giovedì 11 giugno 2015

TUTTI GLI ARTICOLI DI MAGGIO E GIUGNO 2015




GLI ULTIMI ARTICOLI (MAGGIO-GIUGNO 2015)
….SE VE LI SIETE PERSI ORA SONO TUTTI QUI




L'articolo che vi mancava:
UN PRETE IN POLITICA....MA QUANDO MAI...E POI PER SERGIO CLEMENTE...
EBBENE SI' CI METTIAMO LA FACCIA
Nei seminari la mentalità era quella dell’osso. Me la ricordo bene. “Ti teniamo fatto, dicevano i miei compagni: anche tu sei uno di quelli che abbaia per avere l’osso e una volta in bocca, vedrai che smetterai d’abbaiare pure tu”. Che strano non ho mai smesso d’abbaiare. Quanto tempo devo ancora aspettare per il mio bravo osso-tappa-bocca mi sia dato? I compagni seminaristi non brillavano per intelligenza. Il loro era solo finta saggezza popolare, li chiamavo “i moderati sintetici a priori”, “predestinati al comando”. Lo stesso refrain, dell’osso in bocca, si ripresenta ogni volta che la mia figura balza alla cronaca politica cittadina. Adesso che stai “appoggiando la candidatura di Sergio Clemente alla regione, cosa speri di ricavarci?”. E’ difficile capirsi in politica. Giudizi in malafede e critiche gratuite, sono pane quotidiano. Sabato sera in un’affollatissima sala, tanto affollata che il doppio dei convenuti stava in piazza davanti a un maxi schermo godersi lo spettacolo, ci siamo avvicendati con l’On. Beppe Fioroni nel dare l’avvio alla campagna elettorale di Sergio Clemente. Chi te lo fa fare? Cosa speri di ricavarci? Mi hanno detto alcuni preti, anche giovani. Loro non sanno e non possono sapere. Sono scusati. Ma chi è Beppe Fioroni? Ex Ministro dell’Istruzione e personaggio di spicco del PD. Soprattutto chi era agli inizi degli anni settanta? Un ragazzo, studente dei padri Maristi, incontrato in una parrocchia, Sant’Andrea in quel di Pianoscarano, a Viterbo, che era tutto un programma, come borgo medioevale e come parrocchia. Un giovane, caposcout, alle prime armi e con tanta voglia di fare: intelligente, operativo, sempre disponibile: un vero animatore. Un’amicizia nata allora e mai interrotta. E, a Foggia, chi è e chi era Sergio Clemente? Un altro giovane, conosciuto agli inizi degli anni novanta, intraprendente politico alle prime armi, consigliere o forse presidente di circoscrizione, democristiano di ferro (poi popolare, Margherita, e poi nel PD), sempre pronto a spendere i pochi soldi messi a disposizione dall’amministrazione comunale, per attività e iniziative rivolte ai giovani. Fioroni e Clemente, dunque, dei perfetti “signor nessuno”, conosciuti quando erano perfetti sconosciuti e orgoglioso di questa amicizia durata negli anni. Qualcuno, che queste storie non conosce, potrà dire d’aver i puntato su “cavalli vincenti”, certo, rispondo “ma all’epoca non avevano ancora vinto nulla”. Conosciuti e stimati proprio perché pieni solo di tanta volontà di servizio e tanta disponibilità politica (da polis=città, popolo). Eravamo solo, tutti più giovani, accumunati dalla stessa “passione, coraggio, onestà” (come dal suo manifesto elettorale di Sergio). Ci siamo intesi da subito e ci siamo messi all’opera e non ci siamo mai persi di vista. “Ma perché proprio loro e non altri?”. Una volta le chiamavano “affinità elettive”, oggi chiamatela come volete, ma non con “salire sul carro del vincitore”. Di amici di quella stessa stagione ne abbiamo ancora tanti, ci mancherebbe altro, generazioni di scout e di azione cattolica (la moglie di Beppe, faceva l’animatrice dell’ACR). Tante storie, tante vicissitudini, tanti racconti da fare, semmai, alla sera, in cerchio attorno al fuoco, prima di andare a dormire sotto le tende e a volte sotto le stelle. Riscaldati da un falò, che prima ti arrostiva la faccia e poi ti entrava nelle ossa. Tutti amici, tutti ragazzi ai