venerdì 8 aprile 2016

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DI MARZO - APRILE DEL 2016

8 APRILE 2016
L'articolo che vi mancava
Caro Pelvi, le cose non cambiamo
Ho letto, da un blog locale un trafiletto sull’intervento di mons. Pelvi in occasione della venuta a Foggia del procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti. Non mi trovavo da queste parti in quei giorni e non ho potuto seguire di persona la manifestazione al teatro Giordano, che mi dicono sia stata affollatissima e particolarmente vivace. Non so, quindi, il tenore degli altri interventi, ma quello di mons. Pelvi mi ha sollecitato alcune riflessioni che ripropongo al lettore. L’intento non vuole essere polemico, anche se per me, lo confesso, non è così facile, ma di pacata riflessione, quasi una lettera aperta al presule, pubblica, come pubblico è stato il suo intervento. La domanda è la stessa: “quale futuro attende questa martoriata città di provincia e questa nostra diocesi?". “Foggia reagisci“, ha esordito mons. Pelvi, “Il tuo futuro sarà rassicurante e luminoso se andrai oltre la miope chiusura delle protezioni e non ti concederai alla subalternità dei privilegiati, consapevole che sottrarre ad altri per sé e per i propri interessi danneggia il bene comune più che la guerra e la miseria. Anche la Chiesa può dare un contributo specifico a questo impegno di rigenerazione sociale e morale, di mentalità e pratiche a partire dalla testimonianza concreta, per l’affermazione del bene comune. Qui ci vuole il coraggio della profezia; il coraggio di alcuni aggettivi della fede: trasparenza, radicalismo, servizio. Foggia non smettere di sognare”. Un discorso pieno di buoni propositi, certamente, e per certi versi assai stimolante, anche se personalmente, abituato da sempre a mettere insieme parole e gesti, la cosa non mi è parsa particolarmente convincente. Un mio limite lo so. Bello, certamente, il richiamo alla fede e ai suoi aggettivi: “trasparenza, radicalismo, servizio”. Non altrettanto chiaro se si voleva far riferimento più al futuro della chiesa di Foggia-Bovino, che alla sua realtà attuale e meno ancora alla sua storia recente, che in quanto a trasparenza, radicalismo e servizio, non sembra aver dato buona testimonianza. Stimolante, certo, è guardare al futuro, meno ignorare o non fare ammenda di un passato, la cui responsabilità non cade certo su Pelvi, più sui suoi predecessori, ma che pesa come un macigno sulla storia di questa città e su questa diocesi. Problemi che si trascinano da anni, perché da sempre rimossi e mai risolti, anzi spesso si è giocato allo struzzo e alla sabbia, neutralizzando sistematicamente quelle poche voci di dissenso, che pur si sono levate negli anni, bollate come “scontento personale” o di “poco ossequio all’autorità”. E’ dai tempi di De Giorgi, per poi passare a quelli di Casale, e infine di Tamburrino che in questa diocesi le cose proprio non vanno secondo il vangelo, come richiesto da Pelvi, piuttosto adagiate su una "miope chiusura delle protezioni e concessioni alla subalternità dei privilegiati". Si è assisto impotenti a uno “smaccato carrierismo”, per poi passare a uno spregiudicato perseguimento di “interessi privati”, per sé e per ben identificati “costruttori di Dio”, ai quali si è affidato in esclusiva tutto il costruibile religioso e non solo di questa città, per concludersi da ultimo in un quasi totale disinteresse e presa di distanza dalla vita cittadina, un silenzio-assenso, davvero sconcertante, di fronte a tanta delinquenza mafiosa e fraudolente amministrazione del “bene comune”. Non fare ammenda prima e non chiedere perdono, se non scusa, alla comunità cristiana e a quella civile, per peccati così gravi di omissione (se non proprio di connivenza) mi pare riduca non poco la forza delle parole di mons. Pelvi, in sé pur pregnanti e piene di stimoli. Un’ultima riflessione a completamento di quanto già detto. I primi