sabato 7 novembre 2015

L'OTTO PER MILLE E LE ALLEGRE GESTIONI DIOCESANE: L'ATTACCO DEL 7 NOVEMBRE 2015

LA CHIESA DELLE ALLEGRE FINANZE

L’avvio di questi spunti di riflessioni ci è dato dallo stesso papa Bergoglio. Qualche mese fa, o forse prima, avendo sentore che nella curia romana ci fosse una gestione economica piuttosto allegra e disinvolta, ha istituito una commissione per controllare entrate e uscite del bilancio vaticano. Una delle tante commissioni, diciamo periodiche, che ogni papa ha sempre posto in essere per verificare problemi e trovare soluzioni. Fin qui dunque nulla di straordinario o di “extravagante”. Il problema si complica quando alcuni filoni di questa inchiesta sfuggono al controllo degli stessi componenti della commissione, e grazie ai soliti corvi che in curia romana non sono mai mancati, tali documenti sono stati fatti trapelare (ad arte diciamo noi) e sono finiti in due libri, pubblicati proprio in questi giorni. Ed ecco lo scandalo, che poi scandalo, non è, come lo stesso papa ha tenuto a precisare, utilizzando un paragone ardito ma molto efficace: “sulle ferite va messo l’acqua ossigenata o il disinfettante, che sul momento può anche “soffriggere e far soffrire”, ma è quanto mai necessario, (“non abbiate paura del conflitto”), solo così si possono curare le ferite, altrimenti si rischia il peggio”. E’ in linea con quanto uscirà sul numero di sabato 7 novembre de La Civiltà Cattolica (un caso?) che riporta un discorso di José Mario Bergoglio, allora gesuita argentino, in un convegno di studi sui quattrocento anni di presenza gesuitica in Argentina. Un brano profetico? O piuttosto uno stile conservato coerente, fino ad oggi che quel Bergoglio è diventato papa Francesco? Ecco alcuni brani di quella prolusione: “Il coraggio ha un enorme nemico: la paura. Paura che, nei confronti degli estremismi di un segno o dell’altro può condurci al peggior estremismo che ci possa essere: “l’estremismo di centro”. “Innanzitutto, prosegue Bergoglio, la santità implica che non si abbia paura del conflitto; implica parresia, come dice san Paolo. Affrontare il conflitto non per restarvi impigliati, ma per superarlo senza eluderlo”. Fin qui papa Bergoglio. Anche a Foggia si ha da tempo sentore di una allegra gestione delle finanze locali, fin dai tempi di Casale, per la quale più volte è stata chiesta una commissione d’inchiesta, senza esito alcuno. In compenso, c’è stato qualche vicario generale che è saltato per la sua insistenza nel richiedere i libri contabili relativi all’otto per mille, durante quella tenebrosa gestione. Diciamo un incidente di percorso: libri non in mano all’economo diocesano, ma “custoditi” personalmente dal vescovo nelle sue segrete stanze, e “mai più ritrovati”, parole testuali di mons. D’Ambrosio successore di Casale. Come nebulosa rimane la debitoria da lui lasciata in eredità alla diocesi di Foggia, alla quale sembra far riferimento lo stesso mons. Pelvi, quando afferma, in più occasioni, in maniera piuttosto generica e allusiva: “che tutto l’otto per mille va a coprire i debiti lasciati da mons. Casale, e mai risolti fino a mons. Tamburrino”. Ci siamo fatti prendere dal prurito di andare a verificare queste affermazioni. L’unico modo è stato quello di controllare le “Erogazioni delle somme derivanti dall’otto per mille dell’irpef ”, pubblicate su “Vita ecclesiale”, l’organo ufficiale della diocesi di Foggia-Bovino dal 2010 al 2015. Se l’otto per mille viene speso tutto per coprire i debiti, una qualche traccia pur ci dovrà essere tra quelle carte. Debiti, sia ben chiaro, sempre non dichiarati ufficialmente, sempre tenuti nascosti, e perfino negati, dagli allora collaboratori di Casale, e in parte di Tamburrino. Essi sono almeno tre, quelli di una certa entità. Primo. l’affare Società “San Giuseppe Artigiano”, fatta nascere per “fornire piantine di pomodori” agli agricoltori locali. Spese per macchinari e capannoni vari, in tutto novecento milioni (non c’era ancora l’euro), richiesti alla banca ipotecando i novanta ettari di terreno agricolo, in quel di vado Biccari, donazione della signora Anglisani, dote per la vita del Piccolo seminario diocesano, retto dalle Oblate del Sacro Cuore di Gesù. Fallita come era nell’aria la società, intanto si sono persi i novecento milioni, e si è insolventi verso la banca che fra non molto si prenderà l’ipoteca. Altra donazione della signorina Franchini, una consacrata laica, circa due miliardi dei quali seicento milioni destinati alla costruzione della chiesa dell’Annunciazione, costata alla fine più di un miliardo, con costruttori che ancora aspettano di essere pagati (a dieci anni dalla fine dei lavori): altro buco avviato da Casale, passato per la mani di mons. D’Ambrosio e scodellato pari pari in quelle di mons. Tamburrino. I restanti un miliardo e seicento milioni (lira più lira meno) sono finiti nella costruzione Centro Giovanile di via Napoli, un’opera inutilizzata per anni, per lavori mai completati, affidati alla ditta Zammarano, e mancato decreto di agibilità. Ritornando alla frase sibillina di Pelvi ci siamo dati la briga di aprire le pagine relative all’otto per mille di Vita Ecclesiale. E le sorprese sono cominciate a fioccare, come deve essere stato per Bergoglio nei confronti della curia romana. Intanto non si tratta di rendiconti, ma di semplici “impegnative di spesa” (simile a un bilancio preventivo su conti certi), si tratta cioè del futuro utilizzo dei quasi novecento mila euro che ogni anno vengono erogati dalla CEI, alla diocesi di Foggia. Puntualmente alla fine di ogni bilancino, pubblicato nel numero di gennaio-giugno di ogni anno, si legge testualmente: “il “Rendiconto sarà pubblicato nel bollettino ufficiale della Diocesi n°2, secondo semestre”. E puntualmente non è mai stato pubblicato in tutti gli anni presi in esame. Il motivo non è dato sapere. Non sono solo queste le sorprese. Alcune sono diciamo piacevoli: dei novecentomila euro, per legge, circa il 40% sono destinati “per interventi caritativi”, gli altri per “Esigenze di culto e pastorale”. E qui iniziano le sorprese. Spicca al punto “A”, ogni anno, quota fissa, ventimila euro circa, per i “Sussidi liturgici”, per un totale nei sei anni presi in esame della bellezza di sessantottomila euro. Il che vorrà dire che non c’è celebrazione diocesana che non abbia un suo lussuosissimo libretto quattro colori. Altra spesa al punto “B” piuttosto elevata per “la curia diocesana e i centri pastorali”, circa duecentocinquantamila euro l’anno, per un totale di un milione novecentomila euro in sei anni. Una cifra esorbitante, nella quale non è dato sapere se entra anche la casa del Vescovo, le sue utenze e relative suore impegnate, o solo l’impiegato di curia e utenze varie. Sorge spontanea la domanda, prima dell’otto per mille come faceva ad andare avanti la curia diocesana? Non è che l’elefantiaca organizzazione, per giunta non sempre puntuale ed efficace (parola di mons. Pelvi), di questa curia vada di pari passo con la barca di soldi a disposizione? Altro dato al punto “B” riguarda gli euro destinati ai “mezzi di comunicazione sociale a finalità pastorale”: la bellezza di circa trentamila euro l’anno, quota fissa. Immaginiamo si tratti di pubblicazioni come “Voce di Popolo”, a pacchi depositati sugli ultimi banchi delle chiese e altrettanti pacchi di lettere pastorali, decisamente multi colori, anch’esse finite al macero nei cassonetti posti ai lati delle chiese. Fa specie sempre in questa carrellata lo zero fisso per voci che invece avrebbero dovuto avere un qualche sussidio: “Studio e rinnovamento delle forme di pietà popolare”, “parrocchie in condizioni di straordinaria necessità”, “clero anziano e malato”, “cura pastorale degli immigrati presenti in diocesi”, e così via. Intanto non si sa, perché mai pubblicati i rendiconti, che fine effettivamente abbiano fatto questi soldi. Tra l’altro per quanto affermato da mons. Pelvi non c’è traccia di pagamenti di debiti in quegli elenchi, piuttosto generici delle “erogazioni”. Mentre altre cose si sanno per certo, per conoscenza diretta, relative a un sistema piuttosto maldestro adoperato in certi anni diciamo bui di questa diocesi, durante i quali si metteva il milione dell’otto per mille, per sei mesi, bloccato in banca e poi lo si erogava, senza contare gli utili nel frattempo maturati, evidentemente evaporati senza lasciare traccia. Oppure cosa ancora più incredibile, raccontato da chi in quegli anni era un signor nessuno, e poi salito agli onori delle cariche curiali: “tu quanto hai chiesto alla diocesi per lavori in parrocchia? Centomila euro? Te ne dò cinquantamila, solo se mi segni come ricevuta l’intera somma, altrimenti neanche un euro”. Lui ha dichiarato, e gli credo, di non aver mai abboccato a tale ricatto, ma non poteva giurare lo stesso per altri. Insomma un sistema da lestofanti per scopi non sempre chiariti. Intanto restano i debiti di Casale, D’Ambrosio, Tamburrino, il quale nel frattempo ha pensato bene di metterci anche l’incompiuta scuola di teologia sempre in via Napoli, la cui donazione o proprietà finale non è stata mai chiarita, tra chi donava e chi riceveva. E pensiamo abbia fatto benissimo mons. Pelvi a rispedirla al mittente, o a congelarla in attesa di chiarimenti, finora mai giunti, e i lavori sono fermi da un anno quasi, e anche, tra l’altro, per l’infelice ubicazione fuori città di una struttura che serve più agli studenti della provincia che non a quelli del capoluogo.Che sia giunto il tempo di una commissione d’inchiesta che faccia luce una volta per tutte sui debiti dei vescovi precedenti e relativi apparati di curia? Papa Bergoglio l’ha proposta per la curia romana e sappiamo com’è andata a finire. In tutti questi anni, la paura del conflitto ha giocato al “caghe e accummugghie”, o al “citte citte in mizze a chiazze”, o al “tutti sanno ma nessuno parla”. Pelvi promette bene e speriamo che proceda alla maniera di Bergoglio. E’ da anni che aspettiamo fiduciosi.

I PRETI DI STRADA E LA PASTORALE DELLA SEDUZIONE: L'ATTACCO DEL 31 OTTOBRE 2015

I PRETI DI STRADA....