quali sono stati fatti discorsi sul servizio al prossimo, sull’impegno politico, sul darsi da fare per chi è in difficoltà. Il seme gettato non in tutti germoglia allo stesso modo, lo dice pure il vangelo. Ci ha accumunati, appunto, “passione, coraggio, e onestà”. Ha detto bene Sergio nel suo discorso inaugurale: “Don Fausto è uno che le cose non le manda a dire, è uno che ci mette sempre la faccia”. Perché Clemente e non Piementese o Luzi? Quando ero parroco ho sempre fatto incontri e dibattiti con tutti i politici, a qualsiasi forza appartenessero. Non più parroco mi sento libero di andare con chi mi piace e pare. Non Piemontese, non Luzzi: semplicemente perché non li conosco, non li ho visti all’opera, mai visti a fianco. Avranno lavorato con altri. Si facciano aiutare da loro. Niente di trascendentale, solo “dottrina sociale della chiesa cattolica”. Parole come “bene comune”, “sussidiarietà”, “solidarietà”, “partecipazione”, sono i tanti capitoli di una dottrina, sconosciuta ai più, preti e bigotti osservanti delle nostre chiese. Quando capita di vedere qualcuno che con esse ci si cimenta, è ovvio stargli vicino e a volte molto vicino. Possiamo sempre sbagliarci nelle scelte concrete e a volta puntare sui cavalli che non vincono o peggio ti “utilizzano”. Ma così l’amicizia dura davvero poco. E poi, per restare nell’immagine dell’osso in bocca: è sempre vero che non risica non rosica.





Ed eccovi come al solito l'articolo che vi mancava
SULLA MADONNA
Perché ci fidiamo ancora delle Madonne? La domanda non è né irriverente né polemica. E’ un dato di fatto: sempre più gente frequenta i santuari mariani, dovunque essi siano, e va dovunque c’è uno stormir di fronde mariane (per citare non solo più quale poeta), apparizione vera o presunta che sia. Fino a ieri era Lourdes o Fatima (quando scrivo è il 13 di maggio….in Cova d’Iria: da bambino pensavo fosse una località marina o il nome di un noto ristorante), oggi è Medjugorie, che se non ha il crisma della curia romana ha, in ogni caso, il favore crescente e inarrestabile del popolo. E dove sputa il popolo si fa un lago. C’è un amico che mi ha persino fatto vedere un video girato da quelle parti, dove si vede all’orizzonte una donna, splendente, vestita di sole (manco fosse l’Apocalisse), che si china verso i pellegrini osannanti. Sarà vero? Vero o no la gente ci crede e ci va. E’ pur sempre una risposta a tutto il razionalismo accomodante di certo catechismo e di certa predicazione domenicale, tanto dogmaticamente preciso e tanto incapace di scaldare i cuori e dare risposte di senso a chi ne fa richiesta. Hanno ragione loro: quelli che nel dolore e nella sofferenza (anche solo spirituale o di smarrimento) la invocano e la vanno a trovare, nei santuari o dovunque essa si manifesti. Ne hanno bisogno, come dell’aria che respirano. La Madonna è pur sempre una mamma, ed è per questo che di lei si fidano (del parroco meno). Una mamma di quelle straziate con una o sette spade sul petto, o quella ai piedi della croce di tante icone sparse per tutte le chiese del mondo, o quella michelangiolesca che tiene in braccio il figlio morto. E’ umana la madonna, come è umano il Cristo, quello dei vangeli, meno quello della teologia. Gesù e Maria ispirano fiducia, attirano, più di certi papi paludati e con la voce fioca e l’accento straniero. Scalda i cuori, il Gesù umano, che si fa compagno di strada agli smarriti e delusi discepoli di Emmaus. Di questo il mondo oggi ha bisogno, oppresso da tanta inutile tecnologia e politica fregapopoli, e da messaggi televisivi strappalacrime e vuoti. Anche della madonna, perché donna del popolo che tutti i poveri sentono immediatamente vicina. Sto celebrando la novena a santa