passi di mons. Pelvi a Foggia sembrano più, ispirati al “qaeta non movere”, frutto di conosciuti equilibrismi cui ci hanno abituato i vescovi da tempo in Italia, che a un “pressante invito al risvegliarsi” da un sonno. Sconcertante ci pare, soprattutto, la riconferma proprio di quello stesso gruppo dirigente di mons. Tamburrino, con l’aggiunta di altri soggetti che in quegli anni hanno perseguito più il loro “particolare” che il bene comune. Proprio quello stesso gruppo, che in otto anni, non ha mai reso pubblici i rendiconti dell’otto per mille (come oggi richiesto a gran voce dalla Corte dei Conti e dalla stessa CEI), e si è sempre arcignamente chiuso in sé stesso, refrattario ad ogni critica e cambiamento. Se mi è permesso un paragone, che non vuole essere blasfemo, quello di mons. Pelvi, sembra un “atteggiamento più pasquale che quaresimale”: il secondo di solito dovrebbe precedere il primo, per essere autentico. A parole profetiche ci sarebbe piaciuto registrare gesti profetici. Quelli compiuti finora, francamente non ci sono sembrati tali, anche se va dato tempo al tempo. I mesi dall’ingresso di mons. Pelvi, sono davvero ancora pochi. Poi vale sempre il detto latino, fatto proprio dalla chiesa, "agere seguitur esse", cioè “alle parole seguono i fatti” o per lo meno dovrebbero seguire. Non ci resta, dunque, che attendere l’esito di quel “Foggia reagisci”, e “Foggia non smettere di sognare”, pronti come sempre a una fedele registrazione del nuovo e del significativo che ci viene offerto. La speranza è ultima a morire: ci sia concesso almeno di non morire prima d’aver visto la terra promessa.

versione carbonara dell'articolo su Pelvi....mai pubblicata perché rifiutata dal direttore del giornale....
laddove la polemica è davvero polemica...sia nelle parole che nel tono

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la riporto per gli amici più intimi...
anche perché personalmente è la versione che amo  di più, che sento più vicina al mio spirito....che moderato proprio non è mai stato..

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ovviamente l'avvio è proprio in tema con l'ispirazione carbonara che aveva ispirato la prima versione....
forse è bene come è andata....in pubblico è meglio non esagerare...
ma in privato mi sento più libero
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gli argomenti sono proprio esattamente gli stessi....il pepe è diverso...


"Sono un sacerdote di una diocesi non pugliese, ma molto vicina alla provincia di Foggia. Da tempo seguo, con un certo interesse, le vicissitudini di questa città e dei vescovi che si sono negli anni succeduti. Mi onoro di essere amico di alcuni sacerdoti foggiani, voci, diciamo profetiche, anche se la parola può sembrare grossa e fuori luogo, messe troppo frettolosamente a tacere e mai riabilitati in questi anni. Ho letto, dal sito online di “Lettere Meridiane” dell’amico Geppe Inserra, un trafiletto sull’intervento di mons. Pelvi in occasione della venuta a Foggia del procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti. E mi sono permesso di stendere alcune riflessioni, che offro al vostro giornale. Del discorso di Pelvi riprendo i tratti salienti: “Foggia reagisci. Il tuo futuro sarà rassicurante e luminoso se andrai oltre la miope chiusura delle protezioni e non ti concederai alla subalternità dei privilegiati, consapevole che sottrarre ad altri per sé e per i propri interessi danneggia il bene comune più che la guerra e la miseria”. Anche la Chiesa può dare un contributo specifico a questo impegno di rigenerazione sociale e morale, di mentalità e pratiche a partire dalla testimonianza concreta, per l’affermazione del bene comune. Qui ci vuole il coraggio della profezia; il coraggio di alcuni aggettivi della fede: trasparenza, radicalismo, servizio. Foggia non smettere di sognare”. Fin qui in sintesi il discorsetto di mons. Pelvi al rendezvous cittadino, affollato