mercoledì 9 settembre 2015

L'ARTICOLO DELLA MIA VITA: LA CHIESA CHE VORREI: DA L'ATTACCO DELL'8 SETTEMBRE 2015



Le voci di una “riabilitazione” di don Fausto Parisi, già vicario generale al tempo di mons. Casale sono sempre più frequenti. E’ pur vero che chi è affetto da parresia, ossia dal parlare chiaro e senza timore di alcuno, non fa molta carriera, specie nella chiesa. Almeno non lo è stato al tempo di san Giovanni Paolo II: tutti coperti e allineati. Ma i tempi cambiano e quello che una volta era messo da parte, come la famosa pietra d’angolo, può sempre essere ripresa e messa al suo posto. Si parla di una certa similitudine di carattere e di spirito tra il nuovo vescovo mons. Pelvi e don Fausto: stesso parlare chiaro, senza guardare in faccia a nessuno, stessa ironia, stessa determinazione nel portare avanti idee e progetti, stessa concretezza e praticità. Ma non basta questo per operazioni che sanno di rivoluzione. Si sa di uno scontro iniziale tra mons. Pelvi e don Fausto a proposito della scuola paritaria Sacro Cuore e dello strascico di cause pendenti che mons. Tamburrino è stato, nella sua ingenuità, capace di produrre a ritmo impressionante nel giro di pochi mesi. I benevoli, volendolo scusare oltre ogni dire, dicono che “è stato mal consigliato” e che si è fatto prendere la mano da autentici lestofanti, alcuni dei quali, visto che la barca affondava hanno pensato bene di abbandonarla all’arrivo del nuovo presule. Si può anche essere d’accordo con questa visione delle cose, in fondo Tamburrino è sempre stato un debole di carattere, disponibile per ogni lucciola fatta diventare lanterna. Ma i problemi e soprattutto i debiti da lui lasciati hanno segnato duramente questa diocesi, che ancora non ha finito di pagare quelli lasciati da mons. Casale e che mons. D’Ambrosio si è ben guardato da onorare, lasciando la patata bollente ai suoi successori. Sempre ad onor del vero e dei fatti va riconosciuto a mons. Pelvi l’impegno personale per dipanare matasse ingarbugliate oltre ogni dire. Di persona si è recato in tribunale per dirimere la cause con i dipendenti cacciati da Tamburino. Di persona si è recato a Bari per chiudere una scuola paritaria che nelle mani degli apprendisti stregoni, scilicet professoressa Di Simio e soci, avevano ridotto a 35 allievi, incapaci di reggere economicamente una scuola, pomposamente chiamata di qualità ma scarsa a moneta oltre che a idee. Pelvi ha fatto il conto dei debiti lasciati in eredità dai predecessori, così da esclamare che “tutto l’otto per mille” in dotazione alla diocesi se ne va per pagare quei debiti mai onorati. Merito infine di mons. Pelvi è l’aver preso di petto quella cosa oscura e scivolosa che si chiama “Nuova sede della scuola di teologia”, uno stabile nei pressi del seminario, su terreno diocesano, ma la cui “proprietà effettiva” non è dato di sapere. Chiaro il messaggio di mons. Pelvi: o la cedete alla diocesi o non so cosa farmene, ve la potete anche tenere”. Il silenzio di questi mesi dalla parte dei “manipolatori” di turno è quanto mai eloquente. E’ quindi chiaro che in tale frangente da più parti si chiede una mano forte, come poteva essere quella che don Fausto ha mostrato ai tempi di Casale. Perché un altro dei vizi congeniti dei paludati collaboratori di mons. Tamburrino è quello dello scarica barile: “noi non sapevamo nulla, ha fatto tutto da solo”. In effetti sapere qualcosa vuol dire essere complici. Dire di non sapere è un classico della paraculaggine locale. L’interessato, cioè don Fausto, nicchia. Non sembra essere molto interessato a titoli e onori. Ci vuole ben altro per risollevare una diocesi oramai allo sbando su tutto il fronte. Non è impresa di un uomo solo