giovedì 11 dicembre 2014

9-13 DICEMBRE 2014: CE LA RICORDEREMO COME LA SETTIMANA DI FUOCO

Da l'Attacco del 16 dicembre 2014....
una giornata per cambiare la storia di Foggia


tutti gli articoli sul 13 dicembre: una luce spuntò dalle tenebre

E' ARRIVATO PELVI....VINCENZO

ART. 1
le gaff del cerimoniale
In giornate come quelle di sabato, solennizzate dall’arrivo del nuovo vescovo di Foggia, Mons. Pelvi, le gaffe si sono sprecate fin dal primo mattino. Pelvi, non potendo ancora entrare nel suo episcopio, liberato solo il giorno prima da mons. Tamburrino, ha fatto una sosta al santuario dell’Incoronata. Mons. Antonio Sacco, ex cerimoniere episcopale, si è subito recato dal presule, per mostrargli le talari e relative cotte, predisposte per l’ingresso ufficiale. “Questa è semplice”, avrebbe detto. “Questa è più solenne, con i risvolti alle maniche”. “Questa ha filamenti color rosso, sulle maniche e su tutta l’abbottonatura, e una cotta con un ricamo fatto a mano”. “Scelgo la prima”, avrebbe risposto Pelvi. E all’espressione un po’ contrariata del suo interlocutore, avrebbe aggiunto: “o vuoi fare tu il vescovo e l’ingresso al posto mio?”. Il vento sta cambiando. Seconda gaffe. A pagina 19 del libretto della cerimonia si legge testualmente: “Terminate le acclamazioni, alcuni rappresentanti dell’Arcidiocesi si avvicinano all’Arcivescovo per manifestargli la loro filiale obbedienza”. “Non se ne parla proprio”, avrebbe tagliato corto mons. Pelvi. Terza gaffe. Il cerimoniere polacco che non solo scrive in un italiano stentato e approssimativo, ma mostra anche di non saperlo neppure leggere. Ai saluti finali ha rifilato di nuovo all’Arcivescovo il testo dell’omelia. Appena accennato, ma ben visibile, il suo gesto di stizza. 
ART. 2
L'OMELIA DI PELVI
Si era tutti in attesa dell’omelia che mons. Pelvi avrebbe tenuto al suo ingresso in Diocesi. Ha tenuto un’omelia di circostanza, ma con passaggi che il testo scritto ha evidenziato, rispetto a un audio pessimo e incomprensibile. Già Pelvi parla con un filino di voce, che forse solo chi gli sta vicino riesce a percepire, a questo si aggiunga che i microfoni della cattedrale, oltre all’impianto di riscaldamento, proprio non funzionano: gracidano, sibilano, si spengono nel bel mezzo della cerimonia, insomma fatto tutto da soli, e la gente capisce quel che può, fregandosi le mani per il gran freddo. Eppure qualcosa si è capito da subito: Pelvi, con i suoi 6 minuti e 50 di omelia, ha fatto fare alla diocesi di Foggia-Bovino un balzo in avanti di 1600 anni, rispetto all’introduzione di Tamburrino, durata 12 minuti, refrain di tante sue prediche, dalla durata media di mezzora, per giunta lette in maniera stentorea, e con citazioni dei padri della chiesa, che non andavano oltre il IV o V secolo. Con Pelvi un’omelia centrata solo sulle letture della messa, e la loro attualizzazione, sia pure con i famosi tre punti gesuitici e finalino riassuntivo. Una predica breve, concisa, puntuale: tutta imperniata sulle “tre voci” che risuonano nella liturgia della parola della III domenica di Avvento, “Gaudete”. La cattedrale stracolma all’inverosimile, come non si vedeva da anni. Il coro che non ha concesso alla gente neanche il canto dell’alleluia, e i sacerdoti, come sardine insaccati nelle due cappelle laterali, che hanno seguito l’intera cerimonia, non vedendo nulla, diciamo a memoria. Allora la “prima voce” è quella di Giovanni il Battista: “voce di uno che grida nel deserto, preparate le vie del Signore (Gv 1,23)”. Voce di testimone, austero e autorevole, “lontano da ogni esibizionismo o protagonismo”. “Io non sono”, ripete il Battista ai suoi interlocutori, per questo occorre mettersi “assieme in ascolto della parola del Signore”. La “seconda voce” è quella dell’apostolo Paolo, che annuncia la risurrezione del Cristo e il suo prossimo ritorno: “è un invito alla comunione, ad una missione di amicizia, di comprensione, di incoraggiamento, di salvezza”. “Facciamo nostra la sfida di Papa Francesco”, ripete mons. Pelvi infervorandosi, “quella di scoprire e trasmettere la “mistica” di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di parteciparci, in una carovana di solidarietà”. La “terza voce” è quella del profeta Isaia: “una voce che promette speranza ai poveri, forza ai malati, liberazione agli schiavi e prigionieri”, sperduti nei nuovi deserti del nostro tempo: “della povertà della fame e della sete, il deserto dell’abbandono, della solitudine, dell’amore distrutto. Il deserto dell’oscurità di Dio, dello svuotamento delle anime senza più coscienza della dignità e del cammino dell’uomo”. E poi un richiamo, finale, alla sua missione, come vescovo della Diocesi di Foggia-Bovino, che sa di programma pastorale per gli anni a venire: “Vengo a voi con trepidazione e fiducia, ma non timore, perché nulla può impaurire un discepolo che vuole seguire Gesù, il cui sostegno è sempre affidabile. So che il Signore mi manda ad una chiesa singolare per storia e temperamento civile. Qui non mancano i segni della santità, i cercatori della verità, i testimoni della carità”. Ancora più conciso Mons. Pelvi, come qualche concessione all’emozione, sono stati i ringraziamenti alla fine della messa. Un saluto ai vescovi amici presenti: card. Vallini, napoletano pure lui, e Vicario Generale a Roma, mons. Bruno Forte, compagno di scuola, insigne teologo, vescovo di Chieti-Vasto, mons. Angerani, da pochi mesi ausiliare della diocesi di Napoli, e mons. Tommaso Caputo della diocesi di Pompei. Una benevola stoccata ai politici: “abbiamo un percorso da condividere, il bene comune del popolo. Voi lo ricorderete a me ed io farò altrettanto con voi, se mai dovessimo in qualche maniera dimenticarlo”. Un pensiero “ai sofferenti di ogni tipo, ai malati, ai carcerati, ai poveri, a coloro che sono oppressi dalla fatica di vivere”. Ai sacerdoti e diaconi chiede di camminare insieme, “con amicizia e lealtà”, senza indugi, e “sostenendo chi fa più fatica”. Un pensiero infine per i religiosi e le religiose, e i laici impegnati, che ha promesso di seguire con attenzione paterna. Un saluto a parenti e amici, della diocesi di Napoli, lasciata a malincuore dieci anni fa, e dell’Ordinariato militare, per raggiunti limiti di età nel 2012. Tanti, addirittura otto pulmann, provenienti da Napoli e non solo. Ha sorpreso il numero di diaconi, una decina di omoni di una certa età, da lui formati quando era vicario generale a Napoli, e molti preti dell’ordinariato militare, a smentita di una gestione autoritaria e dal pugno di ferro. Finita la messa il rigido cerimoniale del cerimoniere polacco ha impedito ai sacerdoti un saluto fraterno al loro vescovo. Solo Tamburrino è andato a salutare i suoi ex tutti raccolti nella cappella dell’Iconavetere. Il coro ha continuato a cantare da solo, gli altri preti, alla spicciolata, se ne sono andati a cambiarsi d’abito. Almeno questa è fatta, ora aspettiamo i fatti. Su tutti un commento di don Sabino, della diocesi di Andria e vicario episcopale di Puglia, per l’Ordinariato militare: “è lui quello che deve venire, e non state ad aspettarne un altro”. Un augurio o una minaccia? Lui ha detto “un augurio”. 