oltre ogni dire, mi dicono. Una perplessità e una domanda sono d’obbligo: “che ci faceva la chiesa di Foggia, da sempre né “trasparente, né radicale, né al servizio” degli ultimi, in questa manifestazione di maniera che tolta l’emozione del momento, spesso lascia oltre all'amaro in bocca,  il classico tempo che trova? Soprattutto che ci faceva Pelvi, ultimo di una lista di vescovi che da Casale a Tamburrino hanno proprio mostrato l’una e l’altra faccia del dramma di questa città: “interessi privati, per sé e per non meglio identificati costruttori di Dio” e “totale disinteresse e assenza dalla vita cittadina?”. Di un certo effetto sono i due slogan, anche se un po’ giovanilistici e anch’essi di maniera, utilizzati per l’occasione: “Foggia reagisci” e “Foggia non smettere di sognare”. Peccato solo che queste frasi vengano pronunciate da un vescovo che ha mandato in pensione profeti scomodi come don Tonino Intiso e don Fausto Parisi, benevolmente diciamo per “raggiunti limiti di età”, che proprio quel malaffare fatto di “protezioni” e “privilegi”, dentro e fuori della chiesa, hanno da sempre contestato, pagando di persona, tra il sogghigno beffardo di altri,  preti e laici in carriera, premiati e promossi perché più ossequenti e subalterni. Confermare lo stesso gruppo dirigente di Tamburrino, quello dello sperpero dell’otto per mille e del nulla assoluto in fatto di denunce e prese di distanza da amministratori ladri e mafiosi assassini, con l’aggiunta di altri, illustri sconosciuti, che in questi anni sono vissuti in un meschino silenzio, non è un grande segno di risveglio, semmai di un sonno che si vuole perpetrare, più che “sogno da vivere”. Con quale autorevolezza può parlare di risveglio chi non fa che continuare il solito tran tran, con vecchi e spompati marchioni, senza prima battersi il petto e fare il “mea culpa”, per le evidenti collusioni e i peccaminosi silenzi? Mi pare un atteggiamento fin troppo pasquale e poco quaresimale. Per una città, complice una chiesa del silenzio-assenso, nella quale l’“illegalità nel campo delle relazioni sociali dove regna l’idea che tutto sia lecito, anche arricchirsi con ruberie, concussione e corruzioni, illegalità piccole e grandi”, le parole di Pelvi suonano a vuoto quasi irridenti. Ci vuole ben altro che un generico invito a reagire e a non smettere di sognare. Ci vogliono gesti profetici, più che parole profetiche, troppo scontate e pericolosamente di maniera. E in quasi due anni di permanenza foggiana del nuovo prelato se ne sono visti pochini, di questi gesti profetici. Certe serenate quando si mandano in pensione i profeti, già di loro malridotti da tante battaglie perse, e si conservano quelli che questo stato di cose hanno contribuito per incapacità o per miopia a creare, ci pare francamente sciacquarsi la bocca, dopo essersi per anni abbuffati di collateralismo colposo e di complice silenzio. Un colpo d’ali mons. Pelvi. Ce lo potevamo aspettare. L’occasione era ghiotta. Ha perso un’occasione importante. Gli slogan vanno bene per i gruppi giovanili, a Foggia composti da ragazzi in cerca d’identità di genere, più che di prospettiva di futuro. Provi a coordinare e ridare il posto che compete, se ci è permesso dirlo, mons. Pelvi, a chi negli anni si è battuto per una chiesa diversa, più evangelica e più a servizio degli ultimi, come lei sembra voler sognare. La contraddizione, si sa, il dire e non dire, il salire sul cavallo vincente, fa parte dell’attuale sistema chiesa, come il vaticano purtroppo insegna. Riprodurlo pure a livello locale, fa davvero cadere le braccia. Serenate e slogan, sono strumenti d’altri tempi non certo per un futuro, che roseo proprio non è. 




23 MARZO 2016


Ed ecco come al solito l'articolo che vi mancava....
A grande richiesta...sul palcoscenico di Facebook è di scena: La Madonna in cerca del figlio...Licata venerdì prima della domenica delle palme...un unicum....