Rita, la santa degli impossibili. Ieri c’erano solo donne in chiesa e mi sono un po’ meravigliato. Ma a pensarci bene, anche santa Rita è una di quelle sante popolane (fin dal 1300): una donna, una mamma, una vedova, che ha vissuto in mezzo a guerre e devastazioni, che è stata toccata fin da bambina dal miele delle api (secondo la leggenda), che ha sopportato un marito rozzo e attaccabrighe e dei figli altrettanto degeneri. Una santa del popolo che serve al popolo più di tanti santi dottori, che forse il popolo manco conosce né sa apprezzare. Già immagino i pretini di primo pelo, pieni di cianfrusaglie religiose ammannite in quel seminario baraccone di Molfetta, tronfio e supponente, che danno indicazioni (quando non costringono la gente) su come si “deve pregare” o su come “si deve stare a messa”, e giù a sciorinare lodi, vespri, ufficio delle letture, messe che la gente, anche se recitate in italiano (meglio il latinorum d’un tempo), proprio non capisce e si fa scivolare addosso. Il rosario quello sì che lo capiscono e tanto pure. Padre Pio l’aveva sempre tra la mani, per lui sostituto della recita dell’ufficio (con il permesso dei superiori: ci mancherebbe altro), dato che con l’avanzare degli anni, ci vedeva sempre meno. Sempre i pretini molfettesi, diranno, scandalizzati, inseguendo i protestanti e nuove sette, che di Maria ne abbiamo fatto una dea madre nella chiesa cattolica, che il detto “nunquam satis” (mai abbastanza) va applicato a Cristo, alla Trinità e allo Spirito Santo, non certo alla madonna. Anche noi dopo aver attraversato simili stagioni iconoclaste, ci siamo ricreduti e siamo ritornati a più miti consigli, non per un tardivo pentimento, ma per una comprensione migliore del dato “religiosità naturale”. La religione naturale, ispiratrice di tanti comportamenti del cosiddetto popolino, tollerati all’interno della chiesa cattolica, è invece il punto di partenza fondamentale al quale sempre ritornare o al quale restare ancorati come una roccia, se non si vuole che la religione cristiana (come sta di fatto avvenendo) si presenti come una ideologia (per alcuni la migliore in assoluto), in un tempo in cui con orrore e disappunto le stiamo abbandonando tutte (da quelle marxista a quella fascista o scientista). Dio ha creato il mondo, la religione naturale è il primo imput, non certo il suo peccato. La religione naturale (a cui attinge molta devozione mariana) è e rimane il contesto proprio e specifico di ogni religione, cristianesimo compreso. Al primo posto rimane il Dio della Creazione (cosa materiale per eccellenza) e a seguire il Cristo dell’incarnazione (cosa umana per eccellenza) e lo Spirito Santo che queste cose spiega, e subito dopo Maria: la donna, la vergine, la madre che si è fatta strumento d’incarnazione. Sminuire o schernire tutto questo, per fare il verso ai protestanti, è qualcosa di cui non tarderemo a pentirci (loro lo stanno facendo da tempo). Intanto il popolo non ha mai smesso di “fidarsi di Maria”. Inseguirà ogni stormir di fronda? Correrà dietro ad ogni apparizione? E dove sta il problema: se dopo tutto questo si dà da fare per la pace tra le famiglie (come Santa Rita); se dopo questo accoglierà tutti gli emigranti e i bisognosi (come la Madonna accoglie prima Cristo nel suo grembo e poi morto tra le sue braccia); se dopo questo sarà presenza viva nel cuore della comunità cristiana come la madonna del cenacolo, perché scandalizzarsi? Per natura non sono mai stato bigotto, ma oggi per cultura capisco che la via naturale alla religione non è una concessione di parroci incapaci di fare una pastorale teologicamente impostata, ma è il fondamento di ogni altra rivelazione che voglia dir qualcosa agli uomini di oggi.



