell’animo. Indeciso quanto basta per ritardare
l’ingresso in seminario fino a questa età. Mi ha chiesto a bruciapelo, ieri
mentre stavo litigando con il piatto di bucatini alla diavola: “tu a che età
sei entrato in seminario”. “A 10 anni”. “Nooooo! Possibile?”. “E sapessi le
lotte con mia madre che proprio non voleva un figlio prete”. Ne aveva già avuto
abbastanza con don Mario Aquilino, un sant’uomo, forse burbero e un po’
borderline (ma si era ai tempi della guerra e della POA), nonché parroco di san
Tommaso. Imperiosa e decisa mia madre: “non voglio che ti faccia prete, come
questi di Foggia”. “Sarò diverso”. “Devi passare sul mio corpo”. “Mamma,
sdraiati che ci passo”. Devo essere stato un bambino terribile. Il mio
interlocutore faceva fatica a credermi. Eppure questa è la storia della mia
vocazione. Eravamo 300 in seminario in quegli anni: forse una decina sono
diventati preti, e io tra questi. “E come hai resistito tanti anni in
seminario?”. Da 10 a 28 anni: ben 18 anni. Sono davvero tanti. “Non lo so. Si
vede che era destino che diventassi prete”. “Ti sei mai pentito?”. “Finora no,
anche se motivi ne avrei a buttare, per una chiesa sempre più ottusa e a volta
mascalzona”. Non sono sceso nei dettagli per non turbarlo. Gli ho solo detto
che uno, in effetti, è prima sacerdote di Cristo per la salvezza del mondo e
poi appartiene anche a una chiesa e a una comunità locale, semmai passando
sotto vescovi idioti, quando non cattivi, carrieristi o più semplicemente
stupidi. Ma sono pur sempre i vescovi cui devi far riferimento, nel bene e nel male.
E poi non litigavano anche gli apostoli, con Gesù presente? E’ un vizio,
diciamo congenito alla chiesta stessa. Non ho celebrato questa sera il rito
della passione. Stavo nei banchi, insieme al parroco. Certo dai banchi la
prospettiva è proprio un’altra. Ogni tanto bisognerebbe cambiare posizione. Si
capiscono i tempi, il tono della voce, le parole di più, i gesti sbadati.
Insomma è proprio un’altra prospettiva. Fino a domani sera silenzio e
meditazione. Sento che fra poco il parroco, nonostante il digiuno mi chiamerà
per il dinner: ma quanto pesce dovrò mangiare oggi? Con domani sera inizia la
Pasqua. Penseremo a ingrassare da domani in poi. Oh in finale. Marc Di
Benedetto, un ragazzo tutto fare della parrocchia, legge, forse l'unico questi
post, e se li traduce con il traduttore di google. Merita una menzione
particolare. Grazie Marc. Almeno uno li legge questi post: una frustrazione in
meno.
4 aprile: Sabato Santo
Cosa si fa in
chiesa il Sabato Santo? Niente si aspetta la veglia di Pasqua, si addobba la
chiesa, si dovrebbe stare in silenzio meditativo. E così è stato. Un salto al
mall, ai grandi magazzini, per comperare la spilla promessa al mio avvocato, e
visto che c’ero (ma non ne avevo proprio bisogno) qualche maglietta per me
estiva di quelle 4 al prezzo di una. Un affare. Spero solo che non pesi troppo
la valigia al mio ritorno. Poi a casa. Niente lunch. Non c’è tempo. Comunque un
prosciutto cotto, che qui chiamano ham, e un po’ di sottilette di formaggio, un
bicchiere di vino e il lunch è fatto. Mi sa che anche la cena, il dinner, avrà
la stessa sorte. Qua non se magna oggi. Piccolo interemezzo pima della cena: si
tosano i cani in casa. Quelli già due terribili scriccioli sono, tosati,
sembreranno agnellini....Spero non vengano portati all'offertorio in Chiesa per
la veglia pasquale. Finalmente si fa sera e alle otto in punto inizia la veglia
di pasqua. Il fuoco si accende nell’atrio della chiesa, quello interno. Troppo
vento e la paura più grande per gli americani sono le scintille. Le case sono
di legno e diventano un cerino in pochissimo tempo. Quindi dentro. Tutte le
luci spente. Gli inconvenienti di sempre. La pila scarica e non si legge una
mazza. Ma per caso avevo l’iphone in tasca (non per caso, non mi separo neanche
al bagno), e con la funzione pila a pieno giorno. E si può procedere. Si entra
con il cero pasquale e la chiesa rimane al buio delle candeline. Sempre
suggestiva questa luce che si diffonde piano piano per tutta l’assemblea. Poi
l’exultet, forma breve e per giunta in inglese, che è tutto un altro suono. E
poi le letture. Sempre al buio. Delle sette se ne leggono tre: creazione,
Abramo e Mosè. Tutte nella forma breve. Poi finalmente la luce e che luce,
l’alleluia, le campagne, insomma Cristo è finalmente risorto. La predica di
Peter, questa volta è fatta dall’altare, senza troppe emozioni, bella pacata,
molto ascoltata. Il momento toccante è stato il battesimo di un giovane (forse
accompagnato dalla fidanzata cattolica) e la cresima di un adulto. Mentre da
noi con facilità lasciano la chiesa cattolica o per il nulla o per qualcuna di
queste nuove sette, non più cristiane, ma anche solo religiose (penso a
scientology), qui molti, anzi moltissimi si convertano al cattolicesimo. Di per
sé se sono cristian (come chiamano qui tutte le sette cristiane) il battesimo
dovrebbe essere lo stesso e valido. Ma fuori dalla religione cattolica,
l’organizzazione delle chiese è talmente labile, che quasi nessuno sa
sicuramente se è stato o meno battezzato, non trovandosi mai i relativi
documenti. Poi lo spostamento da uno stato all’altro, come per noi andare a
Siponto, non fa che complicare le cose. Così si taglia la testa al toro e si fa
di nuovo (o forse per la prima volta) il battesimo. Nel battesimo dei bambini,
è la madre o la madrina che asciuga la testa del neo battezzato. Questa volta
ha fatto lui tutto da solo. Insomma, un po’ come dopo una doccia. Poi assieme
all’altro adulto ha ricevuto la cresima. La gente partecipava con molta
attenzione e con l’immancabile applauso finale. Queste conversioni qui
significano molto, evidentemente. La messa procede come al solito. Meno male
che il mio iphone non è appariscente. Ma sono riuscito a fare foto per quasi
tutta la messa. Spero di non aver scandalizzato nessuno. Domani ho intenzione
di firlmare la mia messa in inglese. O spasso o tragedia. Giuidicherete voi
domani. Alla fine della messa un altro coRo ha cantato un pezzo del recital
sulla passione già cantato venerdì scorso, ha chiuso la celebrazione. Bello.