Mi trovo ancora una volta in Sicilia e precisamente in quel di Licata. La curiosità di vedere da vicino tradizioni legate alla pasqua e ai suoi riti ancestrali, è stata la molla che mi ha portato nuovamente da queste parti. Qui la settimana santa non sono quelle asettiche celebrazioni, liturgy correct, che si fanno da noi. Qui è tutto partecipazione, tutto è evento, che può durare anche giorni, tutto è emozione che si taglia a fette. Ma prendiamo dall’inizio. Il venerdì prima delle palme, si “fa uscire” la Madonna addolorata dalla chiesa parrocchiale di S. Agostino, accompagnata dalla relativa confraternita. Un unicum, non solo per la diocesi di Agrigento, ma forse per tutto il mondo cattolico. Processioni di tale fatta sono tutte legate al venerdì santo, qui la si anticipa di una settimana. Il motivo non è dato saperlo. Forse nemmeno gli attori-protagonisti, lo sanno fino in fondo: “si è sempre fatto così”, fin dal 1600. La Madonna, nell’imaginario collettivo, ha “sentore che qualcosa sta per accadere al Figlio, esce in fretta di casa e si mette alla sua ricerca”. Nella realtà rievocata: la statua dell’Addolorata, portata a spalla dai confratelli, passa tutto il venerdì, di chiesa in chiesa, di rione in rione, cercando il figlio. La sera del venerdì la Madonna si riposa e così per tutto il sabato, come da rito ebraico. La domenica delle palme, di pomeriggio, si rimette in moto per tornare a casa, delusa e sconsolata per non essere riuscita a trovare suo figlio. Una sacra rappresentazione che dura giorni. I confratelli tutti vestiti di nero, con tanto di velo in testa, manco fossero delle suore, camminano, lentamente, due passi avanti e uno indietro, accompagnati da una marcia funebre, suonata dalla banda locale. Sono affilarati, appiccicati l’uno all’altro, una ventina di persone per lato, con due esperti più anziani che guidano questa danza arcaica. Quello davanti dirige, quello di dietro frena. Altro che la fretta dei nostri tempi. Altro che arrivare subito alla meta. Altro che statue (compresa la Madonna dei sette veli), messe su quattro ruote e vai, che te ne puoi andare anche da sola. Qui tutto procede lentamente, mestamente, minuziosamente: si è alla ricerca di qualcosa che non si trova. Le altre confraternite e le altre chiese, parrocchiali e non, poste sul tragitto cittadino, sono volenti o no, coinvolte in questa sacra rappresentazione. Devono aprire le loro porte e far entrare la Madonna. Il parroco che mi ospita ha posto un rifiuto. Ha sì aperto le porte della chiesa, ma non fatto entrare la statua né tanto meno i numerosi confratelli. I motivi sono tanti: troppo miscuglio di paganesimo e cristianesimo. Più che una processione secondo i canoni della liturgia, targata Vaticano II, qui siamo davanti a un mix di riti, di varia natura. Coinvolgere la chiesa e la sua sacra liturgia è forse troppo. Poi la chiesa è piccola, e la gente è tanta, ingestibile in spazi angusti. La confraternita ha poco digerito la cosa: niente preghiere, niente saluto, solo una breve sosta e via con lento passo, verso altre più ospitali cappelle. Come dar torto al parroco. Una processione con il rischio di narcisismo religioso, malcelato, con facce devote, alcune, altre non proprio raccomandabili: tutto il mondo è paese. Insomma “un qualcosa da purificare e in fretta”. L’assenza delle autorità religiose, la dice lunga sull’imbarazzo che la cosa ogni anno procura. Un altro motivo per non dargli torto. Anche se “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”, cantava De Andrè. E il diamante, la parte positiva di tutta la vicenda, va proprio scovata nell’intenzione di questa sacra rappresentazione, autogestita. Chiamarla processione come la vorrebbe la chiesa, forse è troppo. Ma è pur sempre una manifestazione di fede. Rozza quanto si vuole. Arcaica. Paganeggiante. Ma pur sempre di fede. Un voler rivivere una storia, facendosi coinvolgere fisicamente e soprattutto emotivamente, come solo i siciliani sanno fare. Rivivere una storia millenaria. E’ plausibile che la notizia dell’arresto di Gesù abbia messo in apprensione la Madonna e le pie donne (non pare presenti all’ultima cena). E’ plausibile che sia uscita di casa e con una certa ansia (come già nella prima fuga di Gesù dodicenne) e si sia messo sulle sue tracce. Questo il riferimento biblico-storico. E questa la rivisitazione (sempre possibile) che mettono in scena i confratelli dell’Addolorata, che l’accompagnano per tutta la città. Una liturgia? No. Una sacra rappresentazione, certo. Tutto pulito, tutto religiosamente corretto? Non sembra, vista la mancanza quasi totale del clero. Ma tanto di cappello per una realtà che non finisce mai di stupirci.