ART. 3
CHI C'ERA E CHI NON C'ERA
I sacerdoti di Foggia si ricorderanno a lungo il purgatorio subito per l’ingresso del vescovo mons. Pelvi. Un polacco dal nome impronunciabili li ha stipati, come tanti brutti sporchi e cattivi, nelle due cappelle laterali, per far spazio nell’aula liturgica ai tanti (più di quattrocento) amici di Napoli e dall’ordinariato militare. Eravamo una ventina, in una cappella e altrettanti nell’altra. Due cancelli di ghisa pesanti anche solo a guardarli e un pilastro immenso che toglieva la visuale della navata e parte del presbiterio. Qualche sacerdote che usciva ed entrava dalla cappella, era malvisto dagli addetti al servizio d’ordine imposto dal cerimoniere polacco, se non rispediti ai loro posti. Dal lato del presbiterio una schiera di diaconi, forse una decina, impediva persino di vedere cosa succedeva sul vicino altare. Così non si è potuto praticamente sapere chi “c’era” e chi “non c’era”. Intanto c’erano cinque vescovi, amici di mons. Pelvi, tra i quali spiccava il card. Vallini, napoletano, vicario generale di Roma, ma mancavano, nonostante fossero stati invitati esplicitamente, tutti i vescovi della Metropolia. A detta dei soliti informati è tradizione la loro assenza. Mah? Comunque la cosa stonava e parecchio pure. Sarà il vescovo di Foggia, ma è anche il metropolita della provincia di Foggia. Mancava il “giapponese”, don Tonino Intiso, che ha preferito far le riprese dell’intera cerimonia dalla navata, e quindi si è defilato dalla concelebrazione. Mancava don Nardino Cendamo, forse impegnato in qualche consiglio docenti nella scuola nella quale è pur preside. Mancavano molti religiosi, per non dire quasi tutti, se si eccettua quelli inseriti in realtà parrocchiali. C’erano i pretini giovani, co-parroci dell’unità pastorale che fa capo alla cattedrale. Non trovavano pace, giovani come sono, sempre a sporgersi per vedere cosa succedeva al di là della balaustra. C’erano tutti i canonici di Foggia e qualcuno di Bovino, in pompa magna all’ingresso della cattedrale, poi bardati di viola per la celebrazione, dietro i vescovi concelebranti. Se parroci non possono più essere canonici, eppure per l’occasione don Antonio Sacco, don Pietro Giacobbe, don Filippo Tardio, tutti parroci, non hanno voluto mancare. L’occasione di farsi vedere è pur sempre ghiotta. C’erano tanti, ma davvero tanti, sacerdoti dell’ordinariato militare e diaconi della diocesi di Napoli, a sfatare un rumors che lo dipingeva come poco amato dai suoi collaboratori d’un tempo. C’erano i seminaristi del seminario regionale, adibiti al servizio liturgico e accompagnati dal loro rettore. In tutto quattro. Perdute speranze di sviluppo per una diocesi in esaurimento. C’erano però in compenso gli stranieri: neri, gialli, nordici, che oramai fanno arredo ordinario della nostra diocesi. C’erano tutti gli ex di Tamburrino, facce cadaveriche, occhi spenti, sguardo abbassato, consolati dall’abbraccio del lo ex dopo la celebrazione,, e solo a loro, tutti raggruppati nella cappella dell’Iconavetere e non quelli del Crocifisso. C’erano quelli dell’Ual, sempre in prima fila con le loro carrozzelle e i volontari. Forse era a loro che Pelvi si è rivolto, per l’attività caritativa della nostra diocesi. Non c’erano “gli assistiti della caritas”, neanche a portare uno dei tanti doni all’altare. C’era un nutrito gruppo di ex-carabiniere con il loro ottantenne patriarca e fondatore dell’associazione, con tanto di basco e stellette su giacche nero-funerale. C’era, infine, un coro di trenta componenti, che ha cantato, da solo, praticamente da solo tutto il tempo, alla faccia di ogni accenno di partecipazione popolare come previsto dalla riforma liturgica. Insomma una cerimonia d’altri tempi. 
ART. 4
UN'INTERVISTA AL VOLO: MONS. SABINO SCARCELLA DI ANDRIA, EX CAPPELLANO MILITARE
In abbondante anticipo 15,45, sull’orario d’inizio della celebrazione di ingresso di mons. Pelvi, previsto per le 16,30, ci siamo trovati, noi sacerdoti, come intruppati nelle due cappelle laterali della basilica cattedrale. Nella cappella del Crocifisso c’era seduto un sacerdote non originario di Foggia. Una parola tira l’altra e ci dice di essere don Sabino Scarcelli, della Diocesi di Andria, e già vicario zonale per la Puglia dell’ordinariato militare. L’occasione era fin troppo ghiotta per carpirgli un’intervista al volo. “E vero che ha cambiato tre vicari generali, nel suo primo anno di attività?”. “Ma quando mai?”, ha risposto. “Ne ha cambiato uno solo, dopo che il precedente aveva dovuto dare le dimissioni per raggiunti limiti d’età”. “Si dice che sia un tipo molto severo, è vero?”. “Severo sì, soprattutto con chi cerca di fare con lui il furbo”, risponde. “Si spieghi meglio”. “Non vi fate fuorviare dalla vocina sottile e dai modi garbati. Sotto il guanto di velluto c’è un pugno di ferro, se necessario. Mons. Pelvi è uno che sa scegliersi i collaboratori, uno per uno. Chiede fiducia e soprattutto lealtà. Se questa viene meno, diventa severo e a volte molto severo”. “Insomma, tutti quelli che si lamentano del suo atteggiamento piuttosto deciso, sono poco attendibili, perché forse in difetto?”. “Esattamente. Sai nell’ambito militare, come del resto in tutte le diocesi del mondo, non è che i preti sono tutti santi, anzi. C’è chi fa il proprio dovere pastorale, e ce n’è da fare tantissimo, e chi tira a campare. Chi si fa la sua nicchia e ci si avvolge dentro. Con questi ultimi mons. Pelvi è stato piuttosto deciso. Dove ha potuto ha cambiato spesso di sede i lavativi. In altri casi ha chiesto ai vescovi di origine di riprenderseli in diocesi (non sempre ascoltato)”. “E’ vero che il primo giorno d’insediamento nell’ordinariato militare, ha detto che bisognava cambiare pagina dalla gestione Bagnasco?”. “Io c’ero quel giorno. Non ho sentito questa frase. Posso dirti che con Bagnasco non è che le cose andavano a gonfie vele. Era molto stretto di manica e poco vicino ai sacerdoti. Diciamo che preferiva “veleggiare” sulle alte sfere. Mons. Pelvi ha cercato di far cambiare stile all’ordinariato militare”. “Quindi non è vero che ha fatto un cazziatone ai preti che nell’ultimo convegno di Assisi si erano presentati con tanto di macchina d’ufficio, autista e assistente?”. “Pelvi è uno che le cose non le manda a dire. E come ti ho detto prima, alcuni cappellani militari, sotto le armi, sembrano dimenticarsi di essere là perché preti e pastori”. “Lo stipendio è sempre alto, come pure la pensione?”. “Si aggira attorno ai cinquemila euro, per i cappellani, il calcolo della pensione non si fa sull’ultimo stipendio, ma una media degli ultimi anni”. “Insomma dobbiamo temere mons. Pelvi?”. “Niente affatto: è un buono d’animo, generoso e paterno. Da buon napoletano non vuole essere fregato. Questo sì. I rapporti devono essere chiari e onesti”. Intanto il coro comincia a cantare, fragorosamente e l’intervista sfuma così. Grazie don Sabino.