Già postato ieri sera. Dopo la messa la cena: prosciutto cotto, sottilette di
formaggio, cheescake, vino, quello imbottigliato per il giovedì santo (niente
male per essere un vino di queste parti), e nient’altro: il venerdì santo
abbiamo decisamente mangiato meglio. Si va a dormire presto. Domani c’è la
messa all’alba, alle 6,15 del mattino e non me la voglio perdere. Le foto le ho
già postate ed è stata davvero una cosa suggestiva. Ma ne parliamo questa sera.
“Sufficit diei malitia sua”: ogni giorno il suo post, visto che non parliamo
più latino.
5 aprile:
Domenica di Pasqua
Alle cinque
del mattino sento il parroco che si alza precipitosamente dal letto e con un
gran rumore esce dalla stanza. La messa all’alba è prevista per le 6,15.
Prudentemente avevo messo la sveglia alle 5,30, per essere puntuale per il
reportage fotografico. Lo scorso anno di questi tempi ho poltrito nel letto e
mi è dispiaciuto perdermi questa celebrazione. Svegliato dal parroco anch’io mi
alzo faccio le mie cose e scendo in giardino. Già la gente stava seduta sulle
panchine e sulle sedie, di quelle messe a disposizione dalla parrocchia. Ma
molti prudentemente se le sono portate da casa. Si vede che qui ai raduni
ognuno si porta la propria seggiola, non si sa mai. La messa inizia puntuale
alle 6,15. Non capisco sul momento questo quarto d’ora dopo le sei. Intanto i
canti (un amplificatore ci voleva) e poi l’omelia, solitamente breve del
parroco (anche questa senza altoparlanti). L’offertorio, la consacrazione e
infine la comunione. E’ qui che proprio al momento della comunione sorge un
sole che se non proprio riscalda, illumina molto bene la scena. Ecco il perché
del tutto ritmato della celebrazione. Comunione, sole, luce, calore. Le cose a
volte si capiscono più con l’esperienza che con le nostre brave omelie o
catechesi. Finita la messa attorno alle 7,10 mi affretto ad entrare in chiesa.
A volte il genio. Salgo di corsa nella mia stanza e prendo la videocamera.
Voglio registrarmi quella che potrebbe essere la mia ultima messa in Vineland,
ma soprattutto detta in inglese. Metto un vaso sull’altare, piazzo la
videocamera e inizio la messa. Mi sono accorto che quando leggo, l’inglese mi
esce abbastanza chiaro e fluente. Ma quando predico, a risentirmi, non riesco a
capire io stesso quello che dico. Immaginarsi la gente che sta in chiesa. Ho
dato la colpa ai due microfoni, quello dell’altare più preciso, quell’ambone un
po’ rimbombante. O forse è proprio il mio inglese parlato che fa acqua da tutte
le parti: eppure a tavola quando chiedo pane e vino me lo passano sempre. Brava
gente che sopporta tutto e ti sorride pure. Che bravi questi americani. Più
antipatici sono per davvero i british (ma chi se ne). “Thank you father, a
beautiful preaching”. Mi dicono sempre all'uscita di chiesa. Se lo dicono loro,
c’è da crederci. La predica parlava dell’amore, della felicità dell’incontro
con il Cristo Risorto, una felicità da spargere nel mondo, a servizio
soprattutto dei poveri e bisognosi (needy). Questo il concetto, la parole forse
andavano per i fatti loro. Chiudiamo questa parantesi. Forse era meglio
lasciarmi nella mia illusione e ignoranza e non registrare nulla. Ma si dice
sempre chi è causa del suo mal pianga se stess. Arriva l’ora del pranzo. La
scusa di procurarmi una macchina, ma anche la voglia di mangiare italiano, mi
hanno subito fatto accogliere la proposta della famiglia Santangelo di andare
da loro. Non me lo sono fatto ripetere due volte. Ravioli (doppia porzione),
agnello (doppia porzione), spinaci, patate, vino homemade (fatto in casa). Solo
il genero Cleveland, un manager di banca, non capiva molto l’italiano, ma
seguiva tutto con attenzione. Vanta antenati sulla nave Mayflower, che
dall’Inghilterra portò i reietti della regina, (i famosi quaqqueri), i primi
emigranti nel nord dell’America. Con tanto di documento e medaglia al merito.
Insomma una ascendenza importante, anzi importantissima. Per un momento ho
pensato che tra Gargano Montesantangelo (mia nonna materna),
Montevergine-Mugnano del Cardinale (mio nonno materno), Terlizzi (mio nonno
paterno), Canosa (mia nonna materna), non avevo molto di che vantarmi, pugliese
con ascendenti avellinesi (insomma). Va però detto che con tali ascendenti uno
poi rischia anche di essere davvero molto intelligente. Ma lasciamo perdere.