19 MARZO 2016


ed ecco l'articolo che vi mancava....
I miracoli esistono ancora....
La notizia è rimbalzata ieri sulle pagine di un giornale locale e ha colto tutti di sorpresa: “Don Giovanni Giuliano è stato miracolato da Padre Pio”. “Dopo aver visto il feretro in Vaticano, s’è sciolto il nodo del dolore”. Si dovrebbe gridare al miracolo e lui lo fa, senza alcuna reticenza. E c’è da credergli. A nulla dovrebbe valere la distinzione tra “u miracle, miracle” e “u miracle accussì”, come direbbe Lello Arena altercando con Massimo Troisi nell’indimenticabile “Ricomincio da tre”. Mi aveva telefonato qualche giorno fa, don Giovanni, ma senza raccontarmi la storia del feretro di Padre Pio. In effetti, usciva da due anni di assoluto silenzio. Una specie di velo, come lui stesso racconta, gli aveva adombrato la mente e il cuore, dopo la morte, a breve distanza, degli amati genitori. Aveva chiuso con tutti, anche con gli amici di sempre. Si era chiuso in un silenzio, incomprensibile per noi, che pur abbiamo attraversato esperienze simili se non peggiori. Tutto è cambiato con quella telefonata di qualche settimana fa: “, ciao sono don Giovanni, che fine avete fatto?”. Parlava come se si fosse risvegliato da un coma e il tono era pure di velato rimprovero. Stentavo a crederci. La voce era quella di sempre: di un Lazzaro risuscitato. Non così nei due anni passati: telefono spento; ufficio e casa (a santa Marta, la stessa residenza del papa). Si sapeva di qualche cura, la solita a psicofarmaci, tanto per tirarsi su, ma dall’esito incerto. Si sperava che l’anno sabbatico avrebbe attenuato una situazione che sembra irreversibile. La trepidazione era tanta. Invece il miracolo, come lui stesso lo racconta: “E’ accaduto all’improvviso, ero lì accanto alla salma di san Pio e ho cominciato a piangere. La sera mi sono accorto di essere cambiato”. E noi che conosciamo serietà e professionalità di don Giovanni, non abbiamo dubbi: è stato un miracolo di Padre Pio. Di quelli veri. E che sia tornato il don Giovanni d’un tempo battagliero e mai domo, trapela tra le righe dell’intervista rilasciata. Prima un corso d’esercizi spirituali in Trentino e poi un lavoro per una rivista scientifica sulla riforma della Curia: “un argomento su cui bisogna fare ordine”. Questo è il don Giovanni che conosciamo e che ci fa piacere sia tornato in vita. E’ una frase rivelatrice più d’ogni altra. Contro l’andazzo, che si è visto anche in un recente incontro di clero, dove le cose si propongono volutamente nebbiose e sempre alla buona. Mentre altrove qualcuno taglia corto: “su tante cose nella chiesa si deve fare ordine”, dice, e ordine seriamente. Il tono è quello giusto. Ci si è adagiati per anni su programmi dettati dall’altro e mai posti a verifica, perché forse mai realizzati veramente, nel tran tran che distingue le nostre realtà locali. Si è dato un potere esorbitante ai vescovi, spesso incapaci di gestirlo: “ti sposto di qua, ti sposto di là, e se poco fai casino, sappi che ti tolgo una volta per tutte da fare il parroco”, e questo per quella famigerata norma dei nove anni di parrocato, che tanta rovina sta procurando alla pastorale della chiesa. Per poi passare alle allegre gestioni dell’otto per mille, utilizzate come bancomat personali da vescovi e prelati di curia e sul quale finalmente anche la Corte dei Conti ha deciso di fare chiarezza e tirare le orecchie a una classe dirigente episcopale, davvero irresponsabile. Ecco che don Giovanni ci pare si sia davvero risvegliato dal coma, grazie a padre Pio, nel quale era sprofondato, lasciando noi poverelli un po’ sgomenti e disorientati. E già “nella chiesa uno si fa la fama di un santo e può fare quello che gli pare”. Ce lo dicevano in seminario fin da bambini. Se invece ti fai la fama di un rompiscatole, la chiesa si difende e ti neutralizza: “tanto lo sappiamo cosa pensa e cosa dice quello là, meglio lasciarlo perdere”. Intanto la barca di Dio continua a imbarcare acqua, affogando i rematori, proprio quelli che tirano la carretta. I comandanti, sempre gli stessi a ogni cambio di vescovi, sul cassero di prua stanno impavidi a dare ordini, a una barca che da anni non va da nessuna parte. Grazie padre Pio. Ben tornato a vivere don Giovanni, con il cipiglio d’un tempo. E’ questa la cosa che ci dà la certezza che sei tornato tra i vivi. E’ davvero un miracolo, che non può che farci piacere. In tanta tenebra sempre più spessa che qualche faro si riaccenda è quell’insperato aiuto che ci mancava.