7 giugno alle ore 21.50 · Modificato ·

L'articolo che vi mancava sullo stalker che infastiva don Fichera
"La notizia è su tutti i giornali online di Foggia e provincia: “È stato arrestato dalla Polizia di Stato a Monteleone di Puglia il 37enne Francesco Paolo Raffa. L’uomo è accusato di stalking e lesioni aggravate nei confronti del parroco della chiesa di San Giovanni Battista”. E fin qui la notizia, che potrebbe presto finire nel dimenticatoio se l’oggetto dello stalking non fosse niente di meno che don Guglielmo Fichera, noto alle cronache cittadine foggiane, per i suoi trascorsi in una di quelle congregazioni, che a cominciare dai piedi scalzi, un grigiastro saio sdrucito e un’insopportabile puzza di sudore, che ti rimane anche molte ore dopo averli incrociati, ci vogliono far intendere di essere, in questo nostro secolo, gli unici veri seguaci del poverello d’Assisi; lo stesso Fichera che non ha mai fatto mistero delle sue simpatie per la comunità vetero cristiana di san Pio X, quella di mons. Levebre, che nemmeno il determinato san Giovanni Paolo II è riuscito a far rientrare nella chiesa cattolica. E’ ancora il don Fichera della messa in latino (alla san Pio V, per intenderci), celebrata prima in maniera carbonara, in quel di San Luigi a Foggia, e poi offerta a carovane di pulman di foggiani che in pellegrinaggio si recano con scadenza domenicale in quel di Monteleone, manco fosse il santuario della Madonna di Medjugorie. Infine è lo stesso Fichera, “sedicente esorcista”, e la cosa può suonare perfino ironica, anche se con il diavolo è meglio non scherzare, che va in giro con tanto di folta barba (oramai al pepe), quasi sempre con una lunga talare nera (raro il clergiman) e con al petto un vistoso crocifisso, simile a quello che a Foggia usano, appunto, gli esorcisti ufficiali (ma lui non ha quest’incarico), da brandire minacciosamente, accompagnata da violenti spruzzi d’acqua santa, sugli indemoniati, così da spaventare il diavolo e farlo scappare, almeno credono loro. Mons. Tamburrino pur di toglierselo davanti, non ci pensò due volte, dopo le prime avvisaglie di una stranezza che non pareva guarire, a mandarlo in montagna, a rinfrescarsi le idee, proprio in quel di Monteleone a 850 metri sul livello del mare, per il più classico dei “promoveatur ut amoveatur” (promuoverlo tanto per toglierselo dalle palle). Ma torniamo alla cronaca. Ci piace pensare che il signor Francesco Paolo Raffa, lo stalker, altro non sia che il diavoletto tormentatore di tanti santi, o almeno anche lui un indemoniato, visto che presta le sue attenzioni a un sacerdoti. “Dall’ottobre dell’anno scorso, ha cominciato a perseguitare don Guglielmo Fichera, aggredendolo fisicamente in diverse occasioni con spintoni, pugni, calci. In un caso il parroco era stato addirittura colpito con proiettili di gomma partiti da una pistola ad aria compressa. Le continue minacce avevano costretto don Guglielmo a vivere barricato in casa e a farsi accompagnare per qualsiasi spostamento necessario, visto il timore per la propria vita”. Sarà, ma a me tutta questa faccenda sa tanto di macchietta alla sant’Antoniu a lu desertu, degli indimenticabili Gufi: quello che quando sant’Antonio si accendeva una sigaretta c’era sempre “Satanass’” che “pe’ dispietto je fregehtte la lumetta”, o di quando si “faceva la permanente” e “Satanass ci fregava “la currente”, e ancora “quando si cuciva li pantalune” e gli fregava “li buttuni”, o quando gli faceva sparire le forchette per gli spaghetti e lui “che non se lagna e con le mani se le magna”, e infine rotto delle sassate e dei ripetuti dispetti “prende il diavolo per il collo e gli mette il culo a mollo”. Infondo spintoni, pugni, calci, proiettili di gomma, pistole ad aria compressa, a questa farsa fanno pensare. E se volessimo uscire dalla farsa e ricordare che chi di “spada ferisce di spada perisce”? Non saremmo tanto lontani dalla verità. Quante sono le provocazioni fatte in questi anni dal Fichera? Messe in latino di san Pio V a parte? Quante le gratuite corbellerie scritte nei suoi libri, o presunti tali, spesso centoni di pensieri altrui, non sempre citati, con parole roboanti, incise a lettere maiuscole, o addirittura sottolineate a stampa? Insomma non si può vivere sempre sopra le righe e alla fine meravigliarsi che qualche personaggio (e in montagna, per colpa della solita aria fresca e rarefatta, spesso se ne incontrano di questo tipo) non reagisca a suo modo, o per identificazione con l’aggressore? Speriamo solo che la cosa non vada oltre e tutto si chiuda con scuse ufficiali da parte dello stalker. Diversamente the show must go on, cioè che la farsa continui.