Papa Bergoglio continua a stupire la cristianità non solo per i suoi decisi interventi in materia di dottrina e morale cristiana (lo si è visto, prima e durante le giornate dell’ultimo sinodo dei vescovi, schierarsi decisamente a favore della comunione ai divorziati risposati), ma anche per i suoi gesti controcorrente (dalla nomina di mons. Galantino, ultimo della lista dei candidati alla segreteria della CEI, alla recente elezione a vescovo di Palermo di don Corrado Lorefice, “parroco di strada”, della diocesi di Noto e a quella di Bologna di mons. Zuppi, della comunità di sant’Egidio a Roma). Un nuovo e inedito sistema di selezione della “classe dirigente” della chiesa cattolica, che stenta a penetrare episcopati tradizionalisti e paciosi come quello pugliese, tanto per fare un esempio: siamo al decimo vescovo scelto tra i sussiegosi rettori del seminario regionale di Molfetta o tra i suoi professori, e non si contano neanche più, visto il numero rilevante, gli ex vicari generali, in pectore il nostro compreso. Forse hanno ragione in Puglia, anche perché di “preti di strada” da noi non è che si riesce a contarne molti, e se ci sono, come vedremo, sono da cercare più tra i religiosi e qualche prete isolato e in discredito, come si conviene in questi casi. Per capire chi sono i “preti di strada”, bisogna farsi aiutare da wikipedia: sono ”presbiteri, normalmente cattolici, che esercitano il loro ministero pastorale a diretto contatto con la strada, intesa come terra di missione”. Gli esempi più classici sono addirittura San Filippo Neri e don Giovanni Bosco. Ma non meno famosi sono i vari don Andrea Gallo di Genova e il comboniano Alex Zanottelli, don Oreste Benzi e lo stesso Don Puglisi, ucciso dalla mafia nel ’93, e don Ciotti da tempo sotto scorta. “Preti di strada”, vuol anche dire, troppo spesso (ahimè), preti non organici a programmi pastorali, di quelli solo sulla carta, senza seria programmazione e mai un briciolo di verifica, che molte diocesi sfornano a cicli continui e forzati per inerzia. “Preti di strada” in questi casi vuole anche dire essere fuori dai paludati palazzi del potere clericale, curie e organismi di varia e spesso pilotata partecipazione. Sono fuori, in molti casi, anche da parrocchie e parrocchiette delle nostre città, troppo spesso chiuse in se stesse e autoreferenziali, tutte preghiere e devozioni popolari, novene e pellegrinaggi a Medjugorie. Sono i preti che, finita la mesa e toltosi in molti casi, non solo gli abiti liturgici, ma anche la lunga e femminile tonaca nera, retaggio ottocentesco difficile a morire, e toltosi anche quel collettino bianco, la cui provenienza nessuno della chiesa sa spiegare, su rigorosa camicia e pantalone nero, mentre i più giovani lo mescolano a blue jeans, semmai un tantino scoloriti, come moda impone, ed escono semplicemente per strada, laddove è la missione del cristianesimo, per impegnarsi nei vari campi dell’emarginazione: dal carcere alla cooperazione e allo sviluppo, dal sostegno ai tossicodipendenti, a dipendenze varie, disabilità, orfani, minori abbandonati, prostituzione (tratta, violenza, sfruttamento), migranti. In molti casi i preti di strada hanno fondato gruppi, associazioni o comunità nei quali si è dato ampio spazio al laicato (sempre fonte wikipedia). Ce ne sono dalle nostre parti? O anche in questo siamo il fanalino di coda in Italia? A dire il vero noi, a Foggia, possiamo vantare la comunità di Emmaus, merito loro, sempre avversata dalla curia locale e preti benpensanti. Opera dello scomparso don Michele e tutti gli altri che in questi anni l’hanno accompagnato sostenuto. L’eredità l’ha presa un certo don Vito, sempre salesiano. Ci sono i padri Scalabriniani della diocesi di Manfredonia, in prima fila per l’accoglienza degli extracomunitari, lavoratori stagionali, schiavi del ventunesimo secolo, sotto padroni spesso cristiani e cattolici, e che nessuno o quasi protegge. Ci sono i preti di Libera a Cerignola, don Pasquale Cotugno e a Lucera, don Ciro Miele. E l’elenco a memoria finisce qui. Ce ne saranno anche altri, non citati per mia personale ignoranza, ma ciò che li accompagna è l’assordante silenzio delle istituzioni diocesane. Certo vanno capiti i pretini delle nostre diocesi, che si sentono rivoluzionari, per il solo fatto che rispetto agli anni passati, ormai tutti procedono con programmazioni in ogni settore della vita pastorale. Per noi è una terribile illusione organicistica. A guardare l’organigramma della diocesi di Foggia, tutto o quasi rigorosamente e saldamente in mano al clero, non si può che restare meravigliati. Non manca proprio niente. Leggo dall’ultimo numero di Vita Ecclesiale, solo i titoli: “organismi di curia”, “enti e organismi diocesani”, “settori e coordinamento dei vicari”, “organismi complementari”, “Vicario generale”, “Moderatore di Curia”, “Vicari episcopali di settore”, “settori pastorali”, “Ufficio catechistico”, “ufficio liturgico”, “ufficio per la pietà popolare e i pellegrinaggi”, uffici per gli “stati di vita”, sezione caritas, e ufficio amministrativo e mi fermo qui, sempre con la paura di annoiare il povero lettore, che si sarà perso nei meandri della curia, che forse non ha neanche tutte le stanze disponibili per tanta faraonica e inutile organizzazione, sempre più modellata su follie organicistiche e spendaccione di una CEI nazionale (tanto c’è l’otto per mille che foraggia). Insomma per una diocesi che conta cinquantacinque parrocchie sì e no, e un centinaio di preti diocesani, dei quali l’ottanta per centro oltre i sessantanni, e qualche decina di preti religiosi, molta forza si spreca per organismi sulla carta. Molti di quei preti impegnati in curia, a cominciare dal vicario generale l’intramontabile e coriaceo mons. Filippo Tardio, sono anche parroci, per non contare il parossismo di essere al tempo stesso incaricati su più uffici, come l’annuario diocesano tristemente nota. Meglio stendere un velo pietoso a tanta baldanzosa organizzazione, e guardare con simpatia a questi “preti di strada”, spesso neanche nominati in questi faraonici organigrammi diocesani e neppure coordinandosi con essi, che testimoniano la carità per il prossimo, che “sola”, e va ribadita, “sola”, può dare la salvezza e giustificare il senso della presenza nel mondo di una religione, come quella cristiana. Verrebbe da dire: “meno male che ci sono loro”. Purtroppo anche noi come lo sconsolato Abramo non siamo riusciti a raccoglierne nemmeno cinque nella nostra diocesi e ci siamo fermati a uno solo: i bravi ragazzi di Emmaus. In provincia qualcosa pur si muove. Dobbiamo e possiamo non solo consolarci ma prendere anche respiro e rinnovata fiducia quando lo straordinario papa Bergoglio ci sorprende e fa vescovo di Bologna mons. Zuppi, al posto dello spento e tradizionalista (in tutti i sensi) mons. Caffarra, e vescovo di Palermo don Lorefice, appunto un prete di strada, amico di don Puglisi e don Ciotti. Se a questi nomi si associano i neo cardinali, non più legati alla residenza cardinalizia, come Gualtiero Bassetti (Perugia), Edoardo Menichelli (Ancona) o Francesco Montenegro (Agrigento), allora si è difronte non più a casi isolati ma a una teoria. Lunga vita a Bergolio che non succeda, che morto lui si torna indietro, come troppo spesso avviene nelle nostre scombinate chiese cattoliche. 





LA PASTORALE DELLA SEDUZIONE


Dice il vangelo “Guardate che nessuno vi seduca”(Mc 13,5). E’ un monito del Signore, che evidentemente pur conoscendo l’altro detto dell’Antico Testamento “Mi hai sedotto Signore e mi sono lasciato sedurre” (Ger 20,7), intende mettere in guardia i cristiani dall’usare la seduzione come metodo pastorale. E’ una tentazione come le tante che la chiesa attraversa quasi ogni giorno. Basta osservare da vicino le cosiddette pastorali messe in atto dai preti, catechisti e collaboratori, fino a non molto tempo fa. Si va dalla “pastorale della paura”, molto utilizzata durante la mia infanzia: “se non fai così”, tuonavano i preti dall’altare o nei confessionili, “andrai certamente all’inferno”. “Il Signore ti punirà", facevano eco i catechisti, "se non obbedisci ai suoi comandamenti e alle leggi della chiesa, mentre se li metti in pratica, andrai certamente in paradiso”. Per poi passare alla “pastorale dell’evento”. E sono gli incontri oceanici a piazza san Pietro, le varie giornate mondiali della gioventù, i raduni spesso multicolori e con milioni di persone nelle varie visite papali, ai cinque continenti, "ricopiati" e pedissequamente "riproposti" da tanti vescovi locali, in piccole e grandi diocesi che siano: una prova di forza che neanche le tradizionali processioni riuscivano a dare sul territorio. Nulla da dire su queste attività pastorali, che diventano problema quando si vive solo in funzione di esse, o diventano di fatto l’unica attività pastorale per una diocesi. Ma la peggiore di tutte è proprio la “pastorale della seduzione”. Mal interpretando il passo biblico, s’intende "affascinare", se non “forzare”o “manipolare” l’uditorio, con strumenti che non puntano sui contenuti o sulla formazione e sua maturazione, ma sulla teatralità, spesso forzata per "emozionare", che va da una voce suadente, spesso ammiccante, al capello giovanilistico, spinto all’indietro, anche se ingrigito dall’età, e relativo sorriso ammaliante, pacche sulle spalle e "via di nuovo verso il vento". E’ la pastorale dell’entusiasmo, spesso poggiata sulla personalità del prete o del “catechista” che la impersona. Si tende a suscitare emozioni più che a spingere l’uditorio all’azione di servizio e di carità. Su quest’onda si capisce, forse, l’ascesa di un Mucciarone o Roberto Pezzano, e il declassamento di un mons. Trotta e un mons. Identi. Motivo? Avranno esaurito la loro portata di entusiasmo e di seduzione. Questi emergenti invece saranno più capaci di “attirare gente”. Quando si muove certa pastorale giovanile, o giovanilistica come diciamo noi, le chiese e le piazze si riempiono, alta à la partecipazione come pure il senso di soddisfazione. Il dubbio è lecito. E’ il monito antiseduzione del vangelo di Marco (il più diretto e “rozzo” dei quattro evangelisti): “Guardate che nessuno vi seduca”. Marco sembra voler dire, in coerenza con l’Antico Testamento, che è “Dio che deve sedurre”, e quindi “ che è Gesù Cristo che ha questo potere”, nessuno può prenderne il posto. Sarà triste per alcuni: ma al bene nessuno può essere forzato. L’entusiasmo da solo (come la fede senza le opere) non funziona non porta alla salvezza. Dopo gli incontri i giovani ritornano a casa, forse anche più contenti e felici, ma la città avrà fatto spallucce e continuerà a sprofondare nei suoi problemi. Più che la seduzione o la pastorale dell’entusiasmo ne andrebbe impostata un’altra, quella che opera sulla formazione (lenta e in progress) e che ha come esito il servizio e "la carità per la salvezza del mondo”, come ci ha detto chiaramente il Concilio Vaticano II, avendo sempre il mondo, come concreto punto di riferimento e di verifica. Lo abbiamo già notato: sono ben otto gli uffici per l’evangelizzazione, e solo due, se si esclude la Caritas diocesana, quelli riservati al servizio di carità. La cosa andrebbe semplicemente invertita. Si dice che la lingua batte dove il dente duole. E a vedere le attività di questa diocesi, è evidente che la lingua batta su un datato giovanilismo. “Ognuno si droga come vuole” disse una volta mons. Tonini. E noi lo ripetiamo. Ognuno segua il metodo pastorale in cui crede di più o gli è più congeniale, che sia ancora quello della paura, largamente utilizzato nell'iniziazione cristiana o quella dell'evento giovanilistico, che spesso si va a sostituire o a supplire un inconsistente cammino parrocchiale o una vita piuttosto chiusa in se stessa delle varie associazioni, ma guai a farsi prendere la mano dalla pastorale della seduzione dagli esisti disastrosi, in ogni caso. A noi, osservatori disincantati e forse anche un po' avanti negli anni (e se si vuole "sperimentati") si lasci almeno il dubbio o il timore che quando il primo povero sbatterà in faccia a questi giovani entusiasti e osannanti, il proprio bisogno o il disappunto per una carità, pelosa e di facciata o anche solo inefficace, l’entusiasmo non lasci il posto alla delusione e il giovane non si scoraggi o si ritrovi con l'amaro in bocca.