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Ogni volta che si tocca il tema della pedofilia, specie se praticata da sacerdoti all’interno della chiesa cattolica, dimenticando volutamente che è una realtà comune a tanti altri ambienti “familiari e giovanili”, c’è come un moto di esecrazione e di sdegno collettivo che va in sordina quando si tratta di aborto o eutanasia o altri mali del nostro tempo. “Il problema, forse”, è un altro” o “il problema è a monte”, come direbbe il mitico don Tonino Intiso. Ha, cioè, radici antiche e andrebbe preso da molto, molto lontano, e alquanto ridimensionato. Non si ha certo intenzione di prendere le difese dei preti pedofili o dei tanti pedofili nascosti in ogni piega della nostra società. “L’abuso sessuale su minori è reato” e tale rimane e fa bene la legge a perseguire chi si macchia di tale odioso crimine, vista l’età delle vittime e il loro essere in totale sudditanza degli adulti, praticamente indifesi e alla loro mercé e non solo in questo campo. E’ altrove che fioccano le domande e riguardano il diverso atteggiamento verso la pedofilia, nelle varie culture del mondo, di oggi come del passato, come l’antropologia culturale da sempre ha descritto e fatto conoscere. La domanda è presto formulata: perché nel mondo greco-romano (civile quanto il nostro se non di più per certi aspetti) e in tante altre società a noi contemporanee, la pedofilia non costituiva e non costituisce problema? Non è, proprio, quello “shock piscologico così grande che il sé normale non era in grado di assorbire e comprendere ciò che gli sta accadendo... o spesso accompagnato comportamenti autodistruttivi…con possibilità due o tre volte superiori agli adulti di tentare il suicidio e danni patologici permanenti come dissociazione, depressione, isolamento”? Un’altra domanda a seguire: tutto questo reagire è un dato di natura o di cultura? Qualcuno vorrebbe di natura. Ma se di natura, quella dei greci e dei romani era forse diversa dalla nostra? Se di cultura, di chi il merito o la colpa? Alla prima domanda ci pensa l’antropologia culturale a rispondere: “non c’è alcuna natura, da nessuna parte”, inutile cercarla o invocarla: tutto quello che l'uomo dice di se stesso, è frutto del lento cammino dell’umanità, non sempre e non necessariamente in “glorioso divenire”. Persino i cosiddetti “diritti naturali”, sono scelte culturali, conquista faticosa, dell’uomo. Nell’esperienza umana tutto, ma proprio tutto, dipende dal sistema culturale che si è andato costruendo nei secoli e che è arrivato, bene o male, fino a noi, grazie anche all’opera della chiesa cattolica e delle, tanto vituperate, religioni in generale: misconoscerlo è fare dell'ideologia inutile e antistorica. Un percorso con alti e bassi, certo, anche all'interno della stessa chiesa cattolica, e con ritorni al passato, come le guerre “religiose” del vicino oriente, ci mostrano ogni giorno. Ora il pensiero ritorna a quei sacerdoti (solo quattro in tutta la nostra provincia, su forse 2 o 3 mila preti operanti sul territorio) bollati come pedofili. Va detto pro bono pacis: da un lato stride l’isterismo della gente e dall’altro impressiona la superficialità della gerarchia ecclesiastica. Da sempre la chiesa è ricettacolo di “buoni e di cattivi”, come del resto tutte le società di questo mondo. Detto questo non si vuole procedere oltre nella sua difesa. Come ha ben detto il cardinale australiano, “la chiesa ha colpe molto gravi” e noi aggiungiamo che forse ne ha anche molte di più, di quanto si possa immaginare, in tanti altri campi della sua attività pastorale e sociale. Una barca da sempre traballante e che oggi imbarca acqua da tutte le parti. E lo si