Da l'Attacco del 13 dicembre 2014
"sei tu quello che deve venire o dobbiamo aspettarne un altro?"


IN SINTESI: SEI TU QUELLO CHE DEVE VENIRE O DOBBIAMO ASPETTARNE UN ALTRO?


1. FINALMENTE PELVI...
In attesa del vescovo che oggi farà il suo ingresso ufficiale alle 16,30, mi sono messo a fantasticare sui suoi primi cento giorni e sulle prime dieci cose da fare, con urgenza, per raddrizzare una diocesi decisamente allo sbando. A volerle realizzare tutte ci vorrebbe una vita, altro che cento giorni, questo è vero. Si diceva un tempo “chi ben incomincia è a metà dell’opera. Ecco allora le dieci cose che Pelvi dovrebbe fare nei primi cento giorni. 1. Allontanare dalla diocesi l’ingombrante presenza di mons. Tamburrino. Sarà emerito quanto vuole, ma la sua cricca, che si è trascinata per lunghi undici anni, sempre gli stessi, nonostante la dichiarata disistima nei loro confronti, sempre a lui farà riferimento (liberti con il loro padrone). La vecchia guardia è da sempre una palla al piede per ogni nuovo vescovo. 2. Cambiare quanto prima il vicario generale e tutti i vicari episcopali. Dovrebbe essere per loro una liberazione e un favore, così gravati d’impegni: dalla parrocchia, alla diocesi, alle associazioni, agli incarichi regionali, da tempo mostrano segni di cedimento. Nessuno sa come facevano a stare dietro a tutti i loro impegni. Di fatto non ci stavano dietro e tiravano a campare, fregiati come tanti pettoruti colonnelli russi. 3. Basta monsignori, per carità. Un titolo che dovrebbe significare qualcosa per la diocesi, e non essere premio-ricompensa del sovrano per i suoi lacché (parola di papa Francesco), come da disarmante dichiarazione di Tamburrino: “quelli lavorano per me”, mentre “gli altri lavorano per il diavolo”, fu la risposta. Papa Francesco ha posto un limite per diocesi e un limite d’età, superata la cinquantina. Se ne faccia tesoro. 4. Movimentare e promuovere il laicato, ancora servilmente clericodipendente, o bloccato in movimenti e associazioni tutte intraecclesiali, da piccolo borgo antico. Promuovere vuol dire, dar loro posti di una certa responsabilità a livello di curia, e di pastorale. Più potere ai laici, quindi, alle laiche e soprattutto alle religiose: non tutte capedipezza, anzi con intelligenze, forza morale e culturale da vendere. 5. Aprire le porte delle chiese, non tanto nel tradizionale senso di “far entrare” o “spingere la gente a entrare”, come in un frainteso detto evangelico, piuttosto nel senso “far uscire i cristiani di chiesa” e mandarli a servire il mondo dei poveri e dei sofferenti, e convertire quello dei prepotenti e degli oppressori. 6. Su questa linea abbandonare ogni asfissiante centralismo parrocchiale, quel parrocchialismo fatiscente, buono si e no per compensazioni di vario genere. La domenica è il giorno del Signore, non delle parrocchie. Occorre ridar senso domenicale a conventi e confraternite e realtà ecclesiali di base (termine e realtà ormai rottamate). Lo dicono i migliori liturgisti: senza la domenica la messa feriale non ha senso. Il lumicino sta fumigando e presto si spegnerà, e a cascata si spegnerà anche tutto il resto, parrocchie comprese. E’ già successo altrove. 7. Controllare il flusso economico dell’otto per mille. Da Casale in poi, in questa diocesi se n’è fatto carne da macello. E’ un’offesa ai poveri, che non trova alcuna giustificazione, il rifacimento per la quarta volta delle mille stanze riservate al vescovo e un lampadario di murano da cinquemila euro. Eppure è stato realizzato nel complice silenzio di monsignori di curia ed economi vari (questi ultimi coltello alla gola e poi messi alla porta). I soldi dati dalla gente alla gente devono tornare. Noi non ci siamo dimenticati gli interessi sui soldi dell’otto per mille, bloccati in banca per mesi e mai fatti segnare in nessun libro contabile della curia. Non ci siamo dimenticati le frasi colte dalla viva voce degli interessati, del tipo “tu hai chiesto cento?”, ebbene “io ti do cinquanta”, ma “tu scrivi lo stesso cento, altrimenti neanche i cinquanta ti do”. Qualcuno non ha reagisto ed ha eseguito, altri si sono ribellati e forse hanno pagato per questo. 8. Chiudere gli enti inutili e spreconi della diocesi a cominciare dal centro giovanile, mai veramente reso agibile, per seguire poi con il seminario diocesano (un immenso stabile per 7 bambini e tre preti tolti alla pastorale) e per finire con la scuola paritaria, macchiatasi di crimini che gridano vendetta al cospetto di Dio. Chiudere pure l’ISSR Giovanni Paolo II, altro ente inutile, ridotto a fucina di professorini di religione (500 in dieci anni), e velleitario centro propulsore di cultura religiosa, che la diocesi tamburriniana ha sempre seguito con il detto romano “gliene può fregar de meno”. 9. Rispedire al mittente i neocolonizzatori preti, sia essi neri, bianchi nordici, o gialli, attirati, dicono i maligni, da un otto per mille, sogno nelle loro terre d’origine, e comoda realtà in questa che proprio non gli appartiene. Curare di più il clero locale, a cominciare dai preti giovani, da non infognare immediatamente in parrocchie (a due e tre dove a servizio dei famosi vicari ciondolari) e offrire loro il maggior numero di esperienza pastorali e culturali, così un domani da poter scegliere per vocazione e non per forza o peggio per i soliti interessi sistematori. Curare, ancora di più, il clero anziano sempre più numeroso. A cominciare dal nostro giapponese don Tonino, per il quale al posto della solidarietà dopo l’ultima aggressione l’apparato tamburriniano ha sibilato un “ben gli sta, in fondo se l’è proprio cercata”. 10. Ridisegnare l’organico di una diocesi che si va sgretolando ogni giorno di più. Cancellare le unità pastorali (laddove le parrocchie andrebbero semplicemente chiuse) e le vicarie, ridotte a inutili passacarte e dispersione di forze. E da ultimo, dare impulso a una diocesi, che umilmente si metta in rete, che faccia rete, senza esserne il perno principale, per operare veramente in spirito di servizio e solidarietà per gli ultimi del vangelo (sempre loro) e con tutte le altre realtà religiose (in barba ad un ecumenismo di facciata). Ma una domanda a Pelvi sta sopra tutte le altre: “sei tu quello che deve venire, o dobbiamo aspettarne un altro?”. 


2. UN GRANDE GIORNO QUESTO 13 DICEMBRE 2014
Oggi è la giornata che vale una vita. Già lo stemma è stato posto all’ingresso dell’episcopio. Uno scudo rosso, con la scritta, che non è gesuitica ma figlia del concilio di Trento JHS e il sottoscudo bianco con l’acronimo di Maria e la scritta “ecce mater tua”. Un altro stemma a sfondo mariano, per quanto valgono questi stemmi per noi di memoria borbonica (Pelvi viene da Napoli). Alle ore 16,30 sul sagrato della cattedrale, l’amministratore apostolico, mons. Tamburrino, e il sindaco di Foggia Landella, faranno il loro saluto d’accoglienza, alla sola presenza dei canonici in pompa magna (il resto del clero concelebrante deve aspettare in chiesa, penso per una questione di ordine pubblico, o forse dettato da un rigido, troppo rigido, protocollo). Poi Vescovo, preceduto dai canonici e seguito dai laici, entrerà in chiesa per la celebrazione eucaristica. Ma non subito, prima nell’aula capitolare, per drapparsi come si deve, e quindi nuovamente in chiesa per l’inizio della messa. Gran cerimoniere un prete polacco, dal nome impronunciabile e dall’italiano stentato, darà i comandi giusti al momento giusto (al personale "contattato precedentemente"). Tutto è stato ingessato fin dal primo momento, nessuna spontaneità, nessun gesto extra-liturgico. Persino l’applauso in chiesa, all’arrivo del nuovo presule, sarà castrato, pare espressamente proibito, tanto per tornare al permesso e al proibito del più classico dei rubricismi, tardo liturgici tridentini. Tutti si è in attesa di quello che dirà Mons. Pelvi all'omelia. Si spera che almeno lui rompa questo rigido cerimoniale d‘altri tempi che non ci appartiene, e non faccia il solito discorso di circostanza. Il DNA di questo vescovo sembra un po’ diverso da quello di Tamburrino e non è detto che non escano sorprese, così da far capire da subito, se e come è cambiato il vento. Staremo a vedere. Si spera che almeno alla fine della messa i presbiteri intruppati nelle due cappelle laterali della cattedrale, da non potersi muovere neppure per la comunione, che verrà "servita" sul posto, e anche i laici (speriamo che a loro venga concesso almeno questo) si potranno avvicinare al neo vescovo, per un “umano troppo umano” scambio di pace. E poi? Il vescovo si ritirerà nelle neoimbiancate stanze (tre mila metri quadri di appartamento, affrescati di corsa, visto che Tamburrino solo due giorni fa ha deciso di lasciar libere le stanze dell’episcopio), a ragionare, tra sé e sé, cosa vorrà fare veramente da grande. Le attese come si può leggere nei dieci punti di cui sopra, sono davvero tante. E ci si è voluti fermare volutamente al pitagorico numero dieci, numero della perfezione matematica, ma le cose da fare e da cambiare sono molte, anzi molte di più. Capiremo molto presto, come discepoli, un po’ delusi e impazienti, del Battista, se “sei tu quello che deve venire o dobbiamo aspettarne un altro”.





Da l'Attacco del 12 dicembre 2014:

1. una metropolia che non c'è

2. una rete tra preti e laici della provincia che nessun prete vuole veramente..