Una precisazione: don Tonino Intiso si è giustamente lamentato che tra i preti di strada di Foggia non abbia fatto il suo nome
Una mancanza che non ci costerà fatica recuperare quanto prima.
Si pensava a preti di strada ancora all'opera....meno a quelli che in passato come lui si sono distinti per impegno e disponibilità verso il territorio e attualmente come nella migliore tradizione foggiana posto nel dimenticatoio e in quiescenza.
Ripeto una mancanza facile da colmare.

UNA CURIA CHE HA SEMPRE VISSUTO A PROPRIA INSAPUTA: L'ATTACCO DEL 17 OTTOBRE 2015

LE RESPONSABILITA' DELLA CURIA FOGGIANA: IL PELVI PENSIERO
DA L'ATTACCO DEL 17 OTTOBRE 2015

l'articolo he vi mancava....scrocconi
il Pelvi pensiero: colpevoli i vescovi, scusati i lecchini, e ve li rimetto in gioco
Il carattere schietto e diretto di mons. Pelvi è certamente una novità per questa nostra diocesi, abituata fin dai tempi di mons. De Giorgi a un sussiego di modi e di parole, da barocco leccese, che proprio non ci appartiene. Dirette sono pure le sue sparate a zero verso chi l’ha preceduto: “in questa diocesi tutto l’otto per mille va per pagare i debiti contratti da mons. Casale e mons. Tamburrino”; “la diocesi di Bovino è totalmente in mano ai religiosi e dei suoi beni patrimoniali poco o nulla è rimasto”; “la scuola di teologia è un peso economico e di personale docente non più sopportabile dalla nostra diocesi”; “non riesco a capire come sia stato possibile affidare a due gruppi ecclesiali per i prossimi ventanni la chiesa della Mercede e il centro giovanile di via Napoli in Foggia”; “le cause perse con i dipendenti del liceo sacro Cuore stanno ancora di più affondando economicamente la nostra diocesi, e non si capisce chi le abbia posto in essere e peché”;; “ho dovuto chiudere il liceo sacro Cuore perché gli studenti si erano ridotti a 27, di cui otto seminaristi, tra l’altro di sola scuola media e qualcuno della superiore”; “stessa sorte, sembra dire, presto toccherà al seminario: un immenso stabile ad uso di solo otto ragazzi, tre preti e personale di pulizia e di cucina: un buco nero dal punto di vista economico”; “non si capisce come si sia potuto far costruire la nuova sede della scuola di teologia così lontana dalla città, senza tra l’altro definire chiaramente chi ne fosse il proprietario o il beneficiario; “l’idea di una scuola di teologia orientata a produrre solo professori di religione oggi sembra essersi esaurita, sia per il numero di docenti prodotti e sia per la scarsa incidenza che essa ha sul territorio diocesano, che ha ben altre priorità pastorali”. E la litania potrebbe continuare per molto tempo ancora, se non si avesse paura di annoiare il lettore. Quello che sorprende in mons. Pelvi, non è tanto la lucidità delle sue analisi e la sua franchezza nello spifferarlo ai quattro venti: grazie a Dio uno che le cose non le manda a dire, ma il suo “dire e non dire”. Chiara pare l’accusa rivolta ai vescovi che l’hanno preceduto: “hanno lasciato un mare di debiti”, meno chiara e meno esplicita l'assunzione di responsabilità di chi, come ad esempio mons. Filippo Tardio, vicario generale per quasi tutti gli anni di mons. Tamburrino, e dell'intero consiglio episcopale, che quelle cose hanno lasciato fare. Ormai la manfrina è più che consolidata tra gli ex collaboratori dei vescovi passati. I vescovi di turno si sono sempre difesi dicendo che per certe decisioni (quella della SGA – cooperativa voluta da mons. Casale, che ha dato in pegno i terreni di Vado Biccari, ex-dote del piccolo seminario di via Napoli, o quelle del centro giovanile, della chiesa della Mercede, della scuola di teologia, volute da mons. Tamburrino) “hanno sempre ascoltato e ricevuto il parere favorevole dei vicari episcopali”. Questi ultimi a loro volta, dopo e sempre molto dopo, a disastri avvenuti, si sono affrettati a dire “che a Casale non si poteva certo dire di no, senza incappare nelle sue ire”, “che Tamburrino, invece, faceva tutto lui senza comunicare loro alcunché, e che peggio alcune decisioni, come quelle relative alla scuola in seminario, venivano prese al di fuori del consiglio”. Insomma i più stretti collaboratori di Casale e di Tamburrino, hanno vissuto questi anni da "impotenti" o "a loro insaputa”: un ritornello imparato evidentemente dai politici nostrani. Una scusa che non regge e soprattutto è un modo di ragione che non regge. La storia andrebbe completata con chi in quegli stessi anni ha alzato forte la voce contro sprechi e allegre gestioni, ma è stato messo da parte. E' la parte di storia che sembra sfuggire a mons. Pelvi: quella di chi più apertamente attraverso gli organi di stampa o di chi nel segreto delle sagrestie o dei vari coetus consultorum o uffici amministrativi ha spesso manifestato il proprio dissenso e disapprovazione, e ne è stato estromesso o ridotto al silenzio: “a te non ti va bene un vescovo”, “anche tu sei come quel tal prete, che hai sempre da ridire su ogni cosa”, “se il vescovo ha deciso così, noi non possiamo farci nulla: è lui il vescovo”. Ecco a mio avviso le parti monche delle sorprendenti esternazioni di mons. Pelvi: lucida osservazione del disastro, nel quale versa questa scombinata diocesi di provincia, esplicita l’attribuzione delle colpe, meno chiaro il richiamo per chi in quei frangenti, abbastanza colpevolmente, ha pensato più al proprio “particulare”, semmai appagato di “monsignorati” di turno, che al bene presente e futuro della diocesi, sempre pronti a un pilatesco lavaggio di mani, per un defilarsi di responsabilità davvero sorprendente. In una cosa però rimane coerente l’azione del nuovo prelato rispetto al passato, continuare a neutralizzare il dissenso fino a confermare parte della vecchia guardia, che di quei disastri si è fatto corresponsabile. Ecco allora far capolino la domanda dei primissimi giorni: “sei tu quello che deve venire (a riparare i disastri dei vescovi tuoi predecessori, da De Giorgi a Tamburrino), o dobbiamo aspettarne un altro?”. Al lettore la risposta.


CHIESA E OMOSESSUALITA': L'ATTACCO DELL'8 OTTOBRE 2015

CHIESA E OMOSESSUALITA'

Monsignor Krzysztof Charamsa, 43 anni, sacerdote polacco e teologo di primo piano nella Congregazione per la dottrina della fede, ha fatto coming out: “sono omosessuale e sono felice di esserlo”. Se la cosa fosse fatta in tempi non sospetti, cioè non a ridosso dell’apertura del sinodo sulla famiglia, avrebbe suscitato un certo scalpore ma non più di tanto. Invece l’occasione colta non può che far arricciare il naso. E ha ragione padre Lombardi, che a onor del vero non sempre mi convince nei suoi interventi da sala stampa del Vaticano e da portavoce del papa, a dichiarare il gesto “grave e non responsabile, nonostante il rispetto che meritano le vicende e le situazioni personali e le riflessioni su di esse”. Il sospetto è fin troppo lecito: per conto di chi e a favore di chi ha agito questo monsignore di curia? Di papa Francesco, che vuole sui divorziati e sui gay maggiore apertura da parte della chiesa cattolica, o da quelli che gli remano contro? Sarà troppo facile, per questi ultimi, ribattere al papa che le sue apertura portano a gesti così eclatanti e fuorvianti per la comunità cristiana. Anche per noi, con mille distinguo, rimane un’uscita ambigua e intempestiva. E’ bene che la “Chiesa apra gli occhi di fronte ai gay credenti e capisca che la soluzione che propone loro” e che “l’astinenza totale dalla vita d’amore, è disumana”, ha detto mons. Charamsa, e siamo tutti perfettamente d’accordo, ma perché dirlo proprio ora, alla vigilia di un evento tanto delicato della storia della chiesa, come il sinodo sulla famiglia (già fonte di contrasti fin dal suo preludio vaticano)? A chi giova veramente una tale sortita: “non penso, ha detto Yayo Grassi, il discepolo gay di papa Bergoglio, che abbia fatto alcun favore alla causa dei gay o a Papa Francesco. La sua tempistica è stata sbagliata, il modo in cui ha parlato è stato sbagliato. Parlare di omosessualità in questo momento serve solo a distrarre la gente dagli altri temi importanti sollevati da Bergoglio: l’ambiente, la famiglia, la povertà, condividere quello che abbiamo con chi non ha niente”. E noi stiamo con papa Bergoglio e le sue battaglie, avviate all’indomani della sua elezione, un po’ meno sulle posizioni del teologo dell’ex sant’Uffizio, che, purtroppo per lui, pagherà a caro prezzo un tale gesto e di questo sinceramente ne siamo dispiaciuti, perché, ha prestato il fianco a una chiesa e un mondo cattolico “ottuso e retrogrado”, che mentre “commette tante porcherie quando ruba e quando imbroglia, e poi diventa 'di naso fine' quando si entra nel campo della sessualità” come ha ben chiosato mons Casale, che di maneggiamenti e imbrogli se ne intendeva parecchio. “La grazia di Dio non alza la voce” ha detto Bergoglio. E “se non sappiamo unire la compassione alla giustizia, finiamo per essere inutilmente severi e profondamente ingiusti”. E’ proprio contro questa chiesa “inutilmente severa e profondamente ingiusta” che spesso e volentieri ci si trova in contrasto. Una chiesa che oggi non sembra capire né accetta l’amore omosessuale, che persino san Tommaso difendeva proprio in quanto nella linea dell’amore. Ci siamo forse dimenticati le sue lezioni sui “peccati per troppo amore” da comprendere e perdonare ancor prima e molto di più dei peccati dettati dall’odio e dalla violenza? Qualche altro si è anche dimenticato il detto evangelico: “misericordia voglio e non sacrifici”? Oggi nella chiesa, purtroppo, c’è ancora troppa gente che scherza con il fuoco “della verità e della giustizia”, utilizzati sempre più in senso filosofico e stoico, quando non giuridistico, anziché evangelico. “Verità di amore” non è quella astratta definizione che fino a non molti anni (1982) il diritto canonico “concedeva” al solo matrimonio celebrato in chiesa, primariamente finalizzato alla sola procreazione e concepito “come rimedio alla “concupiscenza, conseguenza del peccato originale di Adamo ed Eva. C’è voluto il nuovo diritto canonico, bontà sua, a richiamare l’amore sponsale (e sessuale) tra due persone che si amano, come scopo primario del matrimonio oltre alla procreazione. E qualcuno vorrebbe che si aggiungesse: “indipendentemente dalla propria tendenza sessuale, pur sempre dono di natura, etero o omo che sia”. Ecco perché ci pare fuori luogo l’intervento intempestivo del prelato romano: rischia di bruciare tappe, di forzare tempi, di creare scalpore e eccessiva attenzione mediatica, per temi che come dice Bergoglio hanno bisogno di una chiesa “che è famiglia e sa porsi con la prossimità e l’amore di un padre, che vive la responsabilità del custode, che protegge senza sostituirsi, che corregge senza umiliare, che educa con l’esempio e la pazienza. A volte, semplicemente con il silenzio di un’attesa orante e aperta. Soprattutto, una Chiesa di figli che si riconoscono fratelli non arriva mai a considerare qualcuno soltanto come un peso, un problema, un costo, una preoccupazione o un rischio: l’altro è essenzialmente un dono, che rimane tale anche quando percorre strade diverse. È casa aperta, la Chiesa, lontana da grandezze esteriori, accogliente nello stile sobrio dei suoi membri e, proprio per questo, accessibile alla speranza di pace che c’è dentro ogni uomo, compresi quanti, provati dalla vita, hanno il cuore ferito e sofferente”. Noi stiamo con Bergoglio. 