Intorno alle 4,30 del pomeriggio cerco di entrare nell’auto datami in
concessione per questa settimana (una Subaru, niente male) e torno a casa. La
prima e la seconda pespi riescono a farmi smaltire un italianissimo pranzo
delizioso (maybe i ate too much) ma forse ho mangiato troppo. E via a letto,
sperando che il sonno smaltisca quanto voluttuosamente ingerito. Mi ero dimenticato
dell’invito per cena degli amici di sempre i Sopranzetti. Verso le 6,30 mi
alzo, violentandomi non poco, e vado da loro. Grazie a Dio, la signora Maria,
ha pensato bene a fare un brodino con un’ottima pastina fatta in casa. Un po’
di verdura. Un paio di bicchieri di vino fatto in casa e l’insalata. E per
chiudere una grappa Amarone, che solo David, il tutto fare della parrocchia,
giunto alla fine della cena, non sa come bere e gustare (ma tanto lui va avanti
a birra coors, bevuta in non so quante lattine, dopo 40 giorni di astinenza (e
ci credo: i giorni scorsi era davvero sobrio, oggi lasciamo perdere). Ho bevuto
anche il suo: perché nulla vada sprecato. Poco prima era venuto anche Peter,
rimasto a letto tutto il giorno, per le fatiche della settimana santa. E
qualche ragione pure ce l’aveva. Non è un colosso di natura, anche se grosso
come me, e poi molto emotivo. Finalmente alle 10,00 della sera siamo tutti alle
nostre case. Per tv SNJtv (south NewJersey television) trasmettono il recital
di venerdì scorso. Ho detto a Peter, ora capisco se qualcuno mostra un po’ di
invidia nei tuoi confronti. Sarà l’unica parrocchia di tutto il New Jersey a
fare una cosa del genere. Trasmessa più volte da una tv locale (il NJ è quasi
un terzo dell’Italia, come estensione), che tanto locale non è. La vedono anche
nella vicina Filadelfia. Domani destinazione New York. Devo rinnovare la mia
carta verde e incontrare mons. Di Marzio (vescovo di Brooklyn). Sarò matto.
Avrò sprecato dieci anni della mia vita per progetti imbroglioni: seminario e
scuola di teologia. Il primo finito miseramente il secondo lo seguirà a ruota
fra non molto. Quando c’è miopia nei progetti, succede questo e altro. Lo dice
anche il vangelo, stupido a non capirlo: le perle non vanno date ai porci. Ho
pure il diritto di pensare a cosa farò da grande, o il mio destino è segnato
come tanti preti zombi in giro per le nostre diocesi? Ricordo la frase di uno
che poi ha voluto farsi sacerdote nello stesso mio giorno, per non quali
diritti di precedenza (manco fossi Giacobbe e Esaù): “tu sei troppo diverso da
noi, o cambi o vedrai quanti guai passerai”. Non ho perso un minuto a
rispondergli: “ma ti sei mai fatto visitare da uno psichiatra? Guarda che sei
giovane e qualcosa si può aggiustare". Ho proseguito per la mia strada,
lasciandomi alle spalle da subito una vita da zombi omologati, che proprio non
era nel mio DNA. E sono qui questa sera, della domenica di Pasqua, a domandarmi
seriamente: “ma cosa farò da grande?”. A domani la risposta.
6 aprile lunedì:
andata e ritorno da Brooklyn.
Avevo l’appuntamento
con mons. Ronald Marino, un pezzo da novanta, della parrocchia Regina Pacis e
della diocesi di Brooklyn. Un’istituzione: incaricato degli emigranti da
sempre. Di qui la nostra conoscenza dieci anni fa. Parla benissimo l’italiano,
non solo per la sua origine, ma per averlo studiato a scuola, con molto
impegno. L'accento è quasi romano. Oltre a essere monsignore è anche Cavaliere
del Santo Sepolcro (senza cavallo, dice lui) e Cavaliere della repubblica
Italiana (al posto di Berlusconi, per capirci). Nel suo piccolo è un grande.
Oltre ad essere amato da tutto il quartiere, multietnico a maggioranza
italiana, ha ripreso le vecchie tradizioni popolari e ridato vita alla
parrochia. Ma non è grande solo per questo: ha brevettato una macchinetta per le
offerte, che pare l'uovo di Colombo. Il meccanismo è semplice. In America tutti
usano la carta di credito, anche per pagarsi una coca cola al bar. Di moneta ne
gira poco. Così chi vuole fare la sua offerta in chiesa, quando entra va ad una
di queste macchinette, striscia la sua carta di credito (minimo cinque dollari)
e ha in cambio due ricevute: una da depositare nel cestino, per la contabilità
parrocchiale e un'altra da conservare. Alla sua banca, però, hanno già segnato
l'operazione. Così si facilita anche la dichiarazione dei redditi e la
detrazione, in America possibile da sempre, delle offerte date alla chiesa. Due
piccioni con una fava. Oh ci ha messo il brevetto e lo sta vendendo a tuta
l'America. Il ricavato va alla chiesa Regina Pacis. Ora un'altro colpo di
genio: i loculi nella cripta della chiesa. Le chiese, prima dei napoleonidi,
erano anche cimiteri. Lo sono molte delle cappelle, diciamo tutte, delle
confraternite di Foggia. Almeno fino all'Ottocento. L'idea non è né lugubre, né
peregrina e ha un fondamento teologico di tutto rispetto,forse oggi smarrito.
La comunità è fatta di vivi e di defunti (in cielo) da sempre uniti, in attesa
della risurrezione finale e del ritorno del Signore. La basilica di san Pietro
sorge su uno di questi cimiteri, sorti attorno alla tomba di Pietro, al colle
Vaticano. Quindi grazie (si fa per dire) ai napoleonidi, le necropoli (le città
dei morti, che etruschi e romani ha sempre avuto) sono tornate di moda.
Cresciute a dismisura: città nelle città (Milano ha persino gli autobus al suo
interno, per i vivi ovviamente e non per i morti). La cremazione, che si sta
diffondendo rapidamente, fra non molto sarà un obbligo. Ecco allora l'idea di
mons. Marino (approvata dal Vesovo e dalla curia di Brooklyn): perché non
utilizzare le cripte delle chiese come nuovi cimiteri? Detto, fatto. Il
progetto prevede una cappella centrale e tanti loculi alle pareti per
accogliere le urne dei cristiani defunti (e cremati). Se ne prevedono, in un
aprima fase, ottocento e più, ma il numero potrebbe perfino raddoppiare.