1. Una metropolia che non c'è. Cinque diocesi che non fanno la diocesi di Bari-Bitonto
Prima di addentrarci nel tema di oggi occorre fare un po’ di sana suppositio terminorum, come dicevano i latini, ossia di sano vocabolario, visto i termini non proprio di uso corrente. Intanto la diocesi, non è un’invenzione del cristianesimo, ma era la normale suddivisione amministrativa dell’impero romano. Solo successivamente è venuta a determinare una “circoscrizione cristiana”, retta da un vescovo. Dice il concilio Vaticano II, “La diocesi è una porzione del popolo di Dio, affidata alle cure pastorali del vescovo, coadiuvato dai suoi presbiteri”. Un altro termine che dice e non dice, è metropolia: la provincia ecclesiastica costituita dall'unione di più diocesi, suffraganee, cioè dipendenti. Il vescovo di Foggia quindi è anche vescovo metropolita, con il suo bravo palio, una cocolla bianca consegnata direttamente dal papa . Il concilio si è guardato bene dal determinare con maggior chiarezza il rapporto tra diocesi e metropolia, per cui a tutt’oggi il titolo è più onorario che di effettivo potere. La Metropolia di Foggia comprende le diocesi di Lucera-Troia, Cerignola-Ascoli, Sansevero, Manfredonia-Vieste-San Giovanni Rotondo. Cinque diocesi, traballanti, che messe assieme (700mila abitanti) non raggiungono neanche l’intera diocesi di Bari. Fossero solo questi i problemi, forse non ci sarebbe di che lamentarsi. Un’anomalia tutta italiana sono invece le regioni ecclesiastiche, un insieme di diocesi e metropolie, rigorosamente coincidenti con le regioni amministrative, tanto per continuare il pandan con l’antico impero romano. Poi al di sopra, si fa per dire, di tutto c’è la Conferenza Episcopale Italiana. E qui nasce il problema per le piccole diocesi. Basta di nuovo scorrere l’organico della diocesi di Foggia (una delle più grandi della capitanata) per capire dove sta il problema. Vicario Generale, il primo aiutante del vescovo. Attualmente mons. Filippo Tardio. Incarichi: delegato per il diaconato permanente, delegato per la formazione del clero, canonico del Capitolo cattedrale, assistente centrale dell’Azione Cattolica, e da settembre anche parroco a san Giuseppe Artigiano. Mons. Saverio Trotta, vicario episcopale, parroco a s. Pietro Apostolo, Delegato per la pastorale d’ambiente, Delegato per le aggregazioni ecclesiali, delegato per le confraternite, Esorcista ufficiale della diocesi, assistente del Movimento di Comuione e Liberazione; mons. Vincenzo Identi, parroco di Spirito Santo, Delegato per il settore Evangelizzazione, Direttore ufficio catechistico, membro dell’ufficio catechistico regionale; Mons. Antonio Sacco, parroco di san Filippo Neri, Delegato per il settore liturgia, Direttore dell’ufficio liturgico. E per fermarci solo al gota della diocesi di Foggia-Bovino, senza scendere a livello di vicaria e altri incarichi annessi e connessi. Ecco cosa ha fatto la CEI, ha moltiplicato gli enti “necessari”, chiamate a livello centrale “commissioni” e che ogni diocesi, volente o nolente deve averne un corrispettivo locale: per la Dottrina della Fede, l'Annuncio e la Catechesi, per la Liturgia, per il Servizio della Carità e la Salute, per il Clero e la Vita Consacrata, per il Laicato, per la Famiglia e la Vita, per l'Evangelizzazione dei Popoli e la Cooperazione tra le Chiese, per l'Ecumenismo e il Dialogo, per l'Educazione Cattolica, la Scuola e l'Università, per i Problemi Sociali e il Lavoro, la Giustizia e la Pace, per la Cultura e le Comunicazioni Sociali, per le Migrazioni. E chiaro che così una diocesi grande come Foggia, ma in ogni caso piccola con i suoi trenta sacerdoti attivi, e settantacinque attorno all’età della pensione, non può che arrancare. Unificare le diocesi su alcune di queste “commissioni” CEI? E qui scatta il campanilismo e vecchie ruggini e vecchi rancori. Quando furono accorpate le prime diocesi, ad esempio Foggia-Troia, quelli di Troia fecero carte false, o forse fu lo stesso mons. De Giorgi, che se ne vole in qualche maniera liberare, visto che prima erano unite nella sua persona, per restare da sole (con l’attuale diocesi di Lucera non raggiungono i cinquantotto preti, di cui il solito settanta per centro, oltre il sessantacinque anni). Così è andata la storia. E’ da un po che se ne parla: un’altra minaccia è all’orizzonte, altri accorpamenti in vista. Anche cinque diocesi in provincia di Foggia sono ancora troppe, le si vuole ridurre a tre, se non a due. Apriti cielo. I più smaliziati dicono che non se ne farà nulla, ma Troia dovrebbe tornare con Foggia, Lucera unirsi a san Severo, e Manfredonia-Vieste a Cerignola-Ascoli. Sarà un compito affidato al metropolita. Cioè le prime grane per mons. Pelvi, manco attoppa in questa diocesi già allo sbraco di suo, con preti sovraccarichi d’impegni, che fanno male non solo per manifesta incapacità organizzativa, ma anche per tempo, che se si accorperanno le diocesi, sarà sempre meno. Con un quadro così c’è poco da stare allegri. Le troppe commissioni della CEI pesano come un macigno sulle piccole diocesi come le nostre. Milano ci va alla grande, con i suoi due milioni di abitanti e un territorio un altro poco grande quanto metà Lombardia, forse le cose vanno bene per Roma, Venezia, Bologna, Firenze, Genova, il cui territorio, metro quadro in più metro quadro in meno, copre quasi l’intera nostra provincia. Ma per le nostre vecchie e cadenti diocesi non c’è scampo. O l’accorpamento o la morte, o l’incartapecorimento: tutta apparenza e poca sostanza.


2. Una rete che non c'è e non si è mai voluta comporre...
Nella metropolia di Foggia, ogni movimento dal basso per unire in qualche modo queste cinque diocesette, per aggregazione il clero, per attività comuni del mondo laicale sul territorio, anche solo per iniziative religiose di un certo spessore, legate ai santuari di San Michele sul Gargano o dell’Incoronata, sono state sistematicamente osteggiate, in primis dai vescovi e poi anche da buona parte del clero anziano, quando non considerate dannose per l’identità diocesana e la gloriosa storia di cui ogni diocesi (tutte più antiche di Foggia e alcune anche antichissime, IV-V secolo) se ne fa vanto. Ne sa qualcosa il povero don Tonino Intiso quando tentò una cosa del genere attorno agli anni ottanta: “Foggia non è il centro di niente e le diocesi stanno bene come stanno”, gli è stato risposto allora prima dai sacerdoti e poi dagli stessi vescovo. Ne ho avuto un saggio una decina di anni fa: si doveva fare un istituto superiore di scienze religiose, unendo le forze delle cinque diocesi, i più accessi oppositori furono quelli di San Severo: “possiamo mai svendere la nostra tradizione di quasi cinquantanni di questo tipo di scuola, per unirci a Foggia?”. Non sono passati neanche cinque o sei anni che quella scuoletta ha dovuto chiudere i battenti, per esaurimento studenti. Grande segno di lungirimanza. Fra non molto toccherà allo stesso ISSR di Foggia, partito per grandi progetti anche di un certo peso per l’intera metropolia e ridottosi, per miopia dei vescovi non solo pugliesi ma dell’intera CEI, a scuola, pomposamente definita università, finalizzata alla preparazione di professorini di religione. Ne abbiamo prodotti più di 500 in dieci anni di questi professori, altamente specializzati, e si è no un centinaio dei primi anni è riuscito finalmente a trovare un posticino, dopo anni di supplenza e continui incontri preparatori, per alcune cattedre di religione, persino monche. Così vanno le cose in Italia e peggio nel nostro territorio, che non vive di vita propria ma aspetta qualche magica soluzione che viene dall’alto, segnata da una miopia che sconcerta. Una cosa assieme fanno i preti di Capitanata. Ogni anno nel mese di maggio si ritrovano per un ritiro al santuario dell’Incoronata. Quest’anno, per dimenticanza due diocesi e due vescovi sono venuti meno (su cinque diocesi): uno aveva organizzato in contemporanea lo stesso ritiro per il clero locale, invitando per giunta il vescovo di un’altra diocesi. Due piccioni con una fava. Niente rete, niente comunicazione, inesorabile avviarsi verso la vecchiaia, come i tanti paesini del subappennino che stanno letteralmente morendo nell’indifferenza generale di una provincia che già faceva poco quando era frutto di elezioni, meno farà adesso che proprio non conta nulla e non ha neppure gli occhi per piangere. Tutto sconforto? Tutto decadenza? Forse sì e forse no. Anche qui chi ci salva sono alcuni ordini religiosi che in sordina si danno da fare, superano barriere diocesane e parrocchiali e aggregano gente per il servizio. Penso agli Scalabriniani, che operano tra Manfredonia e san Severo, penso all’immancabile Emmaus, mai presa in seria considerazione dalla diocesi di Foggia, ma con una risonanza addirittura nazionale. Forse hanno ragione loro, più che piangere su situazioni di degrado inarrestabile, come tante formiche si danno da fare. Onore al merito.