sull'Omosessualità nella chiesa
Il tema dell’omosessualità è da sempre un prurito nella chiesa, e non solo cattolica: anche se nella chiesa valdese sembra essere oramai pacificamente accolto. La lettura più benevola considera l’omosessualità una malattia (per lo più congenita, se non conseguenza della caduta dei progenitori), quella più gretta la considera un peccato. I primi pensano che si debba e si possa curare. Non si sa come. I mezzi finora posti in essere sanno di museo degli orrori. I secondi dicono che se anche c’è la tendenza, e può essere un fatto naturale, in ogni caso diventa “peccato” quando dalla pura tendenza (come del resto quella eterosessuale) si passa alla pratica sessuale, peccato prima e fuori del matrimonio e peccato in ogni caso se omosessuale. Lasciando agli esperti il giudizio finale su questa importante diatriba un dato è incontestabile l’omosessualità è molto diffusa anche tra il clero, di sempre e non solo di oggi, ed è una cosa risaputa. Qualche prete, a dire il vero, confonde ancora omosessualità e pedofilia. "La pedofilia posso capirla, l'omosessualità non so", ha detto don Gino Flaim in quel di Trento: “purtroppo ci sono bambini che cercano affetto perché non ce l’hanno in casa e magari se trovano qualche prete può anche cedere. E lo capisco". E via con la sospensione a divinis della curia: siamo alla paranoia. La pedofilia è per lo stato italiano un reato, l’omosessualità no, almeno non ancora, contrariamente a chi vorrebbe, invece, considerarla tale. Dalle nostre parti più di un sacerdote è stato condannato per tale reato. Per altri casi simili le famiglie hanno preferito soprassedere e ritirare la denuncia. E non erano casi isolati. Come non ricordare l’eccessiva affettuosità di certi prelati per i piccoli ospiti del locale seminario: sublimata pedofilia dice qualche maligno, può darsi ma la scena non era certo edificante. Mons. Ruini ha detto a proposito dei preti disumanizzati da una sessualità repressa che: “come prete ho anch’io l’obbligo di tale astinenza e in più di sessant’anni non mi sono mai sentito disumanizzato, e nemmeno privo di una vita di amore”. E contento lui, contenti tutti. Non tutti, però, vivono l’astinenza sessuale alla maniera di mons. Ruini, che forse è riuscito a sublimarla con l’esercizio spregiudicato del potere, sia esso religioso che politico. La storia vera è invece un’altra ed è condita di allusioni e ammiccamenti del più classico “io so che tu sai che io so”, e così tutti stanno coperti e ben allineati, sotto un’ipocrisia diffusa e rigorosa consegna del silenzio. E perché dell’utilizzo di “siffatte notizie” qualche vescovo passato è pur riuscito a tacitare chi osava contrastarlo più del dovuto. La storia è fatta perciò di “si dice” e nulla più. Ma se si dice forse qualcosa e più di qualcosa sotto sotto c’è. E il percorso inizia con preti di curia, che si accompagnano con l’amico fisso, l’”amico del cuore”: è troppa la frequentazione tra i due e da molti, anzi moltissimi, anni, per non far sorgere il sospetto. Si sa anche di vacanze fatte assieme, di viaggi eccetera, ma qui finiamo nel pettegolezzo. Se poco si fa il giro per la zona off limits dei “cavalli stalloni”, luogo poco illuminato e molto congeniale a incontri ravvicinati del terzo tipo, non è raro incontrare a tarda notte preti, rigorosamente in borghese, che ci fanno quattro passi da quelle parti, oppure in macchina, così a rimorchiare: “e che è proibito ai preti fare quattro passi da quelle parti?”, è stata la difesa di uno sgamato da quelle parti, attorno alle due di notte. Si sa di altri da poco assunti agli onori degli altari (nuovi incarichi offerti da un vescovo evidentemente poco informato), che hanno dovuto lasciare in fretta e furia, si direbbe seduta stante, seminari e parrocchie, perché colti in flagranza di reato, per frequentazioni poco congeniali all’”astinenza sessuale” di ruiniana memoria. I maligni parlano di “trenini”, da non confondere con i giocattoli per bambini. Altri parlano di amicizie morbose con ragazzi, che se non necessariamente macchiate di pedofilia, per svincolarle si è dovuto ricorrere a mezzi drastici, con l’uscita dal seminario di entrambi: uno a casa, l’altro in parrocchia sotto stretto controllo. Così pure si sa, nel senso che tutti lo sanno, che qualcuno abbia prima ospitato l’amico del cuore in canonica, e al primo litigio sia stato lui invitato ad andarsene con tanto di carabinieri, perché si trattava di una casa popolare, e si sa che chi vi risiede stabilmente ne diventa proprietario. E’ successo anche questo. Qualcuno potrebbe dire: “ma come, la curia sapeva di queste cose e non è mai intervenuta?”. La risposta è semplice: tutti sanno ma forse nessuno ha interesse a parlarne. Si preferisce sorvolare. La pedofilia, si è detto, è un reato, mai giustificabile, checché ne dica il prete tridentino. Non lo è l’eterosessualità e l’omosessualità. E i figli di preti pur si sprecano da queste parti. E’ forse giunto il tempo di smetterla di combinare sacerdozio e astinenza sessuale, che tanto piace a mons. Ruini, lasciando libertà ai preti di sposarsi, e perché no anche di avere relazioni omosessuali. Forse vedremo qualche prete sorridere di più e, semmai, masturbarsi di meno, o fare surfing per le pagaie proibite di internet. Per buona pace di chi li vorrebbe casti come angeli. Sembra che sulla terra si possa essere angeli senza essere necessariamente casti. 


Sulla sortita di mons. Casale 


Mons. Casale non smette di stupire per la lucidità delle sue analisi. Il vizio è pur quello di sempre: predicare bene e “aver razzolato male”, anzi “malissimo” quando viveva da queste parti. Nessuno ha mai negato la lucidità a volte delle sue analisi e affermazioni, si è molto dubitato della linearità di certe sue scelte e prese di posizione come per il piano regolare di Foggia, l’amicizia neanche troppo nascosta con la ditta Zammarano e figli, e altre amenità del genere. Ma questa sua ultima intervista merita attenzione per il tema scelto e le cose dette. “Bisogna creare una mentalità nuova in un mondo cattolico chiuso, retrogrado, che commette tante porcherie quando ruba e quando imbroglia, e poi diventa 'di naso fine' quando si entra nel campo della sessualità, che è la bellezza di Dio in noi”. Ben detto. Chiara mi pare anche l’evidenziazione del puntum dolens del catechismo della chiesa cattolica, che “ai paragrafi 2358 e 2359, afferma che “l'omosessualità non è indicata come un male, come un peccato, bensì come una realtà che bisogna accettare. Però, allo stesso tempo, è considerata una tendenza che non va esercitata. Il Catechismo è rimasto fermo su questa posizione e secondo me qui c'è una contraddizione evidente”. Piace pure la sua visione della sessualità che non può essere solo genitale e finalizzata alla procreazione, ma è fatta di relazioni, amicizie, amplessi”. Finalmente anche una parola positiva sull’omosessualità che per Casale è “un diverso orientamento sessuale che mette in evidenza un rapporto affettivo, di stima, tendenzialmente duraturo nel tempo. Un rapporto che consente di affrontare in comune i problemi della vita e che spesso riesce a non cadere in quella sessualità esasperata che oggi colpisce tanti matrimoni eterosessuali, che purtroppo falliscono.”. Anche mons. Casale sa che il mondo cattolico non è pronto a queste affermazioni e che “La Chiesa non deve mettere il naso tra le lenzuola delle persone. Lasciamo che le persone vivano la loro sessualità come credono, nell'affetto, nello scambio di un abbraccio, di un bacio, di quello che vogliono. Anche questo è sessualità”. Fa impressione la lucidità di questo ultranovantenne, che ha da dire la sua pure sui divorziati risposati: “dire che un divorziato è in stato di peccato per me è una cosa che non sta né in cielo né in terra”. Libero a tutto campo, come non lo è forse mai stato prima. Anche se il suo tradizionale andirivieni, di matrice gesuitica, non si smentisce neanche questa volta: “monsignor Charamsa, come prete, era tenuto a osservare il celibato. Lo aveva scelto e quindi, indipendentemente dal suo orientamento, non avrebbe potuto vivere una vita sessuale normale”… C'è una differenza. Io penso che sia sbagliato vietare la sessualità a chi può legittimamente esercitarla. Vale a dire, a un omosessuale che non ha promesso il celibato, che non ha fatto voto di castità, e che oggi se volesse potrebbe sposarsi”. Ma forse l’intervista andrebbe ripresa per intero, per i tanti punti stimolanti in essa

