DI MARZO - APRILE DEL 2016
8 APRILE 2016
L'articolo che vi mancava
Caro Pelvi, le cose non cambiamo
Ho letto, da un blog locale un trafiletto sull’intervento di mons. Pelvi in occasione della venuta a Foggia del procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti. Non mi trovavo da queste parti in quei giorni e non ho potuto seguire di persona la manifestazione al teatro Giordano, che mi dicono sia stata affollatissima e particolarmente vivace. Non so, quindi, il tenore degli altri interventi, ma quello di mons. Pelvi mi ha sollecitato alcune riflessioni che ripropongo al lettore. L’intento non vuole essere polemico, anche se per me, lo confesso, non è così facile, ma di pacata riflessione, quasi una lettera aperta al presule, pubblica, come pubblico è stato il suo intervento. La domanda è la stessa: “quale futuro attende questa martoriata città di provincia e questa nostra diocesi?". “Foggia reagisci“, ha esordito mons. Pelvi, “Il tuo futuro sarà rassicurante e luminoso se andrai oltre la miope chiusura delle protezioni e non ti concederai alla subalternità dei privilegiati, consapevole che sottrarre ad altri per sé e per i propri interessi danneggia il bene comune più che la guerra e la miseria. Anche la Chiesa può dare un contributo specifico a questo impegno di rigenerazione sociale e morale, di mentalità e pratiche a partire dalla testimonianza concreta, per l’affermazione del bene comune. Qui ci vuole il coraggio della profezia; il coraggio di alcuni aggettivi della fede: trasparenza, radicalismo, servizio. Foggia non smettere di sognare”. Un discorso pieno di buoni propositi, certamente, e per certi versi assai stimolante, anche se personalmente, abituato da sempre a mettere insieme parole e gesti, la cosa non mi è parsa particolarmente convincente. Un mio limite lo so. Bello, certamente, il richiamo alla fede e ai suoi aggettivi: “trasparenza, radicalismo, servizio”. Non altrettanto chiaro se si voleva far riferimento più al futuro della chiesa di Foggia-Bovino, che alla sua realtà attuale e meno ancora alla sua storia recente, che in quanto a trasparenza, radicalismo e servizio, non sembra aver dato buona testimonianza. Stimolante, certo, è guardare al futuro, meno ignorare o non fare ammenda di un passato, la cui responsabilità non cade certo su Pelvi, più sui suoi predecessori, ma che pesa come un macigno sulla storia di questa città e su questa diocesi. Problemi che si trascinano da anni, perché da sempre rimossi e mai risolti, anzi spesso si è giocato allo struzzo e alla sabbia, neutralizzando sistematicamente quelle poche voci di dissenso, che pur si sono levate negli anni, bollate come “scontento personale” o di “poco ossequio all’autorità”. E’ dai tempi di De Giorgi, per poi passare a quelli di Casale, e infine di Tamburrino che in questa diocesi le cose proprio non vanno secondo il vangelo, come richiesto da Pelvi, piuttosto adagiate su una "miope chiusura delle protezioni e concessioni alla subalternità dei privilegiati". Si è assisto impotenti a uno “smaccato carrierismo”, per poi passare a uno spregiudicato perseguimento di “interessi privati”, per sé e per ben identificati “costruttori di Dio”, ai quali si è affidato in esclusiva tutto il costruibile religioso e non solo di questa città, per concludersi da ultimo in un quasi totale disinteresse e presa di distanza dalla vita cittadina, un silenzio-assenso, davvero sconcertante, di fronte a tanta delinquenza mafiosa e fraudolente amministrazione del “bene comune”. Non fare ammenda prima e non chiedere perdono, se non scusa, alla comunità cristiana e a quella civile, per peccati così gravi di omissione (se non proprio di connivenza) mi pare riduca non poco la forza delle parole di mons. Pelvi, in sé pur pregnanti e piene di stimoli. Un’ultima riflessione a completamento di quanto già detto. I primi passi