_______________________________

Da l'Attacco dell'11 dicembre 2014:
non tutto è nero quello che non luccica....
a Foggia c'è un laicato (laico) che pulsa solidarietà a 360 gradi

1. IL LAICATO CHE PULSA DI VITA
Mi hanno rimproverato di essere stato troppo tranciante negli articoli su preti, suore e laicato cattolico a Foggia: “Ci fai apparire come una realtà del terzo mondo”, hanno commentato sulle pagine di facebook. “Perché non lo siamo?”, è stata la mia risposta. Uno scrive ciò che vede, altrimenti non legge l’Attacco, si addicrea con “Nuovo Voce di Popolo”, bello, patinato, autocelebrativo, ma insulso fino alla noia. Diceva un santo vescovo che nella chiesa (e anche fuori) ognuno si droga come vuole. Tutto il diritto, quindi, di farlo e anche tutto il diritto di criticarlo. Il fatto è che se vogliamo trovare qualcosa di nuovo e di serio, bisogna, (purtroppo dico io), distogliere lo sguardo da una chiesa allo sbando e guardare altrove. E’ stata una piacevole sorpresa scoprire che a Foggia città, quindi senza contare il territorio diocesano, che comprende l’ex Diocesi di Bovino e san Marco, e neppure la provincia, ci sono ben 426 associazioni di volontariato. In provincia superano le duemila e forse più. Già. Il volontariato, quello spontaneo, nato dalla legge-quadro 266/91, senza fini di lucro, messo su da gente che non si rassegna allo status quo, e che come il Samaritano del vangelo, non dice di fronte allo sfacelo della nostra società occidentale, “e che è colpa mia?”, per poi lavarsene le mani, ma si rimbocca le maniche e si dà da fare. Solo una minima parte, e qui riprendono le critiche alla chiesa di Foggia, è collegato a strutture religiose. La stragrande maggioranza è fatta da laici, non di imbianchini “maestri di cerimonie” ma di laici veri, pronti per un benevolo giudizio universale, perché hanno visto sulla via di Emmaus un povero malconcio e l’hanno aiutato, e non solo con la preghiera. Per farsene un’idea basta scorrere la pagine di  www.cesevoca.it, il Centro di Servizi per il Volontariato di Capitanata, nato per “far crescere la cultura del volontariato e sostenerne gli sforzi”. Il sito è organizzato, con puntigliosa serietà, in sei sezioni: Onlus, Cooperative sociali, Associazioni di Promozione sociale, Fondazioni, Associazioni di volontariato, Altre associazioni. Ogni giorno il numero delle associazioni aumenta: difficile è stargli dietro. Si vorrebbe dare maggiore visibilità dalle pagine di questo giornale, se non si avesse paura di annoiare il lettore, che può da solo visitarne il sito. Il segnale è forte e potente.Centinaia se non migliaia di persone, che si danno da fare nel sociale, ancor prima degli imput di papa Francesco: gente che forse è uscita dalle nostre asfittiche chiese, e in alcuni casi non ci è neanche mai entrata, per inseguire una solidarietà umana, che non se non illude con un premio finale, certamente appaga e tanto chi la mette in pratica. Sono movimenti è che non “hanno padroni” né ne vogliono, non si fregiano di “appartenenze”, né religiose, né politiche. Movimenti spontanei, a malapena inquadrati dalla legge di cui sopra, con strutture semplici, immediatamente operative e concretamente orientate a un’azione che tocca l’universo della sofferenza di questo nostro tempo: dai disabili agli immigrati, dalla cultura all’educazione dei minori a rischio, dal ricupero dei tossicodipendenti all’inserimento sociale di ex carcerati, dall’assistenza ospedaliera a quella domiciliare, dalla raccolta di cibo, indumenti e quant’altro alla distribuzione casa per casa. Un formicaio, o meglio un alveare di api operaie sempre in movimento, in un andirivieni d’iniziative che impressiona. Difficile è persino assemblarli organizzarli attorno a tematiche comuni. Scopo non è “raccogliere fondi”, “gestire economie”, “far muovere capitali”. Pur di apparire in un certo senso naive, se non romantici della solidarietà, corrono il rischio di vivere in un’endemica mancanza di fondi, ma non demordono dall’impresa. Non si contano i giovani che riescono a coinvolgere, e non solo e sempre giovani. Si apre il cuore sfogliando le pagine del Ce.Se.Vo.Ca. In controtendenza a una politica arruffona e delapidatoria della nostra città e a una chiesa ferma a guardarsi l’ombelico. C’è vita in questi movimenti, c’è solidarietà, c’è impegno sociale concreto e fattivo. C’è speranza. Se solo si desse loro più credito e spazio, forse quella scomodissima terzultima posizione nella graduatoria nazionale, sarebbe solo un lontano ricordo. Sarà capace mons. Pelvi di guardare a questa realtà? O anche lui, remi in barca, per il suo ultimo mandato (gli mancano solo 9 anni al fatidico settantacinquesimo genetliaco), tirerà a campare? Sarebbe già tanto se non perpetrasse i danni del suo predecessore. Benvenuto mons. Pelvi, non è tutto nero-notte quello che non luccica in questa città. 


2. EMMAUS UN FARO PER LA NOSTRA CITTA'....NON PROPRIO PER LA NOSTRA DIOCESI


Don Michele de Paolis da poche settimane ci ha lasciato. Ma le sue opere (Emmaus, Centro giovanile, Villaggio don Bosco) restano. Una realtà locale (mai pienamente compresa dalla chiesa di Foggia-Bovino) che ha anticipato i tempi di papa Francesco. E’ uscita dalla chiesa, senza rinnegarla, e ha guardato dove il vangelo dice di guardare: verso i poveri, gli emarginati di sempre, i senza voce, per andare in loro soccorso. “Sulla strada di Emmaus”, questa è l’intuizione dei suoi fondatori, con l’immagine fissa al buon Samaritano e ancor più legati all’esperienza dei discepoli che sconsolati lasciano Gerusalemme e si incamminano sulla strada per Emmaus, e ai quali Gesù stesso si affianca, senza farsi conoscere, per far capire lor meglio il suo messaggio. “Emmaus nasce nel 1978”, leggo dal sito Emmausfoggia.org, “nella splendida stagione post-conciliare, da una significativa esperienza di Chiesa fatta nello spirito di don Bosco nella parrocchia Sacro Cuore, in un quartiere degradato della periferia di Foggia. Un gruppo di giovani insieme a don Michele Mongiello fonda la prima cooperativa agricola e si trasferisce in una casa cantoniera a 25 chilometri da Foggia concessa dall’Ente Provincia in zona Santa Tecchia (Comune di Manfredonia). Le radici di questo percorso si ritrovano nella “Piccola Comunità” di sacerdoti salesiani composta da don Michele Mongiello, don Nicola Palmisano e don Michele De Paolis. Questa “nuova presenza salesiana ” è nata come “missione” decisa e avviata dall’Assemblea dell’ Ispettoria Meridionale Salesiana del 1972. Da queste basi matura una nuova consapevolezza. La possibilità per giovani e famiglie di aderire a una comunità per vivere in piena condivisione gli ideali evangelici. I valori fondanti sono, oggi come allora: - pregare insieme, lavorare insieme. Condividere la vita e accogliere chi è nel bisogno. Da allora la comunità Emmaus accoglie giovani in difficoltà offrendo loro un’esperienza di vita alternativa, fondata sui valori della nonviolenza, della solidarietà, della semplicità evangelica, valori che vengono vissuti concretamente dalla comunità di vita e dai tanti volontari che collaborano nel territorio foggiano. Diventa così punto di riferimento di tutta la città per le caratteristiche di “accoglienza” incondizionata nella semplicità per la promozione di una cultura e prassi di liberazione, all’insegna della “nonviolenza evangelica”, ispirata all’opera di don Bosco e di don Milani. Nel 1982 essendo ormai inadeguata la vecchia casa cantoniera della prima sede, si chiese ed ottenne, in comodato gratuito dalla Fondazione Siniscalco Ceci di Foggia, un terreno di circa trenta ettari, sito in Via Manfredonia, km 8, località Torre Guiducci.”. Diventa così punto di riferimento di tutta la città per le caratteristiche di “accoglienza” incondizionata nella semplicità per la promozione di una cultura e prassi di liberazione, all’insegna della “nonviolenza evangelica”, ispirata all’opera di don Milani.