mercoledì 9 settembre 2015

L'ARTICOLO DELLA MIA VITA: LA CHIESA CHE VORREI: DA L'ATTACCO DELL'8 SETTEMBRE 2015



Le voci di una “riabilitazione” di don Fausto Parisi, già vicario generale al tempo di mons. Casale sono sempre più frequenti. E’ pur vero che chi è affetto da parresia, ossia dal parlare chiaro e senza timore di alcuno, non fa molta carriera, specie nella chiesa. Almeno non lo è stato al tempo di san Giovanni Paolo II: tutti coperti e allineati. Ma i tempi cambiano e quello che una volta era messo da parte, come la famosa pietra d’angolo, può sempre essere ripresa e messa al suo posto. Si parla di una certa similitudine di carattere e di spirito tra il nuovo vescovo mons. Pelvi e don Fausto: stesso parlare chiaro, senza guardare in faccia a nessuno, stessa ironia, stessa determinazione nel portare avanti idee e progetti, stessa concretezza e praticità. Ma non basta questo per operazioni che sanno di rivoluzione. Si sa di uno scontro iniziale tra mons. Pelvi e don Fausto a proposito della scuola paritaria Sacro Cuore e dello strascico di cause pendenti che mons. Tamburrino è stato, nella sua ingenuità, capace di produrre a ritmo impressionante nel giro di pochi mesi. I benevoli, volendolo scusare oltre ogni dire, dicono che “è stato mal consigliato” e che si è fatto prendere la mano da autentici lestofanti, alcuni dei quali, visto che la barca affondava hanno pensato bene di abbandonarla all’arrivo del nuovo presule. Si può anche essere d’accordo con questa visione delle cose, in fondo Tamburrino è sempre stato un debole di carattere, disponibile per ogni lucciola fatta diventare lanterna. Ma i problemi e soprattutto i debiti da lui lasciati hanno segnato duramente questa diocesi, che ancora non ha finito di pagare quelli lasciati da mons. Casale e che mons. D’Ambrosio si è ben guardato da onorare, lasciando la patata bollente ai suoi successori. Sempre ad onor del vero e dei fatti va riconosciuto a mons. Pelvi l’impegno personale per dipanare matasse ingarbugliate oltre ogni dire. Di persona si è recato in tribunale per dirimere la cause con i dipendenti cacciati da Tamburino. Di persona si è recato a Bari per chiudere una scuola paritaria che nelle mani degli apprendisti stregoni, scilicet professoressa Di Simio e soci, avevano ridotto a 35 allievi, incapaci di reggere economicamente una scuola, pomposamente chiamata di qualità ma scarsa a moneta oltre che a idee. Pelvi ha fatto il conto dei debiti lasciati in eredità dai predecessori, così da esclamare che “tutto l’otto per mille” in dotazione alla diocesi se ne va per pagare quei debiti mai onorati. Merito infine di mons. Pelvi è l’aver preso di petto quella cosa oscura e scivolosa che si chiama “Nuova sede della scuola di teologia”, uno stabile nei pressi del seminario, su terreno diocesano, ma la cui “proprietà effettiva” non è dato di sapere. Chiaro il messaggio di mons. Pelvi: o la cedete alla diocesi o non so cosa farmene, ve la potete anche tenere”. Il silenzio di questi mesi dalla parte dei “manipolatori” di turno è quanto mai eloquente. E’ quindi chiaro che in tale frangente da più parti si chiede una mano forte, come poteva essere quella che don Fausto ha mostrato ai tempi di Casale. Perché un altro dei vizi congeniti dei paludati collaboratori di mons. Tamburrino è quello dello scarica barile: “noi non sapevamo nulla, ha fatto tutto da solo”. In effetti sapere qualcosa vuol dire essere complici. Dire di non sapere è un classico della paraculaggine locale. L’interessato, cioè don Fausto, nicchia. Non sembra essere molto interessato a titoli e onori. Ci vuole ben altro per risollevare una diocesi oramai allo sbando su tutto il fronte. Non è impresa di un uomo solo e per giunta prossimo alla pensione. Forse si dovrà fare leva sui giovani preti, che saranno anche inesperti, ma hanno il grande vantaggio di non essere stati compromessi in operazioni al limite dello squallore umano oltre che religioso. A loro il grave compito di risollevare la situazione. Certi che la chiesa ha un grande manovratore che è il Signore in persona. Nonostante queste considerazioni abbiamo chiesto a don Fausto una sua lettura dei fatti e “della chiesa che vorrebbe”. L’intervista questo vuole mostrare. Sarà lui a portare la barca diocesana oltre le secche nelle quali è finita? Avrà Pelvi il coraggio di fare scelte così controcorrente. O anche lui cercherà come tutti di imbarcamenarsi tra lobby sempre in conflitto tra loro? Ai posteri l’ardua sentenza. Il quadro è chiaro oramai. Il nuovo prelato sembra mostrare tutti gli attributi richiesti per questa impresa. Saranno i prossimi mesi a misurarne la forza. Dalle colonne di questo giornale, per il bene della diocesi di Foggia e della stessa città, non possiamo che augurarci che l’impresa riesca. La frase detta a Gesù dai discepoli di san Giovanni Battista, vale anche per il nuovo presule: “sei tu quello che deve venire, o dobbiamo aspettarne un altro”. Per molti il tempo se ne va e sta per scadere. Ma si sa, la speranza è sempre l’ultima a morire. 


INTERVISTA
Dai tuoi articoli emerge spesso un’esigenza di rinnovamento della chiesa, in particolare quella di Foggia, ma non solo. Ultimamente hai esplicitamente parlato di una “fine prossima dell’impero”, ce ne vuoi parlare più esplicitamente
Una cosa è certa: la chiesa cattolica, così come è vissuta oggi, praticamente bloccata sul parrocchialismo e le sue attività tutte interne alla chiesa, ha i giorni contati.
Da dove nasce tanta convinzione?
Dalla semplice analisi della realtà. Le parrocchie, penso soprattutto a quelle di Foggia, che da anni osservo, di fatto si sono tutte chiuse in se stesse. Anche le più attive e con parroci intelligenti e capaci. Le iniziative, non più solo legate alla vita liturgica e devozionistica, hanno un loro spessore pastorale. Si nota un crescendo del senso di comunità, a volte anche vivace: i gruppi si moltiplicano, focolarini, carismatici, catecumenali, peggio delle cavallette. Gruppi di genitori, di ragazzi, associazioni sportive, culturali e teatrali, ecc., e chi più ne ha più ne metta. Ma si esce poco dalla parrocchia verso il territorio. Tutto è intra menia. Si diceva una volta. Anche la carità parrocchiale spesso si esaurisce nella sola “accoglienza” dei i bisognosi, con distribuzione di pasti, indumenti, assistenza sanitaria. Non un discorso politico, non necessariamente religioso. Il solo rilievo riguarda l’autoreferenzialità di queste iniziative: tutte positive, meglio che in passato. Ma tutte “intra menia”.
Questa l’analisi, sia pure per sommi capi, che ogni tuo articolo sembra voler “capodicamente” riproporre, ci passi la parola. E la cura? E’ la parte mancante del tuo discorso, o no?
Per parlare di cura bisogna pur fare una parte “destruens”, cioè buttare giù muri e modelli obsoleti di fare pastorale. Altrimenti è difficile capirsi. Un primo punto è scrollarsi di dosso l’organicità di natura “imperiale”, in senso monocratico, per la quale il parroco è, o si auto comprende, come il perno unico e assoluto di tutto il sistema. In parrocchia non c’è foglia che si muova che il parroco non voglia. Il termine “imperiale” vale solo come paragone, ovviamente. Governare quattro volenterose bizzoche, non è che sia proprio il massimo di governo. A mio avviso occorre orientarsi verso modelli più agili così com’era all’inizio della chiesa di Gerusalemme. Può sembrare strano ma bisogna rifarsi all’antico.
Spiegati meglio
Nelle prime comunità cristiane i tre munus (sacerdotale, regale e profetico) erano ben distribuiti tra sacerdoti e laici della comunità. Gli stessi apostoli, riservando a se stessi il servizio sacerdotale e della parola, hanno dato vita al “diaconato” (il cui significato letterale è quello di “servizio”, non necessariamente sacrale, ma di “personale addetto alle mense”). Erano laici, scelti tra i fedeli, dediti alla carità: quella pratica delle mense appunto e dei poveri (già all’epoca molto numerosi). Il mondo ebraico considerava la povertà come punizione divina per la propria inettitudine. E’ bene non dimenticarlo. 
Puoi spiegarci in dettaglio il significato dei tre munus? Facendo soprattutto riferimento alla realtà locale della diocesi di Foggia.
Intanto “munus” vuol dire “dono” per un servizio, prima alla comunità cristiana e poi perché questa si faccia serva del mondo. Tutto il cristianesimo è impostato sulla falsariga di un dono che ci viene dato da Dio, perché noi lo si metta a servizio dell’umanità. Quello sacerdotale è il primo che ha preso piede nella comunità cristiana, perché da subito si è compreso che il sacrificio di Cristo sulla croce, sostituiva pienamente quello antico che si praticava nel tempio di Gerusalemme. La storia della cacciata dei mercanti dal tempo la dice lunga sul degenerarsi di questa pratica rituale al tempo di Gesù. Qui sacrifici finiscono simbolicamente quando si squarcia il “velo del tempio”, quello che separava nettamente il luogo dei sacrifici dallo spazio riservato agli offerenti e alla comunità, (tradizione del resto comune a tutti i templi dell’antichità). Nasce un nuovo sacrificio (eucaristico) che san Paolo teorizza abbondantemente nelle sue lettere alle comunità.
Nasce quindi una religione del tutto nuova? Ma nuova in che senso? Poi perché nuova se in fondo si tratta solo di un cambiamento di riti: da quelli pagano-ebraici a quello cristiano. Si capisce che la vittima non è più l’agnello, ma lo stesso Gesù. Basta questo per parlare di assoluta novità?
Hai ragione forse non è del “tutto nuova”, almeno che non si entri nel sistema cristiano. Certamente nuovo è il sacrificio, quello di Cristo, nuovi sono i sacerdoti (presi dal popolo e non più da una casta sacerdotale o levita), nuova è la religione, che pur esce dalla visione personalistica del Dio della storia del mondo ebraico, ma che recepisce anche l’homo religiosus, che si rivolge “naturalmente” a Dio, come sia la psicologia dell’età evolutiva (che da Piaget in poi non fa che evidenziare) e la stessa storia dell’umanità, dalla preistoria ai giorni nostri continua a registrare (nonostante duemila anni di cristianesimo: basta pensare ai riti sacrali del nostro Gargano, che mia madre sapeva ben utilizzare (l’uria e l’unzione con l’olio della testa del malato), pur essendo una devota cristiana a tutto campo).
Quindi il munus sacerdotale è ancora legato fortemente alla dimensione naturalistica della religione? Un ragionamento difficile da capire.
Certamente. Oggi in maniera un po’ maldestra molte parrocchie foggiane concedono qualcosa al devozionismo religioso, bollato come “religione popolare”, da assecondare e non contrastare più di tanto, altrimenti le chiese si svuotano degli ultimi fedeli. Allora ben venga la stura a processioni, novene, pellegrinaggi, rosari, più o meno meditati. La stessa liturgia delle ore, che molte parrocchie a Foggia hanno iniziato ad adoperare, vengono “digerite” allo stesso modo delle tante pratiche devozionali. Per molti preti giovani è una “concessione”, qualcosa pur di accontentare il popolino. Ma è un grave errore pastorale. L’homo religiosus naturale incontra la “rivelazione cristiana”, ma questa non deve “soppiantare o sostituire quella naturale”, è un incontro non una sostituzione. Concetto assai difficile da capire. Il cristianesimo combatte il peccato, non la religione naturale, che peccato non è mai stato. Anzi. L’essere naturalmente orientato verso Dio, sia pure con pratiche (pagane), non è tout court peccato. Guai a pensare cose del genere. Si fa solo confusione. Il peccato rimane quello di far del male al prossimo, che nessuna religione seria potrà mai avvallare, neppure in nome di Dio.
Gli altri munus, quello profetico e quello regale, se ho ben capito, sono legati alla figura del sacerdote o possono essere distinti, come dai modo di intendere con queste tue riflessioni?
Per consuetudine, sbagliata, si è fatta passare l’idea che il sacerdote (quello consacrato) sia il prescelto cui sono destinati tutti e tre i doni di grazia del Signore: li si sintetizza e li si riassume nella sola persona del sacerdote, parroco di una comunità cristiana. Ma così non è e così non è mai stato. Lo stesso concilio Vaticano II, ha cercato con la “nozione di popolo di Dio” e di “popolo sacerdotale”, di dare una svolta a questa visione da “neo-casta sacerdotale”. Il munus profetico, quello della parola, per semplificare, è offerto a tutti i cristiani. Ancora più semplificato: è quello dei catechisti e degli educatori della comunità parrocchiale, degli uomini di cultura che sanno parlare di religione, dei professori di religione nelle scuole, dalle materni all’università. Certo che per fare questo bisogna rivedere tutta la formazione del nostro laicato, volutamente lasciato nella sua ignoranza. Non basta essere una brava e bigotta mamma per “fare un po’ di catechismo”. Ci vuole ben altro. Ci vuole scuola, cultura, formazione, studio. A Foggia volutamente o stupidamente si è voluto affossare l’unica scuola orientata in tale senso. Ogni campione curiale si è fatta la sua scuoletta di formazione: quattro incontri, quattro nozioncine e la storia è finita là: pronti per essere immessi nel mercato della pastorale, con una formazione sempre abborracciata e finalizzata all’uso e getta. Nella scuola di teologia da me diretta per quasi dieci anni, ne abbiamo prodotto cinqucento professorini di religione e nessun laico pronto per la pastorale. Unica eccezione i diaconi: utilizzati per la più per la liturgia.
Il munus regale è il terzo da quelli da te citati. Ma cosa significa veramente? Devi ammettere che usi un linguaggio da iniziati. Non è comune sentire parlare di munus e di impegni diversificati all’interno di una parrocchia. Ho davanti le parrocchie di Foggia e la gente che le frequenta. Sembra un discorso da extra terrestre.
A volte va usato un linguaggio tecnico. Non capisco perché per la medicina e la scienza non fa problema il linguaggio tecnico e quando si parla di religione si vogliono sempre discorsi in soldoni…per la povera gente che non capisce i paroloni. Comunque munus vuol dire dono, e quello regale riguarda l’attività pratica e caritativa dei cristiani. Esso va affidato ai laici e non certo ai preti consacrati, che fin dal tempo degli apostoli dovrebbero avere ben altro cui pensare. E’ il munus che presiede la carità: quella carità che la comunità parrocchiale deve svolgere verso il mondo.
Così non si rivoluziona troppo l’attuale sistema, forse un po’ statico, ma ben stagionato delle realtà parrocchiali cristiane?
In una visione di cristianesimo del prossimo millennio ben tre dovrebbero essere i pastori di una comunità “parrocchiale”: il sacerdote, l’uomo del sacro e del culto, il pastore, l’uomo dell’organizzazione parrocchiale, e il responsabile della carità, l’uomo che presiede tutte le attività extra-menia della comunità cristiana. Il cristianesimo non può concepire i tre munus tutti rivolti al proprio interno: dal produttore al consumatore. Sarebbe, com’è, un vero disastro. Forse il cristianesimo è l’unica religione al mondo che dice senza mezzi termini che ci si può salvare anche senza essere cristiani, anche senza credere in Dio e senza mai aver incontrato Gesù Cristo. E’ il messaggio che scaturisce dal giudizio universale, cui molti della chiesa, preti e non preti, sembrano voler mettere la sordina. Invece va gridato a gran voce: ci si salva solo se si fa del bene al prossimo. Perché solo e solamente su questo verremo giudicati.
Allora, da quello che tu dici, non è più necessario andare in chiesa?
A rigor di logica no, se si opera il bene. La religione cristiana è un potente, anzi potentissimo mezzo, per attuare il comandamento evangelico della carità. Ma se a questa carità nessun cristiano e nessuna comunità cristiana ci arriva: meglio sarebbe come dice il vangelo per gli scandali (perché questo è lo scandalo peggiore dell’attuale chiesa di Cristo) legarsi una macina al collo e buttarsi in mare. La carità non è un optional della religione ma è il suo scopo, il senso di tutta l’azione nata dalla morte e risurrezione di Cristo. Ci ha salvati per renderci servitori dei nostri fratelli. La lettera di san Giacomo che i protestanti fanno fatica a ritenere canonica proprio questo dice: “lavorate solo per i ricchi? Per chi viene in chiesa, per chi sta bene? E trascurate i poveri? Ma a che gioco giochiamo?".
Applicando queste teorie alla chiesa di Foggia, cosa vorresti aggiungere?
Non è la peggiore chiesa del mondo. Certo non abbiamo avuto vescovi, dopo mons. Farina, forse all’altezza del loro mandato. Personalità a volte perverse, a volte inette, spesso equilibristi tra varie tensioni e lobby. Un contentino da una parte e un cazziatone dall’altro, così giusto per restare a galla e in equilibrio tra varie tensioni. Un governo del tirare a campare. Mons. Farina faceva della cura del clero il primo impegno del suo essere vescovo. Altri hanno fatto altre scelte e i risultati mediocri, se non disastrosi sono sotto gli occhi di tutti. Che fare allora? La chiesa di Cristo non scompare certo per i suoi inetti pastori. Ma come dice la bibbia, lo Spirito soffia dove vuole e può far nascere figli di Abramo anche dalle pietre. L’analisi è forse troppo realistica, ma la speranza non di certo, per costituzione guarda sempre in avanti e vive di parousia: cioè di attesa già che tutto questo può e deve pur sempre cambiare.