e per giunta prossimo alla pensione. Forse si dovrà fare leva sui giovani preti, che saranno anche inesperti, ma hanno il grande vantaggio di non essere stati compromessi in operazioni al limite dello squallore umano oltre che religioso. A loro il grave compito di risollevare la situazione. Certi che la chiesa ha un grande manovratore che è il Signore in persona. Nonostante queste considerazioni abbiamo chiesto a don Fausto una sua lettura dei fatti e “della chiesa che vorrebbe”. L’intervista questo vuole mostrare. Sarà lui a portare la barca diocesana oltre le secche nelle quali è finita? Avrà Pelvi il coraggio di fare scelte così controcorrente. O anche lui cercherà come tutti di imbarcamenarsi tra lobby sempre in conflitto tra loro? Ai posteri l’ardua sentenza. Il quadro è chiaro oramai. Il nuovo prelato sembra mostrare tutti gli attributi richiesti per questa impresa. Saranno i prossimi mesi a misurarne la forza. Dalle colonne di questo giornale, per il bene della diocesi di Foggia e della stessa città, non possiamo che augurarci che l’impresa riesca. La frase detta a Gesù dai discepoli di san Giovanni Battista, vale anche per il nuovo presule: “sei tu quello che deve venire, o dobbiamo aspettarne un altro”. Per molti il tempo se ne va e sta per scadere. Ma si sa, la speranza è sempre l’ultima a morire. 


INTERVISTA
Dai tuoi articoli emerge spesso un’esigenza di rinnovamento della chiesa, in particolare quella di Foggia, ma non solo. Ultimamente hai esplicitamente parlato di una “fine prossima dell’impero”, ce ne vuoi parlare più esplicitamente
Una cosa è certa: la chiesa cattolica, così come è vissuta oggi, praticamente bloccata sul parrocchialismo e le sue attività tutte interne alla chiesa, ha i giorni contati.
Da dove nasce tanta convinzione?
Dalla semplice analisi della realtà. Le parrocchie, penso soprattutto a quelle di Foggia, che da anni osservo, di fatto si sono tutte chiuse in se stesse. Anche le più attive e con parroci intelligenti e capaci. Le iniziative, non più solo legate alla vita liturgica e devozionistica, hanno un loro spessore pastorale. Si nota un crescendo del senso di comunità, a volte anche vivace: i gruppi si moltiplicano, focolarini, carismatici, catecumenali, peggio delle cavallette. Gruppi di genitori, di ragazzi, associazioni sportive, culturali e teatrali, ecc., e chi più ne ha più ne metta. Ma si esce poco dalla parrocchia verso il territorio. Tutto è intra menia. Si diceva una volta. Anche la carità parrocchiale spesso si esaurisce nella sola “accoglienza” dei i bisognosi, con distribuzione di pasti, indumenti, assistenza sanitaria. Non un discorso politico, non necessariamente religioso. Il solo rilievo riguarda l’autoreferenzialità di queste iniziative: tutte positive, meglio che in passato. Ma tutte “intra menia”.
Questa l’analisi, sia pure per sommi capi, che ogni tuo articolo sembra voler “capodicamente” riproporre, ci passi la parola. E la cura? E’ la parte mancante del tuo discorso, o no?
Per parlare di cura bisogna pur fare una parte “destruens”, cioè buttare giù muri e modelli obsoleti di fare pastorale. Altrimenti è difficile capirsi. Un primo punto è scrollarsi di dosso l’organicità di natura “imperiale”, in senso monocratico, per la quale il parroco è, o si auto comprende, come il perno unico e assoluto di tutto il sistema. In parrocchia non c’è foglia che si muova che il parroco non voglia. Il termine “imperiale” vale solo come paragone, ovviamente. Governare quattro volenterose bizzoche, non è che sia proprio il massimo di governo. A mio avviso occorre orientarsi verso modelli più agili così com’era all’inizio della chiesa di Gerusalemme. Può sembrare strano ma bisogna rifarsi all’antico.