L'articolo di mons. Pelvi che vi mancava e domani ce n'è un altro
non perdetelo è una telenovela
Il discorso di mons. Pelvi a conclusione della processione eucaristica di domenica scorsa, si mostra semplice nella sua divisione in due parti, (il virus dell’accidia e l’impegno eucaristico dei cristiani per la società), ma articolato e pieno di stimoli nella seconda, che speriamo, cristiani e non, sapranno apprezzare e accogliere, come si conviene, in una città-palude come la nostra. Iniziamo con il “virus dell’accidia”: “C’è un virus nascosto ma dannoso”, afferma Pelvi, “che circuisce il vissuto quotidiano della Città e può ostacolare la bellezza delle relazioni interpersonali. È quello della pubblica accidia che contrasta la franchezza e la libertà di chiamare le cose con il proprio nome”. “Pubblica accidia” e il pensiero degli astanti è andato dritto al sindaco Landella, vivace e ciarliero prima delle elezioni, ma inattivo e accidioso da allora ad oggi, se non fosse per una fastidiosa e inutile isola pedonale che ha chiuso piazza Giordano, al traffico delle auto. Il discorso di Pelvi, onestamente, non riguardava solo lui ma un clima culturale che si è diffuso a macchia d’olio, dappertutto in Italia e non solo a Foggia. In sintesi: i teorici del “tutti siamo uguali”, per cui ognuno si arroga il diritto di cittadinanza, hanno prodotto un appiattimento sul basso che da tempo non si vedeva. Il termine, forse più pertinente, sarebbe quello di “pigrizia mentale”, tipico di chi evita ogni sforzo mentale per la ricerca della verità, tanto pilatescamente “cos’è la verità?”, visto che tutto è “opinione o doxa”. In nome di una presunta uguaglianza e modernità, tutto viene modellato e livellato sul “consenso di massa”.. “Ne consegue”, continua Pelvi, “la pretesa che tutte le opzioni abbiano pari rilevanza per il costume sociale, come se le opinioni fossero esposte, l’una accanto all’altra, quali merci uguali in una bancarella delle scelte o in un supermercato, con la sola differenza che alcune sono più reclamizzate di altre”. Il mondo come un’immensa bancarella gestita sul gusto del cliente. I sofisti avversati da Platone, questo in fondo sostenevano, quasi 2500 anni fa: ti argomento tutto in maniera rigorosa, perché tutto è sofisma, eristica e retorica. “Se le posizioni etiche sono equiparate senza alcuna gerarchia, è inevitabile che finisca col prevalere la posizione immediatamente facile, più piacevole al momento e meno impegnativa. In tal modo non è più una società “bella e buona” quella che desideriamo costruire ma una convivenza fiacca, opaca, frammentata; una società, dove alla logica del bene comune si sostituisce l’umore o il risentimento, la brillantezza della battuta e la persuasività dello slogan più che la fatica della riflessione oggettiva che mira a spiegare e convincere”. Buona si direbbe l’analisi di mons. Pelvi. E’ sulla cura? “In questa crisi di sapienzialità, i credenti nella preghiera eucaristica invocano il Signore Gesù, pietra angolare della Città, perché aiuti a mettere le ragioni del consenso al di sopra dell’ansia del consenso, e perché, là dove si è tentati di scoraggiarsi, nasca un soprassalto di speranza, che resista alla disgregazione e/o rassegnazione, ispirando scelte e comportamenti di giustizia evangelica”. Il pericolo è sempre lo stesso: porre il mondo come problema e la proposta cristina come soluzione. Non è proprio tutta qui la tesi di mons. Pelvi, ma il rischio c’è. “Chi vive dell’Eucaristia e secondo la sua logica dimora nella Città, tra gli uomini, facendo il bene. Il cristianesimo non è opera di persuasione né di ostentazione, ma deve essere vissuto. È a causa dell’intercessione dei cristiani che il mondo va avanti”. Piacevole sorpresa questa di Pelvi che pone uno stretto rapporto tra eucaritstia e città. Forse prima non era così. Troppa liturgia paludosa e autoreferenziale ha fatto sì che qualche cristiano pensasse che la salvezza gli poteva venire solo dalla pratica religiosa, devozioni comprese. Così nessuno ci salva dall’accusa di neo- paganesimo:. Dice Pelvi che una eucarestia senza servizio di carità non fa parte della verità cristiana, “se noi cristiani celebriamo con serietà l’Eucaristia, riconoscendo e adorando il Signore, e se dall’Eucaristia ci lasciamo plasmare a immagine di Gesù Cristo, vivendo come lui ha vissuto tra gli uomini. Egli è passato tra gli uomini facendo il bene, ricorda Pietro (cfr. At 10,38), e chi vive dell’Eucaristia e secondo la sua logica dimora nella Città, tra gli uomini, facendo il bene”. Un’omelia non è un discorso programmatico. E’ d’obbligo aspettarsi che dalle parole presto si passi ai fatti. Per sensibilità e cultura ci piacerebbe di più il contrario: che cioè l’azione preceda la riflessione, e che la riflessione sia sempre pensiero che trae spunto dall’azione. E’ già tanto, va dato atto, liberare l’eucarestia, processione eucaristica compresa, dalla sua componente devozionale per un rinnovato impegno dei cristiani per la città, che dall’Eucarestia prendono forza e impegno per una città che Gesù non ha disdegnato di attraversare, seminando sorrisi, sostegno e miracoli di guarigione. Grazie mons. Pelvi. Una sola ultima domanda che vuole non critica ma invito pressante: a quando i gesti dopo le parole? Pur accettando il classico “primum esse deinde agere”, che proprio non ci appartiene più.?