martedì 7 luglio 2015

TUTTA LA SICILIA MINUTO PER MINUTO DAL 25 GIUGNO ALL'8 LUGLIO 2015: "LETTERE DALLA SICLIA"

25 GIUGNO: L'ACQUA CHE NON C'E' 

L’antifona ha cominciato a suonare male fin dal primo giorno in Sicilia, in casa del mio amico di Licata: “non sprecare l’acqua”, “apri e chiudi il rubinetto del lavandino quando ti lavi i denti o ti fai la barba”, “prima ti insaponi senz’acqua e poi apri l’acqua della doccia”, “non bere l’acqua dal rubinetto”. Mi sembravano tanti avvisi, “keep out” con relativo teschio e ossa in croce, da campo minato: restrizioni antiche, da Foggia assetata, che avevo proprio rimosso. Un tuffo nel passato, quando anche da noi l’acqua delle fontanelle e a casa, senza l’autoclave, veniva a mancare sempre nel momento più necessario, attorno all’ora di pranzo o poco dopo e io bambino che, tornato a casa, accaldato dopo una partitella di calcio, bevevo la prima cosa che stava in un bicchiere e spesso era acqua e candeggina, usata da mia madre per lavare i panni. Ci sono cascato ben due volte da ragazzo e all’ospedale non ero il solo, ma eravamo in tanti, in coda per la più classica delle lavande gastriche. L’odore acre e il vomito verdastro è tutto quello che mi ricordo. Ma mi spavento ancora. Altri ci morivano pure. Insomma anche ad Agrigento e dintorni l’acqua è diventata più preziosa dell’oro, soprattutto quando ha cominciato a gestirla una ditta privata appaltata dai comuni, la “Girgenti acque”, un nome che è un programma, con bollette che fanno tremare i polsi a tutti i cittadini dei 43 comuni della provincia. Ogni tre mesi puntualmente avviene il salasso organizzato da questa società che ha il monopolio delle acque. Bollette da capogiro, al cui paragone quelle dell’Enel sono regalini di natale sotto l’albero. Ma andiamo per gradi. Agrigento aveva due splendidi fiumi all’epoca cartaginese-romana, che fiancheggiavano la valle dei templi. Da tempo prosciugati o fatti prosciugare, non si bene quando, come e da chi. Punto numero uno. Punto numero due: il sottosuolo è ancora ricco d’acqua, bastano i pozzi artesiani e almeno per l’agricoltura la cosa dovrebbe essere risolta. Ma, punto tre: è proibito assolutamente scavare pozzi. Punto quattro: tutte le case della provincia di Agrigento si sono rifornite, come a Foggia nei tempi duri, di vasche sul tetto e autoclavi nei box. Perché l’acqua viene erogata ogni tre giorni, “quando va bene” mi dicono, e se non hai le riserve in casa, puoi anche lavare, cucinare e bere con l’acqua minerale. Ma non è finita qui. Il mio amico a parte limitarmi nell’uso dell’acqua mi ha anche tassativamente proibito di berla. E ora si capisce perché. E’ acqua stagnante di autoclave e per giunta senza il necessario cloro. Insomma una cosa da deserto del Sahara. E Licata sta sul mare e da anni oramai usano i desalinatori, che qualcosa fanno, oltre a dare un pessimo gusto all’acqua. Peggiore è la situazione dei paesini di montagna, come i nostri sull’Appenino Dauno (ma da quelle parti l’acqua non è mai stato un problema). Ne ho visitato uno, Casteltermini, 7.500 abitanti, disoccupazione giovanile quasi all’80%, agricoltura e fabbriche tutte chiuse. L’acqua non ce l’hanno neanche con i pozzi artesiani. Le industrie a una a una se ne sono andate lasciando un paese di pensionati, con pensioni da fame, se si eccettuano i privilegiati ex-schiavi solfatari, per loro è d’oro 4-5mila euro al mese. La storia me l’ha raccontata un vecchio collaboratore del parroco, amico siciliano, che ha avuto la “fortuna”, dice lui, di sostituire a quindici anni il padre malato, nell’unica solfatara del paese che dava da mangiare a metà paese. “Estrarre lo zolfo è diventato sempre più costoso e da una decina d’anni è tutto chiuso”, mi ha detto allargando le braccia. E poi i racconti di miniera, manco fosse un secondo “Ciaula scopre la Luna” di Pirandello. Vita dura, quella in miniera, a cominciare dall’aria che non c’era, dall’umidità che si appiccicava alla pelle e vi restava attaccata anche quando la si voleva lavare con la poca acqua a disposizione in casa. Ha detto “vedi qualche giovane in città? Solo vecchi e bambini”. Eravamo 18.000, ora 7500 e tutti avanti con gli anni. Facciamo sacrifici d’ogni tipo e poi arriva il Girgenti ad alleggerire ogni tre mesi le nostre pensioni. Tutto vero, l’ho constatato di persona. La fabbrica dal tetto di lamiera chiusa e fatiscente, laggiù a valle. I bambini che giocavano all’oratorio, vecchi per le strada, con la faccia stanca e segnata da rughe antiche. In compenso hanno il mare, non quelli di Casteltermini, ma quelli di Licata sì: un bel mare pulito come una piscina, mosso quanto basta, guastato di tanto in tanto da qualche cadavere devastato dagli squali. Già dall’altra parte di questo canale di Sicilia c’è gente che sta peggio di loro. Ma questa è un’altra storia.