Spiegati meglio
Nelle prime comunità cristiane i tre munus (sacerdotale, regale e profetico) erano ben distribuiti tra sacerdoti e laici della comunità. Gli stessi apostoli, riservando a se stessi il servizio sacerdotale e della parola, hanno dato vita al “diaconato” (il cui significato letterale è quello di “servizio”, non necessariamente sacrale, ma di “personale addetto alle mense”). Erano laici, scelti tra i fedeli, dediti alla carità: quella pratica delle mense appunto e dei poveri (già all’epoca molto numerosi). Il mondo ebraico considerava la povertà come punizione divina per la propria inettitudine. E’ bene non dimenticarlo. 
Puoi spiegarci in dettaglio il significato dei tre munus? Facendo soprattutto riferimento alla realtà locale della diocesi di Foggia.
Intanto “munus” vuol dire “dono” per un servizio, prima alla comunità cristiana e poi perché questa si faccia serva del mondo. Tutto il cristianesimo è impostato sulla falsariga di un dono che ci viene dato da Dio, perché noi lo si metta a servizio dell’umanità. Quello sacerdotale è il primo che ha preso piede nella comunità cristiana, perché da subito si è compreso che il sacrificio di Cristo sulla croce, sostituiva pienamente quello antico che si praticava nel tempio di Gerusalemme. La storia della cacciata dei mercanti dal tempo la dice lunga sul degenerarsi di questa pratica rituale al tempo di Gesù. Qui sacrifici finiscono simbolicamente quando si squarcia il “velo del tempio”, quello che separava nettamente il luogo dei sacrifici dallo spazio riservato agli offerenti e alla comunità, (tradizione del resto comune a tutti i templi dell’antichità). Nasce un nuovo sacrificio (eucaristico) che san Paolo teorizza abbondantemente nelle sue lettere alle comunità.
Nasce quindi una religione del tutto nuova? Ma nuova in che senso? Poi perché nuova se in fondo si tratta solo di un cambiamento di riti: da quelli pagano-ebraici a quello cristiano. Si capisce che la vittima non è più l’agnello, ma lo stesso Gesù. Basta questo per parlare di assoluta novità?
Hai ragione forse non è del “tutto nuova”, almeno che non si entri nel sistema cristiano. Certamente nuovo è il sacrificio, quello di Cristo, nuovi sono i sacerdoti (presi dal popolo e non più da una casta sacerdotale o levita), nuova è la religione, che pur esce dalla visione personalistica del Dio della storia del mondo ebraico, ma che recepisce anche l’homo religiosus, che si rivolge “naturalmente” a Dio, come sia la psicologia dell’età evolutiva (che da Piaget in poi non fa che evidenziare) e la stessa storia dell’umanità, dalla preistoria ai giorni nostri continua a registrare (nonostante duemila anni di cristianesimo: basta pensare ai riti sacrali del nostro Gargano, che mia madre sapeva ben utilizzare (l’uria e l’unzione con l’olio della testa del malato), pur essendo una devota cristiana a tutto campo).
Quindi il munus sacerdotale è ancora legato fortemente alla dimensione naturalistica della religione? Un ragionamento difficile da capire.
Certamente. Oggi in maniera un po’ maldestra molte parrocchie foggiane concedono qualcosa al devozionismo religioso, bollato come “religione popolare”, da assecondare e non contrastare più di tanto, altrimenti le chiese si svuotano degli ultimi fedeli. Allora ben venga la stura a processioni, novene, pellegrinaggi, rosari, più o meno meditati. La stessa liturgia delle ore, che molte parrocchie a Foggia hanno iniziato ad adoperare, vengono “digerite” allo stesso modo delle tante pratiche devozionali. Per molti preti giovani è una “concessione”, qualcosa pur di accontentare il popolino. Ma è un grave errore pastorale. L’homo religiosus naturale incontra la “rivelazione cristiana”, ma questa non deve “soppiantare o sostituire quella naturale”, è un incontro non una sostituzione. Concetto assai difficile da capire. Il cristianesimo combatte il peccato, non la religione naturale, che peccato non è mai stato. Anzi. L’essere naturalmente orientato verso Dio, sia pure con pratiche (pagane), non è tout court peccato. Guai a pensare cose del genere. Si fa solo confusione. Il peccato rimane quello di far del male al prossimo, che nessuna religione seria potrà mai avvallare, neppure in nome di Dio.