Ce.Se.Vo.Ca. - Centro Servizi per il Volontariato di Capitanata.
CESEVOCA.IT



____________________________

DA L'ATTACCO DEL 10 DICEMBRE 2014: 

NON CI SONO PIU' I LAICI DI UNA VOLTA


1. NON CI SONO PIU' I LAICI DI UNA VOLTA

Capitolo 2: i laici della diocesi di Foggia-Bovino. Quando penso ai laici di questa diocesi la mente corre a quelli di una volta, formati uno ad uno da mons. Farina e attivi fino ai tempi di mons. Lenotti. Penso ai giudici Magrone e Vaccaro, al sindaco Forcella, al prof. G. Normanno che assieme a T. Coppola, furono i primi a Foggia, tra mille finti scandali, a schierarsi apertamente contro il clientelismo e il malaffare della DC locale e votare a sinistra, a G. Matrella e al suo periodico Il Risveglio, unico forum all’epoca per dibatti d’avanguardia cristiana, ai tanti laici formatisi alla scuola di don Teodoro Sannella e don Donato Coco, don Tonino Intiso, don Mario Marchese, e don Michele De Paolis. Preti come giganti e laici davanti ai quali togliersi il cappello. Il confronto con gli attuali è decisamente in perdenza per questi ultimi. Morti o invecchiati i formatori d’un tempo, che si imponevano per personalità, cultura e spiritualità, i successori, parlo in particolare di preti non necessariamente gli ultimi pivellini, non sono stati all’altezza o semplicemente non ce ne sono stati proprio. Allora la domanda si fa attuale e impellente: “chi sono e soprattutto dove stanno i laici cattolici?”. Da nessuna parte. Li troviamo troppo spesso appiattiti su un sistema parrocchia, chiusa e autoreferenziale, in associazioncine di basso profilo, attive spesso solo nel proporre anche per la società un andamento religioso, per giunta datato e devozionistico, anche lui. Quando la chiesa si apre e si lancia nel sociale lo fa “aprendo le porte”, e invitando la gente ad “entrare se non proprio in chiesa, almeno in oratorio o a partecipare alle tante manifestazioni da piccolo mondo antico, che pur si ripropongono sempre uguali”. Non si “esce dalla chiesa” come chiede da tempo papa Francesco, in chiesa si resta, e si aspetta che la gente si decida ad entrare. Diciamo nella migliore impostazione: “è una pastorale dell’accoglienza”, che sarebbe pur qualcosa, se non fosse pelosa e con secondi fini ben nascosti. Quella generazione di laici cattolici tutti d’un pezzo pienamente inseriti, e senza vergogna, nel tessuto sociale, non è proprio sparita del tutto, ma vive piuttosto isolata: ci sono i medici cattolici con il loro servizio di volontariato e i corsi di Bioetica, con il dott. G. Cela e T. Scopelliti, sempre in prima fila. C’è ancora il Meic, del pensionato prof. Coppola. E la cosa finisce qua. Poi c’è sempre l’Azione cattolica, che a causa di un mal compresa scelta di fede, si è andata sempre più chiudendo al sociale e al politico. E queste sono ancora le migliori espressioni. Ma gli altri che fanno? Fanno gli eterni “incubati” in una formazione senza fine, come neocatecumenali, ciellini, carismatici, ecc. Per questo loro sentirsi sempre in formazione e il rinviare a data da destinarsi (semmai uscendo dagli organici associativi) ogni impegno sul territorio (per quando saranno preparati), vivono in perenne attesa di “ un qualcosa che un bel dì verrà”. Manco fossero tanti pasualini o’ maraja. Nelle nostre parrocchie troppo spesso i laici, vivono di piccolo cabotaggio, rigorosamente all’ombra dei campanili o comunità dal sapore cripto religiose, eterodiretti da “catechisti e presbiteri”, onnipresenti e onnipotenti. I neocatecumeni preferiscono i sottochiesa, da qui lo sfottò di essere diventati “neo-catecombali”. Laici rannicchiati nelle loro piccole comunità in continua crisi d’identica, il cui impegno nel mondo è rinviato a data da destinarsi (sempre a giudizio di catechisti e presbiteri). Sono i laici in incubatrice, con le mani pulite, perché in fondo tolta qualche decima e qualche lodevole iniziativa caritativa, aspettano un segnale per l’azione che chissà quando verrà dato. La parrocchie soffrono della sindrome delle novantanove pecorelle che non hanno bisogno di aiuto e di protezione, e lasciano sempre fuori quella che si è smarrita, “aspettando che ritorni”, “più che andarla a cercare” come dice il vangelo. Un’altra attività, nel frattempo, tiene occupati i laici cristiani, divenuti nel frattempo ”maestri delle cerimonie”: un stuolo di imbianchini (famosi per la loro presenza sul presbiterio in rigorosa alba bianca) pronti per nessun altro tipo di servizio che non sia quello liturgico: ministranti, i vecchi chierichetti (oggi allargato anche alle femminucce), lettori d’ogni sesso, e accoliti e diaconi, di rigoroso sesso maschile, fanno bella mostra di sé non solo nelle celebrazioni episcopali, ma anche in quelle feriali di tutte le parrocchie. Non è così dappertutto. In alcune parrocchie l’invito di papa Francesco, ad uscire è stato accolto e bene. Ma sono rara avis, laici guardati sempre con un certo sospetto dal resto della comunità, quasi che il loro impegno, sempre nel tempo libero e da volontariato puro, togliesse tempo alle preghiere. Il detto di sant’Agostino è una manna e una mannaia al tempo stesso: “chi prega si salva, chi non prega si danna”. Peccato che il vangelo dice che la salvezza avviene solo ed esclusivamente attraverso il servizio della carità, per un Cristo neanche conosciuto o riconosciuto. Ma come sempre nella chiesa c’è chi legge un altro vangelo. 


2. ANCHE LE SUORE NON SO PIU' QUELLE DI UNA VOLTA....E MENO MALE

Lo stereotipo della “suora” nella chiesa cattolica è così forte, che se poco poco si tenta di forzarlo, le povere “suore ribelli”, vengono sommerse da ogni tipo di critica. Gli istituti femminili, tra suore e monache, sono in tutto 23. Per la stragrande maggioranza dedite all’insegnamento. Spesso o quasi esclusivamente tese a formare ed educare “le novantanove pecorelle” rimaste all’ovile, che non hanno bisogno di aiuto. In fondo a questo si dedicano, anche con lodevole impegno, educare, meglio formare attraverso la scuola, dei bravi cristiani, e bravi cittadini. Pur sempre “curare le novantanove pecorelle che nell’ovile ci stanno alla grande e voglia di mettersi al servizio delle pecorelle smarrite, neanche per sogno. Vengono spesso tenuti a debita distanza, manco fossero mele marce, i bambini indisciplinati, scorretti, sbandati, smarriti in una realtà che fa di tutto per emarginarli. Ho provato a fare questa domanda alle suore che ogni mattino mi sopportano per la santa messa quotidiana. Mi hanno guardato come un extraterrestre. Qualcuna delle più vivaci ha anche detto: “ma noi non facciamo solo scuola ai figli dei ricchi”, abbiamo pure qualcuno che non può pagare, poi abbiamo un sacco di missioni, e usciamo molto più di prima per dare una mano alla pastorale parrocchiale. Avranno anche ragione. Ho fatto solo notare che non è che si fa un passo avanti, quando si esce da una gabbia dorata (il convento) e si entra in un’altra gabbia dorata (la parrocchia con le sue associazioni e attività tutte interne). Bella la vita consacrata, una vita tutta centrata sulla sequela Christi. Bella la vita di comunità, con quel tanto di sofferenza dello “stretto gomito”, che un domani verrà premiata col paradiso. Bella anche l’attività di educazione dei ragazzi (anche dalla materna alle scuole elementari). Bella anche l’attenzione ai ragazzi sordomuti, come per le suore dello Smaldone. Ma non c’è una sola comunità di suore in mezzo alla gente. Anni fa c’erano, ma ce le siamo fatte scappare, erano le Suore Bianche missionarie e le Piccole Sorelle di Charles De Foucault. Dedicavano la vita alle pecorelle smarrite della casa di Dio. La scarsa attenzione, l’arido terreno di coltura, le inaridite. Altri vescovi, altri pastori, altra pastorale le hanno fatte sentire inutili (“a che ci servono queste suore?, si domandavano tanti preti) e loro se ne sono andate. E non se ne è accorto proprio nessuno. In compenso, è notizia di questi giorni, è arrivata un’altra congregazione di suore, le “Pastorelle” di non so cosa, dedite alla cura dei parroci e all’attività catechistica e di animazione parrocchiale. Ne sentivamo la mancanza. Caro mons. Pelvi, anche questa è la chiesa di Foggia-Bovino. Sei ancora così intenzionato a fare il tuo ingresso il 13 dicembre?