27 GIUGNO:
TUTTA COLPA DI ESCULAPIO. 
LA VALLE DEI TEMPLI: UNA FEDE ANTICA

Avevo sentito parlare della “Valle dei templi” nella piana sottostante Agrigento, città sicula-greco-romana del VI secolo avanti Cristo, ma non c’era mai stata occasione di visitarla. E così mi sono ritrovato in questi giorni, ospite di un generoso amico siciliano, a poterne percorrere le vie e visitarne le vestigia, senza la solita fretta del turista, giapponese tutto scatti-sorrisi- e-via, e con una guida (che ha voluto solo si fa per dire dieci euro a testa) tanto discreta quanto forse inconsapevole partecipe di una “visita” che alla fine ha sortito l’effetto di un ritiro spirituale. Ma questo la guida non poteva immaginarselo. Tre tassisti (tre euro a persona, e cinque in una macchina fanno quindici euro per un tragitto di due minuti) ci hanno portato sul punto più alto della valle, al cosiddetto tempio di Giunone. Così finalmente dopo il ticket d’ingresso (10 euro a testa e siamo a quota 23), il pellegrinaggio ha potuto muovere i primi veri passi, pedibus calcantibus, per le impolverate strade della città sacra. Insomma un tour turistico-religioso. tra i templi, in tutto dieci, ma solo cinque salvati dalle devastanti, si fa per dire, fatiscenti, quanto si vuole, ma ruderi imponenti di una religione, troppo sbrigativamente bollata dai cristiani per “pagana” e quindi di scarso interesse se non culturale. Una domanda mi ha seguito per tutto il tempo e le tante viuzze di questa cittadella degli dei: “ma chi ci ha dato tutto questo diritto di declassare a “religione naturale”, una così ricca e vitale religione capace di creare santuari tanto imponenti e ancora oggi pulsanti di vita? E vada che si tratta di un movimento naturale che dall’uomo va verso Dio, ma si chiede forse troppo se esso s’intrecci con quello che da Dio va verso gli uomini, delle cosiddette religione rivelate? In quelle “naturali” la vita, almeno a vedere queste imponenti vestigia, sembra stare al centro o al primo posto, in altre religioni il sopravvento del “rivelato”, non sempre scevro da ideologie a buon mercato, sembra essere riletta e reinterpretata fino ai disumani sanguinari discendenti di Maometto, che in nome di un loro unico e presunto Dio ispiratore, scannano e fanno strage di persone e di cose. E’ la vita che sembra essersi allontana in queste religioni. In questa valle polverosa e per certi versi desolata sembrava essere un altro il senso della vita: ogni tempio ne esaltava uno dei suoi aspetti vitalistici. Forse agli animalisti dell’ultima ora può risultare indigesto il massacro di cento tori (un’ecatombe) sacrificati nelle principali feste religiose, ma tutto era centrato sull’uomo e la sua terrena esistenza. Tutto sembrava armoniosamente intrecciarsi in questa valle sacra: dalla fecondità  (il tempio di Giunone), al potere (il tempio di Zeus), al contropotere (il tempio dei Titani), alla vita di tutti i giorni nei tempietti minori dei Dioscuri e di tante altre divinità della natura, per poi concludersi nella la “clinica religiosa”, come l’ha definita la nostra guida, del tempio di Esculapio. Templi e necropoli che si rincorrono per tutta la valle. Il contrasto è tutto qua, almeno sembra: la vita in tutti i suoi aspetti, nella religione cosiddetta naturale, e un’altra vita, spesso costruita a tavolino, di come “dovrebbe essere quella rivelata direttamente da Dio”. Anche se poi gli stessi riti della vita e della morte le attraversano entrambe. Chi guarda comparativamente le cose, ci vede poche differenze, e purtroppo visto le stragi prodotte dalle cosiddette religioni rivelate o presunte tali, in tutta la storia del mondo, non c’è da stare molto allegri, qualora prendessero il sopravvento. E intanto si passava da un tempio all’altro troppo soprappensiero per me, in un’inaspettata cittadella della fede. Imponenti ruderi divenuti tali grazie ai cristiani conquistatori che li avevano trasformati in cava a cielo aperto e a buon mercato per le loro chiese quello dell’”unico vero Dio” e senza pagare alcun biglietto. In contrasto chiese nuove ma costruite con materiale antico e a volte senza l’accortezza di cancellarne i simboli e i riferimenti pagani come avvenuto per Roma e tante altre città dell’impero. La conclusione “rivelatrice” è stata proprio il tempio di Esculapio, là più a valle. In esso l’adorazione del Dio della medicina e l’invocazione della grazia si intrecciava con la cura, la migliore del tempo. Passando per quella valle si rimane impressionati, quasi sgomenti davanti a tanta forza religiosa e se si vuole anche tanta forza morale. Su tutto domina il silenzio neppure rotto dalle tante comitive di turisti che si perdono e si disperdono in quei quasi due-tre chilometri quadrati di area sacra, senza accavallarsi o interferirsi, in un itinerario che non poteva non diventare religioso e mistico di fronte a tale profluvio di chiese e chiesette di una religione, forse morta prima di suo che per diretto influsso delle tante successive, certamente più agguerrite e forti per ideologia. Dopo circa tre ore abbondanti si chiude la visita, o forse la giornata di ritiro spirituale. Si esce dall’area sacra per ritornare alla vita profana, lontana chilometri da ogni tipo di religione sia essa naturale o rivelata. Ci pensano le bancarelle di souvenir e i distributori automatici di graditissime bibite ghiacciate a cancellare quello che partito come gita turistica si era trasformata in ritiro. L’imponenza della valle e dei suoi templi rende patetiche tante nostre chiese e chiesuole cosiddette cristiane, spoglie fino al minimalismo architettonico, a volte asettiche come tante corsie d’ospedali, ridotte a luoghi di convivialità e d’incontro più che di preghiera e intimità mistica con Dio, come avevano ben capito i pagani e soprattutto sempre più lontane da quella dimensione vitalistica e di ritmi di vita che questa valle ricorda con tanta forza. Nessuno vuol tornare al vitalismo delle religioni antiche, ma che almeno in nome di Dio, Geova o Allah, ci si ripieghi sui problemi degli uomini invece di allontanarsi da essi. La domanda resta: chi ci ha fatto dimenticare la religiosità dei ritmi delle stagioni e della vita? Chi ha paura che un rosario possa inquinare una messa, o una processione di incappucciati far ritornare al tribalismo preistorico? Se una pulsione religiosa naturalistica ha dato vita a una cittadella degli dei, tanto imponente e significativa, capace ancora di impressionare dopo duemila e cinquecento anni, qualcosa di grande e di significativo per l’uomo d’oggi dovrà pur esserci, anche se ebreo, cristiano o mussulmano. Troppa sufficienza ci porta a fare i turisti sorrisi-flash-e-via, mentre sarebbe tempo di cambiare passo. Dalla morta valle dei templi la vita, quella vera degli uomini, pulsa ancora. Una lezione da imparare. Un’ultima domanda: come mai una normalissima gita turistica si è trasformata in un ritiro spirituale? Di chi la colpa? Certo dell’imponenza di ruderi e del ricordo vivo delle tante celebrazioni che in essi si rincorrevano per tutto l’arco dell’anno e delle stagioni. Ma dobbiamo confessarlo è stata tutta colpa di Esculapio: il Dio della medicina, un tempietto minore, laggiù in un angolo in fondo alla valle, dove si adorava un Dio che prometteva salute e benessere, all’uomo sofferente di oggi, più che paradisi futuri semmai ricchi di belle donne e di tante altre gioie. Davvero è tutta colpa di Esculapio.



28 GIUGNO: 
LA FEDE RITROVATA 

Ero già stato a visitare Monreale e Cefalù, i due capolavori dell’arte normanna in terra di Sicilia. Mi mancava, perché quel giorno chiusa, la Cappella Palatina a Palermo. Questa volta è stato possibile. E’ proprio vero, da queste parti le cose di cultura, arte, storia, che le altre regioni pur ti offrono a spizzichi e mozzichi, sono date a piene mani, non in un solo esemplare, ma in dieci, cento, in un progress di straordinaria ricchezza e bellezza. La stessa impressione per le chiese di Noto e Ragusa Ibla, veri gioielli dell’arte barocca siciliana, visitate l’altro ieri. Le chiese, si sa, sono luoghi di culto e spesso esprimono, bene o male, la fede della gente che le ha edificate e consegnate alla storia. In una discontinuità che impressiona, invece, molte delle nostre chiese sono spesso capannoni o garage riadattati, costruiti in fretta, con poca spesa e diciamo pure senza troppa fede. Pur di avere in poco tempo “un’aula liturgica”, come dicono gli esperti, ogni ambiente, garage, capannone, stanzone va bene: “la gente non può attendere i cento anni che ci sono voluti per la fabbrica di san Pietro”, dicono. E’ proprio in questa frettolosa realizzazione di strutture religiose, che si percepisce a volte non solo la mancanza di buon gusto e di arte, ma più spesso di fede e di quella vera. Mi ha detto un prete siciliano incontrato davanti alla cattedrale di Ragusa che, meno male che il materiale utilizzato per queste rabberciate chiese moderne è spesso scadente, fatto di cemento, ferro e colori acrilici, che presto si dissolveranno, per poi scomparire con noi, così non saremo giudicati male dalle future generazioni. Celebrare una messa o un sacramento è un atto sacrale a tutti gli effetti e necessita di tempi e luoghi adatti. Sopportiamo malamente che qualcuno nella storia abbia affermato che “Parigi val bene una messa”, ma così non è e non può affatto essere. La messa e le celebrazioni liturgiche sono altra cosa che puro formalismo religioso, cui sottostare per obbligo o interesse. La Cappella Palatina e le chiese barocche di Noto e di Ragusa questo vogliono farci intendere. Le loro navate da sogno, che sanno di paradiso, le splendide icone, gli sfondi dorati, gli intarsi multicolori, la successione di scene bibliche alle pareti, sono il segno di una grande fede: un’anticipazione sulla terra proprio di quel paradiso, promesso ai buoni. Quando il prete dice “questo è il mio corpo” e “questo è il mio sangue”, compie l’atto magico per eccellenza della nostra religione e si addentra in un mistero che l’abitudine ha reso, in alcuni casi, persino banale nella sua stentorea ripetitività. Molta colpa di questa banalità va anche addebitata a un ambiente, nel quale quelle sacre parole si disperdono in un minimalismo architettonico, disadorno e asettico. Tutto ha inizio da certi androni delle nostre chiese, tappezzati di ogni tipo di manifesti e manfestini, sempre più simili a edicole di giornali. Provate a vedere l’ostia alzata e tenuta alta per qualche minuto, nella prospettiva del Cristo Pantocrator della cattedrale di Monreale, Cefalù o Cappella palatina o con lo sfondo barocco della cattedrale di Ragusa: dietro quell’ostia appare tutta l’imponenza di una figura che ti convince, senza ulteriori sforzi di fantasia o di fede sublimata, che sei in presenza di un Dio che ti è vicino, ti ama e ti salva. Quel Cristo che si sta reincarnando in quell’ostia, è lo stesso che ti guarda tra il severo e l’amorevole da absidi da favola, che ti fa innalzare verso il cielo col movimento delle volte e degli archi spezzati di un baracco pieno di sacralità: c’è continuità religiosa non discontinuità di fede tra la loro visione e la nostra. O provate a dire “questa volta sulla terra”, come dicevano gli ebrei, sospirando la terra santa, e la “prossima in paradiso”, che dovrebbe essere il nostro sospiro di cristiani, in un abside bianco smorto, con un  incombente Cristo, morto-insanguinato da una croce. Il contrasto si fa vivace tra due modi di intendere la fede e la religione: da un lato il Cristo pantocrator, vivo che ispira vita, come i tanti simboli dell’eucarestia sparsi per le chiese barocche, e dall’altra un Cristo crocifisso, sofferente in eterno (realtà pur sempre vera e necessaria al cristianesimo ma solo a partire da una certa data divenuto predominante), troppo spesso accompagnata da una Addolorata, con sette spade conficcate nel cuore. Sarà a volte una questione di gusti o di visioni del cristianesimo, personalmente il primo mi attira e mi entusiasma di più, il secondo a volte irrita per una resurrezione che tarda a venire. Preferisco pensare alla chiesa come al luogo dei beati sulla terra, che inneggiano alla risurrezione del Cristo, in attesa del suo ritorno, e da questa esperienza attingono forza e coraggio per aiutare il mondo sofferente e bisognoso. Preferisco vivere quest’esperienza mistico-religiosa, qual è appunto la messa,  avvolto dall’oro dei mosaici palatini, sui quali si stagliano dopo il Cristo risorto e glorioso, le immagini altrettanto solenni di Maria, degli apostoli e dei santi, colti nello splendore del paradiso e proprio in quello stesso momento ti stanno osservando e sostenendo nella fede. Quegli sguardi che ci vengono da un modo pensato bello e beato sono un invito a fare presto e bene nella carità, per entrare a far parte anche noi quanto prima di quella stessa schiera beata. Questa è chiesa, questa è aula liturgica che invita alla gioia e alla speranza, non certo certe stamberghe, garage o stanzoni impropriamente chiamati luoghi di culto. Per far raggiungere ai fedeli quei livelli di fede, in certe nostre chiese, c’è quasi bisogno di un miracolo. Qualche settimana fa ho detto la messa a San Ciro a Foggia per un ragazzo morto d’infarto. Non riuscivo ad alzare lo sguardo sulla navata, scarsamente illuminata e meno male, perché attenuava quel colore giallo paglierino, più simile a cacca di bambini che all’oro della cappella palatina, con il quale qualche prete, forse daltonico, aveva pensato bene di affrescarne le pareti. E poi ci si meraviglia che la gente viene in chiesa, spesso in ritardo e “per dovere”, vi sta lo stretto tempo necessario, per poi scapparsene, come un fiume in piena, appena il sacerdote dite “andate in pace”, che suona più come liberazione che un invito alla pace e alla gioia da portare nel mondo. Ecco tutta qui la differenza. Altra cosa da una cappella bianco smorto, con un Cristo enorme che ci sovrasta dall’abside, nella quale ogni mattino mi tocca celebrare l’eucarestia, sempre con la fretta che alle 8,30 inizia la scuola e si deve correre a fare “il proprio dovere”. Bianco l’abside, bianca la navata, bianco vestite le suore, per un momento di apnea mistica, interrotto solo dal marrone chiaro del Cristo e il marrone scuro delle tre porte, sempre rigorosamente chiuse, che non fanno passare neanche l’aria, visto che non danno sull’esterno ma in altri ambienti della casa. “La chiesa come il cuore della comunità” avevano pensato il Vescovo Farina e il suo architetto, ma si erano dimenticati che quel cuore ha bisogno d’aria, e d’aria pura e di colore oltre che di colore, per ricordare appunto il rosso vivo pulsante di un cuore, altrimenti diventa asfittico diluito in un onirico biancore. Qualcuno dirà “troppa sensibilità di questo tipo può dare alla testa, in fondo una messa è valida dovunque e comunque essa venga celebrata”. Questo sarà vero, per dogmatici e catechisti dell’ultima ora. Com’è vero che l’importante in fondo è mangiare, poi che si mangi con tanto di tovaglia, doppi bicchieri, tovagliolo di stoffa, posate e un regolare primo, secondo, vino e frutta, o in un fast food alla MacDonald con posate di plastica e tovagliolini di carta, la differenza è minima. Mi ricorda quel parroco americano che metteva tutto nello stesso piatto, antipasti, primo, secondo e frutta, e poi faceva una seconda ripassata con gli stessi ingredienti. A me allibito che osservavo la scena mi diceva “ma che vuoi, sempre nello stomaco vanno a finire”, inutile controbattere. Lascio con una pena nel cuore questi angoli di paradiso, visitati forse troppo in fretta. So che fra non molto dovrò tornare al biancore spento della mia cappellina feriale. Potrò dire d’essere stato in paradiso, almeno per qualche giorno, sarà più facile sopportare così il purgatorio o se si vuole l’etero limbo, nel quale mi tocca pur vivere ancora per un po’.