Qualcuno dirà: come si fa a stare in chiesa sapendo che è un cimitero: che idea
lugubre. Lugubre? Ma se la nostra chiesa è nata nelle catacombe, che altro non
erano che cimiteri alle porte delle città romane. Chi parla così non conosce la
tradizione della chiesa e la suta teologia sui novissimi, e non conosce neanche
l'America. In molti stati uno può seppellire i propri morti nel campo sottocasa
o nel cimitero vicino alla chiesa, come qui a san Pio a Vineland: una cosa
bellissima da vedere e una meditazione continua sul senso della vita e della
morte, per i cristiani, e non solo, che vi passano accanto. E vi posso
assicurare che questo cimitero lo visito tutti i giorni, mentre per quello di
Foggia ho una nausea che mi cresce dentro. Grazie mons Marino, spero che anche
questa tua trovata come qualle dei poss per le offerte abbia successo e sia
seguita da altre chiese, che la possono realizzare. In ogni caso ero andato a
mons. Marino per il rinnovo della carta verde. Il prossimo anno mi scade e non
sapevo cosa fare. Mi ha detto semplicemente che qualche mese prima della
scadenza, mi avvertono loro, quelli dell'immigrazione, così posso avviare la
pratica online (pagando ovviamente) e ne avrò per altri 10 anni. Bella notizia.
Ora posso progettare con più calma cosa farò da grande. La via di fuga è
assicurata: Brooklyn o Vineland. Le due ore di tragitto fino a Brooklyn sono
state come un flash back di tutti gli anni passati in America. Le speranze, i
primi inserimenti al college di Cumberland, la zona (county), diciamo noi la
provincia, nella quale è ubicata la cittadina di Vineland. L’accorato appello a
tornare a Foggia, da parte di mons. Galantino: “torna, abbiamo bisogno di te,
per mettere su la scuola di teologia. E’ una università. Servirà alla chiesa.
C’è bisogno di gente capace”. E menate del genere. Mi sono fatto convincere non
so neanch’io perché. Sono tornato e nel frangente del ritorno la proposta di
insegnare filosofia al Seminario e poi la decisione di una scuola paritaria,
resa possibile dal ragazzino d'un tempo, ora ministro, Beppe Fioroni. Dieci
anni di lavoro sodo, spesi tra ISSR e Scuola paritaria. La fatica che a un
certo punto si fa sentire e il bisogno di passare la mano, almeno nella scuola
paritaria. Ma con gli imbecilli che ci ritroviamo nella chiesa il passamano è
sempre una tragedia. Don Tonino, lui e suo cugino: “bastiamo noi a gestire la
scuola, tutti i dipendenti, segretari, amministratori, bidelli possono andare a
casa”. Per fortuna non mi ero ancora dimesso e l’ho fatto correre per tutta
Foggia e provincia. L’anno dopo la cosa riesce meglio. Il furbetto di
Tamburrino, prima mi fa dimettere, con la prospettiva che a prendere la scuola
sarebbe stato il prof. Frasca e poi, dopo le inspiegabili sue dimissioni a una
settimana dalla nomina, arriva il pierino di turno, che in due anni riesce a
far scendere gli iscritti da 90 a 35 e la scuola si chiude. Che bestie. E poi
la volta dei dipendenti cacciati (deve essere stato il chiodo fisso del solito
cretino, che non vedeva l’ora di fare un gesto così sconsiderato, e gravido di
conseguenze legali). E poi le cause, tutte perse. E poi finalmente Pelvi che
con coraggio e determinazione ripara il danno. “Bravo Pelvi", per certe
cose ci vuole gente decisa, altrimenti le cazzate cescono a dismisura e poi
qualcuno si appella al detto che una mano lava l'altra, perché siamo sempre
tutti colpevoli, in qualche modo. E vai con questa menata del male diffuso,
manco fosse un peccato originale che amorba l'universo. Il prezzo pagato è forse
stato troppo: chiudere, con un doloroso taglio chirugico, una realtà che
avrebbe potuto dare tanto alla diocesi e al territorio, fa sempre un po' male.
Rimangono gli impuniti: cosa si fa con chi ha messo su tutto questo casino,
tanto rumore per nulla? Se la scappotteranno come sempre?”. Diciamo che da qua,
dall'America, la cosa me ne può fregar di meno. Devo confessare però che la
cosa mi secca non poco. Anche perché fra non molto toccherà alla stessa scuola
di teologia: è un cliché oramai. Un supponente baldanzoso, vuoto e incapace
quanto basta, con alle spalle un altro fallimento per una scuola simile, è
stato imposto da chi non vedeva l'ora di liberarsi di me. Parole di Panzetta
all'assembela dei docenti: "tu, poi, non sei in comunione con il vescovo
(quello stesso che mi aveva diffamato) e questo è un altro elemento a tuo
discarico (una pessima teologia imparata per corrispondenza e utile solo a far
carriere, in questo nostro barocco e decadente cristianesimo meridionale). Una
buona scusa, assieme ad altre forse più plausibili, come quella d'aver sforato
incolpevolemente di un paio d'anni, il mio mandato precedente, per nominare un
reggente, esautorando il consiglio d'Istituto e facendolo pure insegnare (tutto
legale a loro avviso). E lui il poveretto ob torto collo che non l'ha cercata
la cosa, gliel'hanno chiesta e lui è religiosamente obbediente si è accollato
questo onere: Dio, che fatica a credere a certe manovre di palude mentale. Ma
come la mettiamo che si è subito candidato per la nuova terna dei futuri
direttore? Anche questo per obbedienza e obtorto collo? E vai: a quando la
prossima chiusura, per un'altra croce nel suo curriculum honorum? Perché se
qualcuno la scuola la tiene aperta e qualche altro le fa chiudere (diamo tempo
un anno o due), una differenza ci dovrà pur essere o siamo sempre tutti uguali,
tutti utili e nessuno indispensabile (vedi la scuola paritaria in seminario)?