_________________________________________

DA L'ATTACCO DEL 9 DICEMBRE 2014

LA SETTIMANA CLOU: 

0. COME SBELLICARSI DALLE RISA IN ATTESA DEL NUOVO PRESULE: POLACCHI ALLO SBARAGLIO



I PRETI ALLE GRANDI MANOVRE...
LA LETTERA PER I SACERDOTI IN VISTA DELL'INGRESSO DEL NUOVO VESCOVO MONS. PELVI 
A ME HA FATTO SBELLICARE DALLE RISA....
TROPPO FORTE SIA PER I CONTENUTI DA GRANDE PARATA
FORSE IN ONORE DI MONS. PELVI EX ORDINARIO MILITARE
E UN PO' PER L'ITALIANO APPROSSIMATIVO
COGLIAMO FIOR DA FIORE:
1. I PRETI che vogliono concelebrare possono accedere "soltanto" attraverso l'ingresso laterale della chiesa da piazza Pericle Felici...(guai se si azzardano ad accedere da via campanile, o da piazza cattedrale, o direttamente dalla chiesa (ancora si sporca l'aula liturgica)
2. E prima delle 15,45. (la funzione inizia alle 16,30)...per indossare i paramenti (viola) presso le aule del catechismo (?) CIOE' DOVE? 
3. QUINDI DOVRANNO "disposrsi" (dove nelle aule del catechismo o in chiesa) nei posti preparati e indicati dal servizio d'ordine (ci portano incolonnati o ci andiamo da soli?) 
4. INSOMMA L'AMMINISTRATORE EPISCOPALE E IL SINDACO DI FOGGIA FANNO IL SALUTO AL NUOVO VESCOVO, SUL SAGRATO DELLA CHIESA, IN ASSENZA DEI PRETI, CHE COME SCOLARETTI DEVONO ASPETTARE IN CLASSE IL MAESTRINO CHE ENTRA....
(ci sarà permesso battere le mani?....
e il cerimoniale che dice al riguardo? ) 
4. 100 PRETI DOVRANNO STARE TUTTI nella Cappella del Santissimo e del Crocifisso
(che si e no possono contentere una ventina di persone....) 
5. E ZITTI E BUONI, guai a muoversi di là (voglio vedere chi si muove nei pochi metri messi a disposizione)...
6. perché "Lì (ma che razza d'italiano?) anche si accostano alla santa Comunione portata al momento opportuno dal servizio liturgico"
(da "il pranzo è servito a tavola", "assicurato dai seminaristi teologi e dalle persone precedentemente contattate")
7. Tutti gli altri sacerdoti non concelebranti, religiosi e suore, dovranno trovarsi in chiesa (con l'abito corale (cioè?), cotta e stola o basta il clergiman, e qual è l'abito corale delle suore?
8. I laici che non entrano nella cattedrale, troveranno posto nella Chiesa dell'Annunziata e nella Cripta potranno seguire tutto attraverso maxischermi (manco fossimo alla partita del Foggia 
9. e perla finale "Ai luoghi della loro partecipazione verrà portata la Santa Comunione". 
"Ai luoghi" Ma come parli? 
O TEMPORA O MORES...
UNA PREGHIERA A MONS. PELVI,
PER FAVORE,
VIENI, VIENI, VIENI
COME IL BAMBINELLO GESU'....
A LIBERARCI DA TANTA SUPPONENZA, SACCENTERIA, E STUPIDITA'
O CI TOCCHERA' ANCORA UNA VOLTA EMIGRARE? ..



_________________________

1. ADDIO TAMBURRINO BENVENUTO PELVI

Inizia la settimana clou, quella degli struggenti addii, al vecchio vescovo, che come l’anno in corso se ne va, e dei festanti benvenuto al nuovo, che viene: tutto in una questa fatidica settimana. Cosa lascia il vecchio e cosa trova il nuovo: è quello che andiamo a raccontare. Capitolo 1: i preti. Anche solo scorrendo l’annuario diocesano che puntualmente la “Guida liturgico pastorale” ci propina ogni anno, sempre uguale anche nel prezzo, non c’è da stare molto allegri. Cominciamo con i numeri assoluti. Nella Diocesi di Foggia-Bovino (duecentomila abitanti) non riusciamo a raggiungere i cento preti: uno ogni ventimila abitanti. Un rapporto quasi nazionale, se si eccettua la diocesi di Bergamo che da sempre è la fabbrica di preti più prolifica d’Italia (là il rapporto è un prete ogni cinquemila abitanti). Le sorprese non finiscono qui. Quando ero giovane seminarista ci additavano l’esempio della chiesa olandese, quella famosa del primo ed unico catechismo veramente moderno della storia post conciliare, che aveva l’ottanta per cento di preti oltre i sessant’anni, e si sentenziava, con molta approssimazione, che di lì a poco avrebbe chiuso i battenti. E così è stato. Si diceva, da noi non capiterà così: i nostri seminari sono ancora stracolmi (noi eravamo trecento seminaristi di scuola media e ginnasio). Mai la crisi olandese ci avrebbe sfiorato. Sono bastati trent’anni che quei numeri olandesi, manco fossero una profezia, sono diventati inesorabilmente i nostri numeri. I preti diocesani a Foggia sono solo ottantacinque, ai quali vanno aggiunti una ventina di preti religiosi e quindi il numero complessivo ci si aggira sui cento, uno in più uno in meno, per un totale di cinquantasette parrocchie, escludendo rettorie e cappellanie di suore e conventi vari. Uno potrebbe dire, “ce ne sono sempre troppi: due preti per parrocchia”. Ma così non è, se poco si va a vedere l’età media di questi preti foggiani. Ebbene più del settanta per cento si avvia decisamente verso la pensione, è cioè veleggia allegramente dai sessant’anni in su. Il che vuol dire che nel giro di qualche anno la cifra totale, vista l’ordinazione di un novello sacerdote, massimo due l’anno, e non tutti gli anni, sarà decisamente più bassa. Mentre presumibilmente le parrocchie tenderanno ad aumentare di numero. A questo dato va aggiunto che i “sacerdoti attivi”, cioè quelli che bene o male sono inseriti in strutture parrocchiali sono solo quarantasei quelle diocesane. Quindi più della metà dei preti non opera in strutture parrocchiali (e non sempre sono quelli over sessanta). Cosa fare? Ecco il colpo di genio, messo su soprattutto da mons. Tamburrino e i suoi sagaci collaboratori: unità pastorali e preti da altri paesi. Primo ridurre drasticamente il numero delle parrocchie, specie nel centro storico di Foggia, di San Marco in Lamis e di Bovino e qualche altro paesino del subappennino dauno. Al loro posto le cosiddette “unità pastorali”: una sola parrocchia, che ne raccoglie tre o quattro, un solo parroco e tanti co-parroci. Cambiano gli addendi ma il prodotto non cambia, per quanto riguarda il numero dei sacerdoti impegnati e la stessa titolarità giuridica delle parrocchie, che restano tali, per matrimoni, battesimi e sacramenti vari. Insomma manovrine da fine impero. I sacerdoti sempre pochi restano. Ancora che fare? Dare più spazio ai laici, ai diaconi? Manco per sogno, nell’imperante clericalismo s’importano sacerdoti dalla Polonia (altra fabbrica di preti più prolifica di quella bergamasca) e dall’Africa e dal Sudamerica, Ecuador e ultimamente anche Messico. All’ultima celebrazione del giovedì santo, mi sono guardato attorno tra neri-neri, neri-abbronzati e bianchi nordici, mi pareva di essere finito in uno di quei congressi internazionali romani. E’ una nemesi storica: una volta erano i preti italiani che andavano a colonizzare i paesi del cosiddetto terzo mondo (ne sanno qualcosa in India e in Cina, paesi nei quali la reazione verso l’occidente, grazie anche a un cristianesimo, spesso rozzo e invadente, è sempre stata piuttosto risentita). Ora ci stanno ripagando con la stessa moneta: perché sempre di colonizzazione si tratta. La cultura locale, le tradizioni cristiane di un dato territorio, non sono un dato secondario nel discorso religioso, almeno che non si voglia intendere la religione cattolica come ideologia o come impero: un cristianesimo (romano) identico sotto tutti i cieli. Il danno di questa astratta teorizzazione è sotto gli occhi di tutti: riti e prediche che lasciano il tempo che trovano, e territorio che non si lascia più neanche scalfire. Lo si vede, anche, da come viene conservata la memoria storica, non dico quella della parrocchia, destinata ad essere devastata ad ogni tornata di parroci, ma soprattutto quella diocesana. Una parola, conclusiva, va spesa sulla cultura di questi ottantacinque preti diocesani. La quali totalità si è fermata agli studi seminariali: si e no buoni per fare ripetitivi parroci a vita. Qualcuno, sul palmo di una mano, ha lauree statali e tutti gli altri (su un totale di ventitre sacerdoti) hanno titoli accademici romani, di solito fermi alla licenza, e pochi, pochissimi con il dottorato teologico in tasca. Un quadro di certo poco confortante. Dicevano gli antichi: chi semina vento, raccoglie tempesta. Se per anni si è vissuti nella bambagia, è ovvio che il risveglio, sempre ammesso che ci si voglia veramente risvegliare, non può che essere tragico. Coraggio mons. Pelvi: ne avrai di gatte da pelare.


articolo n. 2

DOVE E' FINITA LA BARCA DIOCESANA?