nota nel clima che oggi si respira nella chiesa: pesante, di retroguardia culturale e scarsa sensibilità sociale. Una chiesa arroccata in se stessa, nelle sue strutture, nei suoi gruppetti e gruppettini, spesso autoreferenziale, quando non trionfalista, lassista e al tempo stesso moralmente rigorista (come per i divorziati risposati e le unioni civili omosessuali) e poi disattenta verso altri valori “civili” del nostro tempo. Non si pensi solo alla pedofilia, ben più grave a noi pare la gestione troppo allegra dei soldi dello stato, per quel famigerato otto per mille, che tanta baldanza e spregiudicatezza economica ha ingenerato nelle alte gerarchie della chiesa italiana. Se non fossero in ballo bambini spesso inermi e innocenti verrebbe da dire “troppo rumore per nulla” o “troppo rumore solo per alcuni casi”, certo gravi, ma, forse ancora marginali rispetto alle tante altre devianze del mondo, non solo cristiano. Se ci è permesso un paragone: gli ordini del Signore circa il divorzio sembrano forti e perentori, mentre altri circa la povertà e l’aiuto ai poveri, un tempo erano annoverati tra “i consigli evangelici”, non seguirli non impediva la salvezza. Cosa si cacciavano (si fa per dire) i divorziati, ma si dava il benvenuto ai ricchi perbenisti, si lasciano i poveri alle porte delle chiese a chiedere l'elemosina, ma si dà grande spazio a feste e festini all'interno delle nostre sale parrocchiali, e relative gite spirituali che poi chiamano pellegrinaggi. Chi punta il dito solo contro i preti pedofili e chi li ha protetti, fa bene, ma se si ferma solo a questo, ci pare francamente poco e di maniera. Ci vuole ben altro. Avanti con la critica a tutto campo: la chiesa è sempre “reformanda”, dicevano i padri antichi, non da meno la nostra mafiosa e corrotta società contemporanea, pardon, locale.
foto di Fausto Parisi.



10 Marzo 2016
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Ogni volta che si tocca il tema della pedofilia, specie se praticata da sacerdoti all’interno della chiesa cattolica, dimenticando volutamente che è una realtà comune a tanti altri ambienti “familiari e giovanili”, c’è come un moto di esecrazione e di sdegno collettivo che va in sordina quando si tratta di aborto o eutanasia o altri mali del nostro tempo. “Il problema, forse”, è un altro” o “il problema è a monte”, come direbbe il mitico don Tonino Intiso. Ha, cioè, radici antiche e andrebbe preso da molto, molto lontano, e alquanto ridimensionato. Non si ha certo intenzione di prendere le difese dei preti pedofili o dei tanti pedofili nascosti in ogni piega della nostra società. “L’abuso sessuale su minori è reato” e tale rimane e fa bene la legge a perseguire chi si macchia di tale odioso crimine, vista l’età delle vittime e il loro essere in totale sudditanza degli adulti, praticamente indifesi e alla loro mercé e non solo in questo campo. E’ altrove che fioccano le domande e riguardano il diverso atteggiamento verso la pedofilia, nelle varie culture del mondo, di oggi come del passato, come l’antropologia culturale da sempre ha descritto e fatto conoscere. La domanda è presto formulata: perché nel mondo greco-romano (civile quanto il nostro se non di più per certi aspetti) e in tante altre società a noi contemporanee, la pedofilia non costituiva e non costituisce problema? Non è, proprio, quello “shock piscologico così grande che il sé normale non era in grado di assorbire e comprendere ciò che gli sta accadendo... o spesso accompagnato comportamenti autodistruttivi…con possibilità due o tre volte superiori agli adulti di tentare il suicidio e danni patologici permanenti come dissociazione, depressione, isolamento”? Un’altra domanda a