Una decisione qui dall'America è pur presa: mai più collaborare con la
struttura chiesa, mi dovrebbero cascare le braccia. Per carità, resto prete,
professore e ordinario (questi ci sono stati e ci saranno sempre). Ma niente di
più. Che le castagne dal fuoco se le tirino su da soli, visto che ce le hanno
messe loro (ci siamo dimenticati che fine ha fatto la scuola di pastorale: da
settecento iscritti alla sua ingloriosa chiusura o il più classico tirare a
campare. Questa è la chiesa di Foggia: appiattire sempre e appiattire tutto. Ah
quel benedetto mons. Galantino se solo potessi averlo tra le man, non so cosa
gli farei. Ormai è vescovo e segretario della CEI, alla mia domanda: “ma dove
andremo a finire con queste scuolei teologia, ormai ridotte a scuolette per
sfornare professorini di religione: una materia che fra non molto verrà tolta,
e aggiungo speriamo presto, così finisce l'equivoco?”. Nessuna risposta:
"ormai non sono più in quel settore della chiesa", mi ha detto. E va
bene, abbiamo capito anche te. Però bastava dirlo prima. Uno restava in America
e chissà ora dove sarei finito. Le porte, ha detto mons. Marino, sono sempre
aperte: basta che mi decido. Se vuoi anche domani ne parliamo con mons. Di
Marzio. Dovevi ritornare appena ti sei accorto che l’aria era cambiata. Già
tornare in America. E i tanti rapporti instaurati con amici, studenti, allievi,
politici? Si dice presto taglia tutto e vieni. Come si fa? Una cosa è certa: la
tentazione c'è e non prego con il "non indurmi in tentazione", tanto
ci sono già. In un anno il mondo può cambiare. Intanto a ottobre avrò la
soddisfazione di vedere Tamburrino di fronte ai giudici del tribunale per la
pacchiana diffamazione. Dovrà pur spiegare loro come gli è venuto in testa di
dire che mi sono fatto una scuola abusiva dentro la scuola paritaria, che i
dipendenti li avevo assunti a titolo personale, che i debiti lasciati sono i miei
e non della scuola. Dopo che avrò finito con lui, inizierò con quelli della
curia romana, che con la stupidità e faciloneria con la quale gestiscono cose
tanto delicate, hanno decretato sensa leggere le mie carte che Tamburrino,
senz'altro aveva ragione, e che io mi ero fatto una scuola abusiva. Spero che
ci sia anche per loro, presto, un tribunale, come per Tamburrino. E che dire
dell'altro tribunale ecclesiastico della Segnatura Aspostolica, quello adibito
a dirimere le questioni tra preti e tra preti e vescovi? Solo per
"esaminare la pratica" mi ha chiesto 1800 euro e altri 5000 per
l'avvocato, da scegliere obbligatoriamente da una lista di venti accreditati da
loro. Il primo avocato interpellato mi ha detto testualmente "ma lasci perdere
che è tutta una farsa". Ma quanto tempo ci vorrà ancora che qieusta finta
giustizia clericale, del "cane non mangia cane" abbia fine? Ha sempre
gli organi superiori, la via gerarchica per avere giustizia, mi avevano detto i
soliti idioti. E così ho fatto, per restare ancora nella chiesa cattolica. Ma:
il vescovo mi ha risposto sull'onda dell "ispe dixit", senza leggere
le carte (un'abitudine tutta chiesastica, quella di giudicare per sentito dire)
che aveva ragione lui: mi ero inventato una scuola parallela. Qualche idiota
giurista di curia deve averli suggerita una cosa che non è farina del suo
sacco, perché intelligente a modo suo lo è. La congregazione del Clero aveva
sentenziato che Tamburrino essendo un vescovo non poteva dire bugie e falsità,
e che quindi aveva certamente ragione lui nel dirmi che mi ero fatto una scuola
abusiva all'inerno della scuola paritaria (paraculi). Il supremo tribunale non
entra nel merito se non ben oleato con milleottocento euro: mica stanno a
servizio nostro.... Le cause costano sempre e in ogni caso, anche se l'offeso
non ha soldi e mezzi per farle avviare e avere giustizia una buona volta. Lo
stato, quello scombinato stato italiano, con i tribunali allo sbando, batte
quelli ancora più scombinati della chiesa, tre a zero e palla al centro. E’
bastato il primo round dei tre processi intentati dai dipendenti cacciati come
cani, perché questa tesi, messa sua da mascalzoni navitagati e di lungo
percorso, crollasse senza appello al solo esame delle carte e delle prove
risultate inesitenti. Bene, ma chi mi restituirà questi anni di duro lavoro
finiti nel nulla? E gli autori di questa vergognosa e infantile bufala,
resteranno ancora una volta impuniti (come spesso accade nella chiesa: "e
tu perdonalo" mi ha detto Pelvi)? Non cerco vendetta, non so cosa sia, ma
per lo meno che si faccia luce sugli eventi e ci si metta una pietra sopra
(quella della giustizia) a una vicenda al limite della commedia goldoniana.
Intanto continuo a guidare per la via del ritorno, con questi pensieri e il
sottofondo di musica americana che oggi proprio non riesco a digerire. Dopo la
prima delle due ore a gonfie vele, improvvisamente la marcia si fa a passo
d’uomo. Avremo fatto dieci chilometri in un’ora. Un cartello elettronico ci
aveva avvertito di un incidente più avanti. E lo avevamo già passato. Non ci
avevano detto che gli incidenti erano due. Il secondo un camion che trasportava
pacchi di carta si è letteralmente frantumato sul gard rail distruggendolo e
invadendo la nostra corsia. Come Dio ha voluto abbiamo passato il punto
cruciale e poi via di nuovo con il vento. La cosa strana è stata che anche
l’altro corsia, quella riservata ai camion e ai caravan, alla nostra destra,
non toccata dall’incidente andava lo stesso a rilento come noi. Evidentemente
in America le sbirciatine sono d’obbligo e con la massa di macchine in
circolazione, anche una sbirciatina rallenta il traffico in maniera paurosa.