di mons. Pelvi a Foggia sembrano più, ispirati al “qaeta non movere”, frutto di conosciuti equilibrismi cui ci hanno abituato i vescovi da tempo in Italia, che a un “pressante invito al risvegliarsi” da un sonno. Sconcertante ci pare, soprattutto, la riconferma proprio di quello stesso gruppo dirigente di mons. Tamburrino, con l’aggiunta di altri soggetti che in quegli anni hanno perseguito più il loro “particolare” che il bene comune. Proprio quello stesso gruppo, che in otto anni, non ha mai reso pubblici i rendiconti dell’otto per mille (come oggi richiesto a gran voce dalla Corte dei Conti e dalla stessa CEI), e si è sempre arcignamente chiuso in sé stesso, refrattario ad ogni critica e cambiamento. Se mi è permesso un paragone, che non vuole essere blasfemo, quello di mons. Pelvi, sembra un “atteggiamento più pasquale che quaresimale”: il secondo di solito dovrebbe precedere il primo, per essere autentico. A parole profetiche ci sarebbe piaciuto registrare gesti profetici. Quelli compiuti finora, francamente non ci sono sembrati tali, anche se va dato tempo al tempo. I mesi dall’ingresso di mons. Pelvi, sono davvero ancora pochi. Poi vale sempre il detto latino, fatto proprio dalla chiesa, "agere seguitur esse", cioè “alle parole seguono i fatti” o per lo meno dovrebbero seguire. Non ci resta, dunque, che attendere l’esito di quel “Foggia reagisci”, e “Foggia non smettere di sognare”, pronti come sempre a una fedele registrazione del nuovo e del significativo che ci viene offerto. La speranza è ultima a morire: ci sia concesso almeno di non morire prima d’aver visto la terra promessa.
laddove la polemica è davvero polemica...sia nelle parole che nel tono
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la riporto per gli amici più intimi...
anche perché personalmente è la versione che amo di più, che sento più vicina al mio spirito....che moderato proprio non è mai stato..
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ovviamente l'avvio è proprio in tema con l'ispirazione carbonara che aveva ispirato la prima versione....
forse è bene come è andata....in pubblico è meglio non esagerare...
ma in privato mi sento più libero
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gli argomenti sono proprio esattamente gli stessi....il pepe è diverso...
"Sono un
sacerdote di una diocesi non pugliese, ma molto vicina alla provincia di
Foggia. Da tempo seguo, con un certo interesse, le vicissitudini di questa
città e dei vescovi che si sono negli anni succeduti. Mi onoro di essere amico
di alcuni sacerdoti foggiani, voci, diciamo profetiche, anche se la parola può
sembrare grossa e fuori luogo, messe troppo frettolosamente a tacere e mai
riabilitati in questi anni. Ho letto, dal sito online di “Lettere Meridiane”
dell’amico Geppe Inserra, un trafiletto sull’intervento di mons. Pelvi in
occasione della venuta a Foggia del procuratore nazionale antimafia, Franco
Roberti. E mi sono permesso di stendere alcune riflessioni, che offro al vostro
giornale. Del discorso di Pelvi riprendo i tratti salienti: “Foggia reagisci.
Il tuo futuro sarà rassicurante e luminoso se andrai oltre la miope chiusura
delle protezioni e non ti concederai alla subalternità dei privilegiati,
consapevole che sottrarre ad altri per sé e per i propri interessi danneggia il
bene comune più che la guerra e la miseria”. Anche la Chiesa può dare un
contributo specifico a questo impegno di rigenerazione sociale e morale, di
mentalità e pratiche a partire dalla testimonianza concreta, per l’affermazione
del bene comune. Qui ci vuole il coraggio della profezia; il coraggio di alcuni
aggettivi della fede: trasparenza, radicalismo, servizio. Foggia non smettere
di sognare”. Fin qui in sintesi il discorsetto di mons. Pelvi al rendezvous
cittadino, affollato oltre ogni dire, mi dicono. Una perplessità e una domanda