Dove va la pastorale di questa diocesi? Cosa troverà Pelvi al suo ingresso sabato prossimo? Agli albori del mio sacerdozio scrissi un articolo che fece andare su tutte le furie, non solo il vescovo ma l’intera diocesi. Il titolo era tutto un programma: “Dove va la barca diocesana?”. All’epoca, siamo agli inizi degli anni ’80, cercavo di analizzare che ricaduta avesse avuto il concilio Vaticano II nella diocesi di Foggia. Il giudizio era piuttosto negativo: fatto qualche ritocco, come chitarre e batterie ad animare stanche e ripetitive liturgie, la vera promozione del laicato era una chimera, il vero impegno socio-politico a servizio del territorio non erano mai divenute realtà. Insomma tutti erano d’accordo sulle mie analisi, si rimproverava d’averlo fatto così apertamente e poi dalle colonne di un settimanale, il mitico “Risveglio”. A più di trent’anni da quell’articolo mi ritrovo a chiedermi di nuovo ma che “fine ha fatto ha barca diocesana”? E il giudizio non sembra cambiato. Anzi è solo peggiorato. Ai tempi dei miei studi teologici di parlava di “apocalittici” e “integrati” o qualcosa del genere. I secondi erano quelli che vedevano catastrofi ad ogni cambiamento (era l’epoca dell’introduzione della lingua italiana nella liturgia), gli altri che si lamentavano che ogni cambiamento era sempre troppo poco rispetto a quello che si sarebbe dovuto operare, per un cristianesimo decisamente alla deriva rispetto a un mondo che correva di gran lena su altre prospettive. Qualcosa certo è cambiato, ma non si sa se in peggio o in meglio. Se prima si facevano novene, benedizioni eucaristiche ogni sera (visto che la messa, per il famoso digiuno eucaristico, si poteva solo dire di mattina), ora la messa devozionale ha dilagato in ogni ora del giorno, specie di domenica. Contro lo slogan “più messa e meno messe”, si dice che queste ultime sono state moltiplicate per venire incontro alle esigenze della popolazione: non è vero dicono i soliti maligni, semmai è vero “per fare più soldi di questua” (anche questo un mito da sfatare, visto i pochi centesimi che cadono fragorosamente nel cestino delle offerte). Al fianco delle messe non si è perso il vizio delle vecchie celebrazioni paraliturgiche, come si diceva un tempo: all’immancabile rosario, si sono moltiplicate le veglie, i ritiri parrocchiali (qualcuno parla anche di esercizi spirituali), e le adorazioni eucaristiche (una volta c’erano le quarantore, classiche, oggi le ore non si contano, e se notturna la veglia ha più sapore). Insomma si è ancora ancorati a una pastorale devozionale che non ha perso un solo colpo, si è solo trasformata. E la liturgia voluta dal Vaticano II, e la pastorale dell’”uscite dalle parrocchie” di papa Francesco? “Adelante Pedro con judicio”. Affrettarsi? Perché mai?




Articolo 3
3. ALL'ASSALTO DEL NOSTRO GIAPPONESE: DON TONINO ABBANDONATO AL SUO DESTINO DA UNA DIOCESI SENZA TIMONE E TIMONIERE

Che il quartiere Biccari, sia la “terra di mezzo”, cioè la terra di nessuno o il Farwest, era cosa risaputa, per una città, la nostra, terzultima nella classifica per qualità della vita, lavoro e sicurezza. Ma l’episodio accaduto l’altro ieri, venerdì sera, a don Tonino Intiso, il “giapponese” ex parroco di san Filippo Neri, arroccato in quello che era l’ufficio parrocchiale d’un tempo ha dell’incredibile. In tutti questi mesi, praticamente un anno, mons. Tamburrino, non è stato capace di trovare una soluzione, che pure il diritto canonico gli impone, come parroco “quiescente”. L’unica soluzione è il 10 di dicembre, lo sfratto tramite l’ufficiale giudiziario. Mentre Tamburrino, “quiescente di lusso”, con tre mila euro al mese di pensione (e nessuno sa quanti soldi messi da parte in questi 11 anni di vescovo a Foggia), può giocare tra due sontuosi appartamenti (un card. Bertone in piccolo), fatti abbinare apposta, nella nuova casa del clero (nella quale avrebbe dovuto pur pagare la pigione) e tre stanze nel seminario, quelle del fallimentare ex rettore, graziato con la nomina a parroco a san Marco, e per le quali non dovrà spendere una lira, pranzo e cena compresi…con i suoi “amati seminaristi”. Per don Tonino, il giapponese ostinato, non si sono trovate soluzioni adeguate, se non quella di dire “te ne devi andare, perché il proprietario la vuole indietro e noi non abbiamo soldi per il fitto”. Questi i precedenti dell’incredibile atto vandalico subito da don Tonino l’altra sera. Sono stato a trovarlo sabato mattina e l’ho visto armeggiare con una serratura d’altri tempi, che un solerte collaboratore aveva smontato, dopo l’aggressione, e nessuno dei due riusciva a rimontarla nel verso giusto. Il racconto è preso dalle vive e allarmate parole di don Tonino. Erano le 5-6 del pomeriggio all’imbrunire. Di solito a quell’ora non c’è molta gente in via Nedo Nadi, che un’illuminazione approssimativa, non ancora accesa a quell’ora, rende abbastanza buia. Una masnada di adolescenti in bicicletta, una decina, provenienti non si da dove, hanno prima spiato attraverso le due porte a vetri, per vedere cosa c’era dentro la casa, alla luce fioca di un abatjour. Dentro c’era il povero don Tonino, solo come da mesi ormai, intento a raccogliere il materiale della sua lunga storia pastorale e fotocopiare qualche pagina. Non si è neppure accorto di essere sotto osservazione e ha proseguito il suo lavoro come sempre. Ma i piccoli delinquenti devono aver visto e contemplato la scena per un assalto alla diligenza in gran concerto: c’era un computer, vecchio da preistoria, un televisore acceso, e un uomo anziano, per giunta solo. Uno sguardo d’intesa e via all’assalto, come tante iene addosso al bisonte, stanco e malconcio. Urlando e sbraitando hanno preso a calci e spallate le due porte di anticorodal, nel frattempo chiuse a chiave dall’interno, intimando a don Tonino di aprirle. Visto il rifiuto, hanno cominciato a spaccare prima la maniglia, poi la serratura della porta, e infine il vetro di sotto e stavano per entrare nella stanza, se non fossero stati bloccati dalla prontezza di spirito dell’anziano sacerdote (77 anni suonati) che è riuscito a far scendere le due saracinesche di metallo. Un grande spavento, una serratura e un vetro rotto e l’amarezza dei tempi brutti che viviamo. La gente del quartiere Biccari queste cose le sa, e a nulla sono valse le proteste e i richiami all’amministrazione comunale vecchia e nuova. Quasi ogni sera si vedono scorribande del genere: ragazzacci che corrono all’impazzata, schiamazzano per le stradette buie del quartiere, e che neppure la minaccia di chiamare la polizia (che tanto sanno benissimo che non verrà) riesce a frenarli. Poteva andare veramente male all’anziano sacerdote, se l’è cavata con un grande spavento e qualche danno materiale, che vista l’estrema povertà nella quale sopravvive, è pur un danno di un certo peso. L’amarezza nostra è di vedere due pensionati, figli della stessa chiesa, trattati così diversamente: c’è chi può e si prende la parte migliore, in appartamenti, alloggi, vitto gratis e c’è sempre chi se “la prende nel culo”, come nel più classico romanzo di Dickens. Così va il mondo, anche quello della chiesa. E come dice un detto antico foggiano: il cane morde sempre lo “strazzato”. Un augurio al giapponese: sopravvivi almeno fino al 13 dicembre, arrivo del nuovo vescovo, anche se il 10 scade l’ultimatum per le due stanze in via Nedo Nadi. Più di tanto non si è riusciti a fare, banda di delinquenti permettendo.