Comunque non sembrano esserci stati feriti. Solo macchine sfasciate e camion
gambe all’aria. Intanto si sono fatte le cinque e mezzo. Peter è a casa sua. In
canonica non c’è proprio nessuno. Voglia di andare al ristorante non ne ho e da
bravo scout mi faccio penne al ragù, cotolette tirate al vino bianco, insalata,
e due bicchieroni di vino di bottiglia, rigorosamente un cabernet californiano.
Insomma una cenetta niente male. Il silenzio dei giorni scorsi a quest’ora
sembra raddoppiato. Peter si è portato a casa sua sia Samy che Nina, i suoi
cagnonili frignanti a ogni ora, così sono solo, proprio come un cane, anzi
senza neanche un cane di compagnia. C’è sempre sky però, quella italiana. Con
un trucco di poche lire, lo posso seguire integralmente, anche nei film a
command, anche qui da Vineland. Se non fosse che il silenzio e la solitudine mi
fanno venire pensieri e ricordi terribili come quelli sopra descritti, nessuno
può immaginare quanta creatività c’è in questo silenzio e quanti progetti per
il futuro possono nascere. Ho ancora 4 giorni prima di venerdì, data del
rientro (sigh) e li voglio sfruttare al meglio. Il libro sui sacramenti,
l’articolo su Religiosità popolare, liturgia e carità, sta aspettando di essere
scritto e sembra palpitare sotto la tastiera del computer. Proprio qui in
America, dove i nostri cristiani italiani, si sono portati tutti i loro
santarelli, le loro devozioni, i loro culti popolari, si capisce quanto questa
religiosità popolare, sia davvero importante e grazie a Dio, rispeto ai
protestanti non abbiamo mai avuto il coraggio di buttarla a mare, come quaclche
sciocco teologo e pastoralista di terza mano, va sbandierando dal concilio in
poi. Tutto gioca a favore di un recupero del cristianesimo a tutto campo e non
solo a partire dal citazionismo patristico o dal liturgismo ideologico o da un
attivismo pastorale, fine a se stesso quando non autorefernziale e compensativo
di un celibato mai ben vissuto. Che sia anche questa un’altra tentazione? In
Italia sono le tre, qui ancora le nove….il giorno è ancora lungo per pensarci
su.
7 aprile martedì
Oggi giornata
di relax. Pasqua e pasquetta sono ormai alle spalle. Alzarsi tardi è di rigore.
Fare le cose con lentezza ancora meglio. Tanto nessuno ti corre dietro. Peter è
a casa sua. La parrocchia va avanti da sola. Quando scendo in cucina, la cuoca
Rosa, sta già preparando il pranzo e io non ho fatto ancora colazione. Tutti i
dipendenti sono nelle loro stanze. La vacanza qui dura poco. Finalmente ho
avuto una macchina a disposizione e mi posso muovere con libertà. Vado a mall a
comprare qualcosa per i regalini. Oramai fra pochi giorni si torna a casa.
Quando sono qui, mi pare sempre di comprare tante di quelle cose. Quando torno
a casa tutto diventa insignificante da mostrare alle fameliche nipotine. Meno
male che questa volta si sono accontentate di un po’ di bigiotteria, molta
apparenza e poca spesa. Sorpresa al mall: JCPenny ha chiuso. In America è
un’istituzione, un grande magazzino, davvero alla moda. Mi hanno detto che ha
chiuso per mancanza di clientela. In effetti la gente preferisce Walmart, più
alla mano e senza pretese. Così ho speso poco questa mattina. Domani devo
vedere Boscov, un altro store, per alcun aspetti migliore di JCPenny. Il
pomeriggio passa in attesa della sera: la grande cena dalla famiglia di Louis
Tolotti, un amico e una famiglia che mi entrata nel cuore e che difficilmente
potrò mai dimentare. Louis, il capostipite, è morto già sette anni fa, e sembra
ieri. L'ho visto malato qualche mese prima del decesso e forse è stato meglio
così: ricordarmelo da vivo, pacioccone, intelligente, con una grande storia
alle spalle e un cuore grande come l'America. Quante chiacchierate, quanti
racconti colti dalla sua viva voce, da montanaro trentino, anche se nato in
America. Ma l’imprinting era quello. Un uomo pratico, un po’ rude, gran
lavoratore. Dal niente ha fatto una proprietà di 150 ettari, sulla quale
lavorano e vivono quattro famiglie. Produzione ortofrutticola, da maggio a
ottobre inoltrato,. Ininterrottamente: finito il raccolto si prepara la semina
per il nuovo (altro che pollai e selvaggina). L’acqua qui si spreca. Il terreno
è sabbioso, perfetto per questo tipo di coltura. Il clima mite. Forse un po’
afoso in estate, ma non certo il caldo della California o della Florida.