11 giugno 2015

Il discorso di mons. Pelvi a chiusura della processione del Corpus Domini di domenica scorsa è destinato, si spera, ad aprire un dibattito tra i lettori. Molti degli astanti hanno storto il naso per un’analisi culturale, certamente inusuale per Foggia, anche se forse un po’ datata. “Il virus dell’accidia circuisce il vissuto quotidiano della Città e può ostacolare la bellezza delle relazioni interpersonale”, afferma Pelvi. “All’atteggiamento di valutazione responsabile delle diverse proposte culturali”, “si sostituisce un giudizio a priori di equivalenza di ogni progetto o comportamento”. Come in un immenso mercato del venerdì le opinioni sono esposte, l’una accanto all’altra, quali merci uguali in una bancarella delle scelte o in un supermercato” variamente reclamizzato, senza tener conto del posto che alcune di esse “hanno saputo guadagnarsi dentro la cultura”. Si evita accuratamente, oggi, di discutere “nel merito”, secondo il dogma “del tutto ha lo stesso valore”,  “senza alcuna gerarchia” e “oggettività” e confronto di opinioni. Fin qui il testo virgolettato della prima parte dell’omelia di mons. Pelvi. Chiara è la denuncia di una “cultura da bancarella”, senza gerarchia di valori, storia, “riflessione oggettiva” e/o “scientifica”, che inevitabilmente va a discapito della “dignità umana” e del “bene comune”. Un appunto si può forse muovere a queste tesi di mons. Pelvi e riguarda la sua insistenza su un dibattito teoretico, che così posto è difficile soluzione. Alle tesi dei sofisti, vecchi e nuovi, avevano provato a contrapporsi sia Platone, con il riferimento alle idee che lo stesso Aristotele con la sua logica stringente e i tanti sillogismi apodittici, evidentemente senza troppo successo se oggi essi sono riemersi più gagliardi d’un tempo. Oggi quello che pare evidente è l’inefficacia, per la cultura contemporanea, il riproporre teorie (vecchie e nuove) circa l’”oggettività dei valori” e la loro “autoevidenza”, che ognuno pone dove vuole e più gli fa comodo. La stessa scienza, spiazzata dalle continue scoperte non riesce a proporsi come modello credibile di società e di relazioni umane. Quello che a Platone, e allo stesso Aristotele, mancava (ma forse Socrate l’aveva intuito prima di loro) era la riflessione sulla fondamentale importanza della “testimonianza di vita”. I sofisti di ogni stagione si smontano con la “pratica del bene”, direbbe san Tommaso, non centro con il principio di non contraddizione, l’autoevidenza delle idee e la dimostrazione razionale o ragionevole delle proprie idee. E’ quella pratica del bene messa in atto da Gesù per le strade del suo tempo e tra i sofferenti e deboli di sempre (ed è la seconda parte del discorso di Pelvi che sembra poco combinarsi con la prima). Quel Gesù che unisce, finalmente,  Eucaristia (vita) e carità (servizio). Giustamente afferma mons. Pelvi “Il cristianesimo non è opera di persuasione né di ostentazione, ma deve essere vissuto”, quindi testimoniato al mondo. Forse il migliore antivirus contro l’accidia o la pigrizia mentale che nessuna ripresa di razionalismo intuitivo o dimostrativo potrà mai disinnescare. A sentire certi dibattiti televisivi, sembra un invito a nozze per ogni dialettica che sa solo di contrapposizione e vano confronto d’idee, in “una società, dove alla logica del bene comune si sostituisce l’umore o il risentimento, la brillantezza della battuta e la persuasività dello slogan più che la fatica della riflessione oggettiva che mira a spiegare e convincere”, come ben evidenza il presule foggiano. E’ proprio su questo versante, quello della testimonianza per il servizio al mondo, che la chiesa, specie quella foggiana, mostra ancora tutti i suoi limiti (anche culturali).