seguire: tutto questo reagire è un dato di natura o di cultura? Qualcuno vorrebbe di natura. Ma se di natura, quella dei greci e dei romani era forse diversa dalla nostra? Se di cultura, di chi il merito o la colpa? Alla prima domanda ci pensa l’antropologia culturale a rispondere: “non c’è alcuna natura, da nessuna parte”, inutile cercarla o invocarla: tutto quello che l'uomo dice di se stesso, è frutto del lento cammino dell’umanità, non sempre e non necessariamente in “glorioso divenire”. Persino i cosiddetti “diritti naturali”, sono scelte culturali, conquista faticosa, dell’uomo. Nell’esperienza umana tutto, ma proprio tutto, dipende dal sistema culturale che si è andato costruendo nei secoli e che è arrivato, bene o male, fino a noi, grazie anche all’opera della chiesa cattolica e delle, tanto vituperate, religioni in generale: misconoscerlo è fare dell'ideologia inutile e antistorica. Un percorso con alti e bassi, certo, anche all'interno della stessa chiesa cattolica, e con ritorni al passato, come le guerre “religiose” del vicino oriente, ci mostrano ogni giorno. Ora il pensiero ritorna a quei sacerdoti (solo quattro in tutta la nostra provincia, su forse 2 o 3 mila preti operanti sul territorio) bollati come pedofili. Va detto pro bono pacis: da un lato stride l’isterismo della gente e dall’altro impressiona la superficialità della gerarchia ecclesiastica. Da sempre la chiesa è ricettacolo di “buoni e di cattivi”, come del resto tutte le società di questo mondo. Detto questo non si vuole procedere oltre nella sua difesa. Come ha ben detto il cardinale australiano, “la chiesa ha colpe molto gravi” e noi aggiungiamo che forse ne ha anche molte di più, di quanto si possa immaginare, in tanti altri campi della sua attività pastorale e sociale. Una barca da sempre traballante e che oggi imbarca acqua da tutte le parti. E lo si nota nel clima che oggi si respira nella chiesa: pesante, di retroguardia culturale e scarsa sensibilità sociale. Una chiesa arroccata in se stessa, nelle sue strutture, nei suoi gruppetti e gruppettini, spesso autoreferenziale, quando non trionfalista, lassista e al tempo stesso moralmente rigorista (come per i divorziati risposati e le unioni civili omosessuali) e poi disattenta verso altri valori “civili” del nostro tempo. Non si pensi solo alla pedofilia, ben più grave a noi pare la gestione troppo allegra dei soldi dello stato, per quel famigerato otto per mille, che tanta baldanza e spregiudicatezza economica ha ingenerato nelle alte gerarchie della chiesa italiana. Se non fossero in ballo bambini spesso inermi e innocenti verrebbe da dire “troppo rumore per nulla” o “troppo rumore solo per alcuni casi”, certo gravi, ma, forse ancora marginali rispetto alle tante altre devianze del mondo, non solo cristiano. Se ci è permesso un paragone: gli ordini del Signore circa il divorzio sembrano forti e perentori, mentre altri circa la povertà e l’aiuto ai poveri, un tempo erano annoverati tra “i consigli evangelici”, non seguirli non impediva la salvezza. Cosa si cacciavano (si fa per dire) i divorziati, ma si dava il benvenuto ai ricchi perbenisti, si lasciano i poveri alle porte delle chiese a chiedere l'elemosina, ma si dà grande spazio a feste e festini all'interno delle nostre sale parrocchiali, e relative gite spirituali che poi chiamano pellegrinaggi. Chi punta il dito solo contro i preti pedofili e chi li ha protetti, fa bene, ma se si ferma solo a questo, ci pare francamente poco e di maniera. Ci vuole ben altro. Avanti con la critica a tutto campo: la chiesa è sempre “reformanda”, dicevano i padri antichi, non da meno la nostra mafiosa e corrotta società contemporanea, pardon, locale.