Camminare a piedi nudi sulle spiagge della Florida in estate è come camminare
sui carboni ardenti: da sconsigliare. Lo so per esperienza. Ora Louis non c’è
più, ma la cena con la sua famiglia una cosa da non perdere anche se vengo qui
per pochi giorni. La moglie è poi originaria di Sant’Elia a Pianisi, un paesino
del Molise a mezzora di macchina da Foggia, prendendo il fondovalle si arriva
in un attimo. Il paese è famoso anche perché c’è stato per un certo tempo padre
Pio. Oggi segue il destino dell’estinzione, come tutti i paesi di quel crinale,
tagliati fuori dalla fondovalle del Fortore, il fiume che alimenta la diga di
Occhito. Per anni Louis parlava solo inglese, ma conosceva bene il veneto delle
sue origini, di suo padre. Quando si accorse che lo capivo, visti i miei
trascorsi in quel di Ponte di Piave (provincia di Treviso), quasi gli
lucchicavano gli occhi e da allora sono diventato suo amico e amico di
famiglia. In lui ammiravo con venerazione l’emigrante italiano, selfmade, come
dicono da queste parti, che dal nulla si è fatto una posizione. Lavorava i suoi
terreni e anche quelli dei vicini, faceva da mezzadro, e giorno dopo giorno ha
messo su un’azienda tra le prime di Vineland capace di esportare ortaggi in
tutta l’America. Abbiamo mangiato italiano, ottimi i ravioli con la ricotta,
proprio come si fanno da noi e così anche l’arrosto e il dolce, tutto preprato
dalla moglie Angelina e Lisa sua figlia. Curioso: come il padre anche il
figlio, Louis jn distribuisce il vinoprendendo il bottiglione da sotto il
tavolo, per non berne troppo e perché riservato solo agli adulti. Abbiamo
passato la serata tra i mille ricordi comuni, miei, di mia sorella Enza venuta
qua alcuni anni fa, di Louis quando in ospedale Mario Salvatore lo rallegrò con
i suoi canti napoletani.In macchina aveva solo cassette di canti italiani,
quelli della montagna, che conoscevo pure io e di qeusto lui si meravigliava e
quelli napoletani, che ascoltava per tutto il tempo del tragitto. Ci siamo
ricordati della vendemmia, delle uva che staccava con le proprie mani dai due
filari che si era riservato per il vino fatto in casa, e che conservava in
grandi otri nella cantina sotto casa. Mi raccontava di suo padre e di quando
lui gli faceva da interprete, visto che non ha mai saputo né voluto imparare
l’inglese. Erano fatti così i montanari trentini, tagliati con l’ascia, passati
dal regno asburgico a quello sabaudo, ma giusto in tempo per emigrare visto che
il nylon aveva ormai sostituto la seta un po’ dappertutto. E addio allevamento
dei bachi da sete con tutta la cultura che la sosteneva. E stava ore a
raccontarmi quello che suo padre aveva raccontato a lui e che io sapevo
corrispondere esattamente alla triste storia di quelle montagne, belle, ma alla
fine poco produttive. E, come spesso succede, l’onda dei ricordi si è fatta
grande questa sera. Già anche questa è l’America che ho conosciuto e apprezzato
di più di tutta New York, Washington, o san Francisco messe insieme. L'America
grande della povera gente, fattasi dal niente, e rimasta semplice e genuina
nonostante i fiumi di soldi che i loro sodo lavoro le ha procurato. Grazie
Louis, la prima visita al cimitero di st. Padre Pio è alla sua tomba. Non ci
metto fiori, non faccio preghiere, faccio solo riecheggiare per qualche momento
le tante belle giornate trascorse assieme a lui e alla sua famiglia e i tanti
racconti che conservo come reliquie..
mercoledì 8
aprile
Questa
mattina mi sono recato a Fildelfia per incontrare Annamaria Rufino. La storia
da raccontare è lunga. Ma è stata la prima famiglia che mi ha accolto in
America nell’ormai lontanissimo 1999 per una visita, poi per le vacanze un po'
tristi del settembre 2001 e infine nel 2002, per un corso d’Inglese alla Penn
University, una delle più prestigiose al mondo. Si facevano corsi di lingua
inglese per i giovani, provenienti da ogni parte della terra, per poi
iscriversi all'università. Ogni studente pagava 3000 dollari, solo per
l’iscrizione ai corsi di luglio. Altrettanti per vitto e alloggio. Eravamo più
di 300 studenti. Fate un po’ voi i calcoli di quanti soldi entrano in quella
università solo d’estate, a corsi ordinari chiusi. Si pagano in media 25mila
dollari l'anno di tasse. Meglio non pensarci. Ogni mattino prendevo il mio
bravo autobus per recarmi al campus e mi illudevo di essere diventato uno
studente americano con un grande futuro. Peccato che il mio era già alle spalle
da tanti anni. Sono arrivato a Cottman avenue, ripercorrendo a memoria una
strada che avrò fatto non so quante volte, sempre sullo stesso ponte B.
Franklin, lineare e solenne, tra Camden e Filadelfia. Stesse fabbriche in
disuso, stessi agglomerati di case inguardabili, stesso traffico micidiale ma
in qualche modo scorrevole (le corsie della tangenziale nord-sud di Filadelfia
sono quattro da una parte e quattro dall’altra e in certe ore del giorno il traffico
è paralizzato nonostante tutto). E di queste tangenziali ce ne sono almeno
quattro o cinque che io sappia. Arrivo a casa di Annamaria, deposito il pacco
di 3 chili di scaldatelli e taralli (anche qui si vendono in qualche negozio
all’italiana, ma non sono buoni come i nostri, certo). Alla dogana mi avevano
chiesto: "Cibo italiano?", "no", "wine?",
"Why? It's so good the american wine". Non era vero ovviamente.
Potevo mai dire che avevo tre chili di taralli, prima me li sequestravano e poi
se li mangiavano loro. Non penso che andrò all'inferno per queste bugie di
scusa, a fin di bene come dicevano le vecchiette in confessionale. Dopo un
caffè con Lola, un chiwawa che non smette di saltellare come un grillo, e i
convenevoli ce ne andiamo a un ristorante italiano: “Mia Napoli”. Nessuno parla
italiano in questo ristorante e la proprietaria è di origini siciliane molto
alla lontana. Mia Napoli, non capisco perché. Perfino il cameriere è un
emigrato albanese. Il mangiare è buono, almeno il cuoco deve essere italiano.