sono d’obbligo: “che ci faceva la chiesa di Foggia, da sempre né “trasparente,
né radicale, né al servizio” degli ultimi, in questa manifestazione di maniera
che tolta l’emozione del momento, spesso lascia oltre all'amaro in bocca,
il classico tempo che trova? Soprattutto che ci faceva Pelvi, ultimo di
una lista di vescovi che da Casale a Tamburrino hanno proprio mostrato l’una e
l’altra faccia del dramma di questa città: “interessi privati, per sé e per non
meglio identificati costruttori di Dio” e “totale disinteresse e assenza dalla
vita cittadina?”. Di un certo effetto sono i due slogan, anche se un po’
giovanilistici e anch’essi di maniera, utilizzati per l’occasione: “Foggia
reagisci” e “Foggia non smettere di sognare”. Peccato solo che queste frasi
vengano pronunciate da un vescovo che ha mandato in pensione profeti scomodi
come don Tonino Intiso e don Fausto Parisi, benevolmente diciamo per “raggiunti
limiti di età”, che proprio quel malaffare fatto di “protezioni” e “privilegi”,
dentro e fuori della chiesa, hanno da sempre contestato, pagando di persona,
tra il sogghigno beffardo di altri, preti e laici in carriera, premiati e promossi
perché più ossequenti e subalterni. Confermare lo stesso gruppo dirigente di
Tamburrino, quello dello sperpero dell’otto per mille e del nulla assoluto in
fatto di denunce e prese di distanza da amministratori ladri e mafiosi
assassini, con l’aggiunta di altri, illustri sconosciuti, che in questi anni
sono vissuti in un meschino silenzio, non è un grande
segno di risveglio, semmai di un sonno che si vuole perpetrare, più che “sogno
da vivere”. Con quale autorevolezza può parlare di risveglio chi non fa che
continuare il solito tran tran, con vecchi e spompati marchioni, senza prima battersi
il petto e fare il “mea culpa”, per le evidenti collusioni e i peccaminosi silenzi?
Mi pare un atteggiamento fin troppo pasquale e poco quaresimale. Per una città,
complice una chiesa del silenzio-assenso, nella quale l’“illegalità nel campo
delle relazioni sociali dove regna l’idea che tutto sia lecito, anche
arricchirsi con ruberie, concussione e corruzioni, illegalità piccole e
grandi”, le parole di Pelvi suonano a vuoto quasi irridenti. Ci vuole ben altro
che un generico invito a reagire e a non smettere di sognare. Ci vogliono gesti
profetici, più che parole profetiche, troppo scontate e pericolosamente di
maniera. E in quasi due anni di permanenza foggiana del nuovo prelato se ne
sono visti pochini, di questi gesti profetici. Certe serenate quando si mandano
in pensione i profeti, già di loro malridotti da tante battaglie perse, e si
conservano quelli che questo stato di cose hanno contribuito per incapacità o
per miopia a creare, ci pare francamente sciacquarsi la bocca, dopo essersi per
anni abbuffati di collateralismo colposo e di complice silenzio. Un colpo d’ali
mons. Pelvi. Ce lo potevamo aspettare. L’occasione era ghiotta. Ha perso
un’occasione importante. Gli slogan vanno bene per i gruppi giovanili, a Foggia
composti da ragazzi in cerca d’identità di genere, più che di prospettiva di
futuro. Provi a coordinare e ridare il posto che compete, se ci è permesso
dirlo, mons. Pelvi, a chi negli anni si è battuto per una chiesa diversa, più
evangelica e più a servizio degli ultimi, come lei sembra voler sognare. La contraddizione, si sa, il dire e
non dire, il salire sul cavallo vincente, fa parte dell’attuale sistema chiesa,
come il vaticano purtroppo insegna. Riprodurlo pure a livello locale, fa
davvero cadere le braccia. Serenate e slogan, sono strumenti d’altri tempi non
certo per un futuro, che roseo proprio non è.
23 MARZO 2016
Ed ecco come al solito l'articolo che vi mancava....
A grande richiesta...sul palcoscenico di Facebook è di scena: La Madonna in cerca del figlio...Licata venerdì prima della domenica delle palme...un unicum....