7 LUGLIO: 
L'ACCOGLIENZA FAMILIARE: 
L'ALTRA FACCIA DELLA SICILIA, 
ALTRO CHE MAFIA

La battuta più infelice che mi è capitata dire in questi giorni è stata a san Cataldo quando ho chiesto a un amico del sacerdote che mi ospita: “oltre alla mafia qual è il lavoro da queste parti?”. Mi ha guardato storto ma si è subito ricreduto, quando ho detto al mio interlocutore che a Foggia (citta non certo mafiosa?) da qualche tempo salta per aria un esercizio al mese. Il lavoro, almeno quello agricolo a San Cataldo, città originaria dei parenti di Padre Peter, il parroco americano di Vineland, ce n’è ed è tanto. Mi ha sorpreso invece l’amicizia tra i due ex commilitoni, il parroco e l’architetto, che pur vivendo a pochi chilometri di distanza non si erano visti dal giorno del congedo militare, e si sono abbracciati come due ragazzini, raccontando aneddoti e fatterelli da caserma. E’ proprio questo che balza agli occhi tra la gente di Sicilia: l’amicizia, la familiarità, il bacio su tutte e due le guance, anche se ci si è incontrati la mattina di quello stesso giorno. Sono diventato amico della famiglia del sacerdote che mi ospita e ho notato un certo disappunto quando il primo giorno li ho salutati con una normalissima stretta di mano, non conoscendoli ed essendo io timido di natura. Loro si aspettavano un bacio, proprio di quelli che ogni giorno a profusione si scambiano gli adolescenti della nostra città, come vecchi amici che non s’incontrano da anni, mentre forse è passata solo qualche ora. La familiarità e l’accoglienza sono la nota caratterizzante di questa gente. Si dirà ecco la fonte del “mafismo siciliano”: è un abbaglio. Forse la “famiglia mafiosa” ha solo preso a prestito la normale e comunissima familiarità tipica della gente di Sicilia per mimetizzarsi, far apparire che in fondo sono gente normale: s’incontrano, si salutano, si baciano e poi pensano chi intimidire o peggio far sparire semmai con la lupara bianca e il famoso sasso in bocca per i più ciarlieri. Grazie agli Sciascia e Camilleri che su queste storie hanno scritto romanzi, facendo anche la loro fortuna. I Quasimodo, i Verga e i Pirandello avevano altro per la testa. Qualcuno in Italia ha troppo presto dimenticato che la mafia, da queste parti come da noi i Briganti, è una realtà fatta nascere, crescere e prosperare dai nostri cari piemontesi, visto che le cronache borboniche non ne parlano mai; che dopo e solo dopo l’impresa dei mille, come una pietra nella piccionaia, a migliaia se non a milioni i siciliani se ne sono scappati dalle loro terre (o meglio cacciati) e hanno preso la via dell’oceano per non perdere lavoro e dignità; che ogni governo, sia monarchico che repubblicano, e addirittura i puritani americani, hanno preso accordi continui, sottobanco e non solo, per far sì che la mafia tenesse a bada questa voglia di riscatto e di libertà, che la seconda guerra mondiale aveva solo fatto conoscere al mondo, ma che qui era viva e palpitante da sempre. I libri di storia, quelli studiati a ridosso dei cento anni dell’unità d’Italia (“Italia ’61”, manco fosse un campionato mondiale di calcio), non facevano che esaltare Cavour, Mazzini e Garibaldi, uno politico senza scrupoli, l’altro visionario e l’altro ancora guerriegliero ante litteram, ma tutti eroi nazionali e per giunta massoni (ma questo termine a noi non lo spiegavano, sembrava addirittura un termine religioso, rafforzati da simboli, come il grembiule e la croce che a questo alludevano), mettendo la sordina a tutto il macello, nel senso più vero del termine, che la banda di camicie rosse andavano disseminando per tutto il Sud, liberandolo, dicono loro, dall’oppressione borbonica, mai così sanguinaria nel suo regime pur totalitario e non monarchico costituzionale, come Deliceto docet e non solo. Chissà poi perché è dal sud che nasce il sindacato alla Di Vittorio e alla Giovanni Coniglio, un sindacalista molto noto da queste parti, nonché nonno del sacerdote che mi ospita, e il cui elogio funebre fu tenuto dallo stesso Enrico Belinguer nel ’57, già politico nazionale affermato. Un sindacalista-comunista, che faceva della solidarietà sociale e comunista il suo credo, così di mi diceva la figlia, che spesso prendeva il pane dalla dispensa e lo dava ai poveri.  Mandato al confino, durante il fascismo, proprio dalle nostre parti, alle Tremiti, un nome che ci avvicina e che ritorna spesso tra i racconti di questa famiglia. E ancora non è un caso che don Sturzo e l’attuale presidente Mattarella siano siciliani. C’è e soprattutto c’era qualcosa che sa di malevolo pregiudizio per la gente di Sicilia, costruito ad arte sul nulla e alimentato per lungimirante convenienza, sempre a favore di quelli del nord, ovviamente,  puritani peggio degli americani (almeno a chiacchiere) e ladri come tutti in Italia (adesso ce ne stiamo accorgendo anche noi del sud: il Mose di Venezia e gli appalti truccati per l’Expo stanno lì a ricordarcelo). Da queste parti come antidoto, c’è il sacro detto “e tu futtitinni” (tradotto e “tu futtatenne”), perché il tempo sarà galantuomo e darà a Cesare quel che è di Cesare. L’arte, la storia, la cultura, il mare, le spiagge da sogno, ci sono e vengono offerte a piene mani ai turisti (più stranieri che italiani), c’è la familiarità di un popolo, aperto e generoso, che si saluta quotidianamente con un bacio e una abbraccio di pace come se non si vedesse da mesi, e poi c’è anche, come oramai in tutta Italia, chi imitando, famiglia, baci e abbracci, pensa e agisce da delinquente, sempre rubagalline, che con il tempo mira sempre più in alto. Un cancro, meglio un virus, contro il quale da queste parti da tempo gli abitanti hanno attivato gli antivirus. E pur si vive, tra mangiate che mi hanno fatto salire il diabete a 160, ogni picco è una piccagione, dicono da noi, ma forse il detto non è che sia molto pertinente. Fra qualche giorno dovrò dare l’arrivederci (non certo l’addio) a questa gente e a questa terra. Mi dispiace che quindici giorni siano volati come il vento. Troppe cose da vedere, troppe ancora lasciate per i prossimi tour, troppa gente da avvicinare e capire, tanti gusti da assaporare, diabete permettendo, tanto mare e tante altre isolette, come Lampedusa, famosa in Italia e nel mondo per la sua generosa accoglienza, Linosa, Lipari, Stromboli isole da sogno da visitare. Già perché da sempre la Sicilia, lo sanno bene i cartaginesi, i greci, i romani, gli arabi, i normanni, i francesi, gli spagnoli questa è terra d’accoglienza che sa ricervere, ospitare e conservare per la storia. Grazie Sicilia, ero venuto per un tempo di relax e mai pensavo che si trasformasse in ritiro spirituale e stage culturale. Alla prossima.