In passato ci siamo venuti altre volte e non ci siamo mai pentiti. Campeggia
nella sala una vespa rossa, che da queste parti è un mito. Ordino linguine alle
vongole (quelle piccole nostrane e non quelle mostruose americane) e Annamaria
rigatoni alla matriciana: dignitosi. Un buon bicchiere di Falangina, un
tiramisu, un amaretto di Saronno (niente grappa) e il pranzo è servito. Una
chiacchierata sull’onda dei ricordi. Di Cesare Rufino, il marito, morto di
leucemia tre anni fa, proprio durante una vacanza in Italia; della madre Angela
anche lei deceduta due mesi dopo e tanti altri guai di famiglia. Ma quello che
mi colpisce di più è lo spirito, che considero tipico di queste parti, “non
abbattersi mai e trovare sempre un motivo per andare avanti”. Non era partita
dall’America la crisi del ’29? Eppure i primi a rialzarsi furono proprio gli
americani. E lo stesso è per la crisi di qualche anno fa. Qui i supermercati si
sono di nuovo riempiti di merce e di gente (e noi stiamo a piagnucolare). Da
noi facciamo festa se il pil aumenta di qualche + 0,1. Siamo fatti
diversamente. Non c’è niente da fare. Un giro di telefonate tra i parenti:
Michael, dottore laureatosi alla cattolica di Roma e ora in una clinica di
Indianapolis, tre stati più in là della Pennsylvania, Zia Ninetta che sta in
ospedale con il femore rotto, Zia Rosaria in Italia, nella mia ex parrocchia di
san Giuseppe Artigiano, Angela la figlia, che ha voluto sposarsi in Italia, che
ama da sempre, e oggi lavora da casa con il computer sempre acceso. Amedeo, che
infermiere anestesista, non è potuto venire al telefono perché in sala
operatoria. Insomma è stato come un piacevole ritrovarsi. E i ricordi sono
davvero tanti come quello del padre che con mano ferma a quasi novantanni
taglia il tacchino del thanks giving, o della madre Lina, con il suo inglese
quasi perfetto, imparato prima da figli e sulla strada che a scuola. Insomma
avevo trovato una famiglia in Filadelfia e l’ho ritrovata ancora. Ridotta ma
con lo spirito di sempre. “Sappi, mi ha detto Annamaria, che se hai bisogno di
un soggiorno qui in America, casa mia è sempre a tua disposizione”. Non poteva
giungermi un invito più gradito e accattivante di questo. Ritorno a Vineland
giusto in tempo che il parroco mi invita a mangiare (ancora!) con un prete
americano di origine messinese, che parla un perfetto italiano, ed è un
religioso pallottino (una delle tante, tantissime congregazioni italiane, che
forse ha più sacerdoti all’estero che in Italia). Anche qui un altro ristorante
italiano. Polipo per antipasto, Pappardelle al ragù, una bottiglia d'acqua
minerale, niente meno la Gaudinello del Vulture-laghi di Monticchio, due
bicchieri di vino, per convincere lo stomaco ad accettare questa tortura di due
pranzi a distanza di quattro ore. Una bella chiacchierata tra preti, su una
chiesa che fa fatica a riprendersi anche da queste parti. Di una burocrazia
diventata arma letale nelle mani di vescovi incapaci del più tradizionale buon
senso e discrezione. Un incrocio similare con i miei racconti della decadente
diocesi nella quale mi tocca pur vivere. Non ne usciamo più allegri, ma almeno
con un condiviso umore che qualcosa pur si deve fare per non farsi cascare le
braccia. Torno finalmente a casa. Prendo due pepsi e mi chiudo in camera a
chiacchierare con un prete siciliano, che proprio non riesce a dormire (e in
Italia sono quale le due del mattino: stress da feste pasquali). Ora i preti
siciliani sono tre: Peter è di Santa Ninfa (i genitori), il pallottino è di
Messina (originario), l’amico di skype di Agrigento. Se non riesco di nuovo a
fare il salto in America, vuoi vedere che il Signore mi sta indicando la
Sicilia come soluzione intermedia? Semmai ci dirotto il prossimo aereo.
9 e 10 aprile
Siamo alle
battute finali. Ieri un cenone da non dormire tutta la notte. Questa notte una
notte d'inferno non solo per la lenta digestione, ma anche per i fulimini,
tuoni, saette, pioggia battente, che proprio non ne vole sapere di smettere. Ho
dormito poco e male. Io sono triste di mio, ma il cielo ci ha messo tutto il
suo, ho detto questa mattina alla messa, l'ultima celebrata in st. Mary. Un
ultimo saluto ai Sopranzetti, sempre ospitali e generosi, e poi qui in camera
in canottiera e mutande, visto che mi sono già fatto un primo bagno di sudore a
chiudere questi straordinari 15 giorni qui a Vineland Nj. Sono passati in
fretta, com sempre accade. Con tante domande senza risposta: cosa farò da
grande? Per ora torno a Foggia, Vedremo come si mettono le cose. Il Pelvi dal
canto suo non mi dà soddisfazioni verbali, è di poche parole, però onore al
merito in 3 mesi ha riparato, andando di persona nei tribunali e
all'ispettorato del lavoro, quanto gli imbecilli precedenti erano riusti a fare
di danno per la diocesi. Tanto di cappello. Forse ci voleva per Foggia un
vescovo detrminato e deciso della sua tempra. Non so quanto andremo daccordo,
ma se il buon giorno si vede dal mattino, penso che sarà un buon giorno per
davvero. IN ogni caso diamogli tempo. Per quanto mi riguarda rimane chiaro che
la collaborazione che avevo dato alla diocesi per la nascita della scuola
paritaria e dells scuola di teologia, visto come sono andate a finire, se la
possono proprio scordare. Ho ben altro per la testa. La fondazione don Antonio
Silvestri al primo posto. Poi tutte le iniziative connesse. E infine, asso
nella manica, why not be back to here, maybe for good. Vedremo. Un
ringraziamento speciali da questi post va a P. Peter, sempre genroso,
intelliggente, disponibile. Un secondo a mons. Marino di Brooklyn, la mia
sempre aperta porta per l'America. Un terzo alle tante famiglie alle quali mi
sono legato da tempo, Tolotti, Sopranzetti, Santangelo, Saglimbeni, Rufino e
tante che da sole riemperibbero l'intero post. Ho promesso che verrò con il
papa a settembre, il 20 c'è il tradizinale festival di Padre Pio e il 28 il
papa va a Filadelfia. Quindi la storia non è finita. Anzi è proprio una storia
infinita.