Mi trovo ancora una volta in Sicilia e precisamente in quel di Licata. La curiosità di vedere da vicino tradizioni legate alla pasqua e ai suoi riti ancestrali, è stata la molla che mi ha portato nuovamente da queste parti. Qui la settimana santa non sono quelle asettiche celebrazioni, liturgy correct, che si fanno da noi. Qui è tutto partecipazione, tutto è evento, che può durare anche giorni, tutto è emozione che si taglia a fette. Ma prendiamo dall’inizio. Il venerdì prima delle palme, si “fa uscire” la Madonna addolorata dalla chiesa parrocchiale di S. Agostino, accompagnata dalla relativa confraternita. Un unicum, non solo per la diocesi di Agrigento, ma forse per tutto il mondo cattolico. Processioni di tale fatta sono tutte legate al venerdì santo, qui la si anticipa di una settimana. Il motivo non è dato saperlo. Forse nemmeno gli attori-protagonisti, lo sanno fino in fondo: “si è sempre fatto così”, fin dal 1600. La Madonna, nell’imaginario collettivo, ha “sentore che qualcosa sta per accadere al Figlio, esce in fretta di casa e si mette alla sua ricerca”. Nella realtà rievocata: la statua dell’Addolorata, portata a spalla dai confratelli, passa tutto il venerdì, di chiesa in chiesa, di rione in rione, cercando il figlio. La sera del venerdì la Madonna si riposa e così per tutto il sabato, come da rito ebraico. La domenica delle palme, di pomeriggio, si rimette in moto per tornare a casa, delusa e sconsolata per non essere riuscita a trovare suo figlio. Una sacra rappresentazione che dura giorni. I confratelli tutti vestiti di nero, con tanto di velo in testa, manco fossero delle suore, camminano, lentamente, due passi avanti e uno indietro, accompagnati da una marcia funebre, suonata dalla banda locale. Sono affilarati, appiccicati l’uno all’altro, una ventina di persone per lato, con due esperti più anziani che guidano questa danza arcaica. Quello davanti dirige, quello di dietro frena. Altro che la fretta dei nostri tempi. Altro che arrivare subito alla meta. Altro che statue (compresa la Madonna dei sette veli), messe su quattro ruote e vai, che te ne puoi andare anche da sola. Qui tutto procede lentamente, mestamente, minuziosamente: si è alla ricerca di qualcosa che non si trova. Le altre confraternite e le altre chiese, parrocchiali e non, poste sul tragitto cittadino, sono volenti o no, coinvolte in questa sacra rappresentazione. Devono aprire le loro porte e far entrare la Madonna. Il parroco che mi ospita ha posto un rifiuto. Ha sì aperto le porte della chiesa, ma non fatto entrare la statua né tanto meno i numerosi confratelli. I motivi sono tanti: troppo miscuglio di paganesimo e cristianesimo. Più che una processione secondo i canoni della liturgia, targata Vaticano II, qui siamo davanti a un mix di riti, di varia natura. Coinvolgere la chiesa e la sua sacra liturgia è forse troppo. Poi la chiesa è piccola, e la gente è tanta, ingestibile in spazi angusti. La confraternita ha poco digerito la cosa: niente preghiere, niente saluto, solo una breve sosta e via con lento passo, verso altre più ospitali cappelle. Come dar torto al parroco. Una processione con il rischio di narcisismo religioso, malcelato, con facce devote, alcune, altre non proprio raccomandabili: tutto il mondo è paese. Insomma “un qualcosa da purificare e in fretta”. L’assenza delle autorità religiose, la dice lunga sull’imbarazzo che la cosa ogni anno procura. Un altro motivo per non dargli torto. Anche se “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”, cantava De Andrè. E il diamante, la parte positiva di tutta la vicenda, va proprio scovata nell’intenzione di questa sacra rappresentazione, autogestita. Chiamarla processione come la vorrebbe la chiesa, forse è troppo. Ma è pur sempre una manifestazione di fede. Rozza quanto si vuole. Arcaica. Paganeggiante. Ma pur sempre di fede. Un voler rivivere una storia, facendosi coinvolgere fisicamente e soprattutto emotivamente, come solo i siciliani sanno fare. Rivivere una storia millenaria. E’ plausibile che la notizia dell’arresto di Gesù abbia messo in apprensione la Madonna e le pie donne (non pare presenti all’ultima cena). E’ plausibile che sia uscita di casa e con una certa ansia (come già nella prima fuga di Gesù dodicenne) e si sia messo sulle sue tracce. Questo il riferimento biblico-storico. E questa la rivisitazione (sempre possibile) che mettono in scena i confratelli dell’Addolorata, che l’accompagnano per tutta la città. Una liturgia? No. Una sacra rappresentazione, certo. Tutto pulito, tutto religiosamente corretto? Non sembra, vista la mancanza quasi totale del clero. Ma tanto di cappello per una realtà che non finisce mai di stupirci.