Gli altri munus, quello profetico e quello regale, se ho ben capito, sono legati alla figura del sacerdote o possono essere distinti, come dai modo di intendere con queste tue riflessioni?
Per consuetudine, sbagliata, si è fatta passare l’idea che il sacerdote (quello consacrato) sia il prescelto cui sono destinati tutti e tre i doni di grazia del Signore: li si sintetizza e li si riassume nella sola persona del sacerdote, parroco di una comunità cristiana. Ma così non è e così non è mai stato. Lo stesso concilio Vaticano II, ha cercato con la “nozione di popolo di Dio” e di “popolo sacerdotale”, di dare una svolta a questa visione da “neo-casta sacerdotale”. Il munus profetico, quello della parola, per semplificare, è offerto a tutti i cristiani. Ancora più semplificato: è quello dei catechisti e degli educatori della comunità parrocchiale, degli uomini di cultura che sanno parlare di religione, dei professori di religione nelle scuole, dalle materni all’università. Certo che per fare questo bisogna rivedere tutta la formazione del nostro laicato, volutamente lasciato nella sua ignoranza. Non basta essere una brava e bigotta mamma per “fare un po’ di catechismo”. Ci vuole ben altro. Ci vuole scuola, cultura, formazione, studio. A Foggia volutamente o stupidamente si è voluto affossare l’unica scuola orientata in tale senso. Ogni campione curiale si è fatta la sua scuoletta di formazione: quattro incontri, quattro nozioncine e la storia è finita là: pronti per essere immessi nel mercato della pastorale, con una formazione sempre abborracciata e finalizzata all’uso e getta. Nella scuola di teologia da me diretta per quasi dieci anni, ne abbiamo prodotto cinqucento professorini di religione e nessun laico pronto per la pastorale. Unica eccezione i diaconi: utilizzati per la più per la liturgia.
Il munus regale è il terzo da quelli da te citati. Ma cosa significa veramente? Devi ammettere che usi un linguaggio da iniziati. Non è comune sentire parlare di munus e di impegni diversificati all’interno di una parrocchia. Ho davanti le parrocchie di Foggia e la gente che le frequenta. Sembra un discorso da extra terrestre.
A volte va usato un linguaggio tecnico. Non capisco perché per la medicina e la scienza non fa problema il linguaggio tecnico e quando si parla di religione si vogliono sempre discorsi in soldoni…per la povera gente che non capisce i paroloni. Comunque munus vuol dire dono, e quello regale riguarda l’attività pratica e caritativa dei cristiani. Esso va affidato ai laici e non certo ai preti consacrati, che fin dal tempo degli apostoli dovrebbero avere ben altro cui pensare. E’ il munus che presiede la carità: quella carità che la comunità parrocchiale deve svolgere verso il mondo.
Così non si rivoluziona troppo l’attuale sistema, forse un po’ statico, ma ben stagionato delle realtà parrocchiali cristiane?
In una visione di cristianesimo del prossimo millennio ben tre dovrebbero essere i pastori di una comunità “parrocchiale”: il sacerdote, l’uomo del sacro e del culto, il pastore, l’uomo dell’organizzazione parrocchiale, e il responsabile della carità, l’uomo che presiede tutte le attività extra-menia della comunità cristiana. Il cristianesimo non può concepire i tre munus tutti rivolti al proprio interno: dal produttore al consumatore. Sarebbe, com’è, un vero disastro. Forse il cristianesimo è l’unica religione al mondo che dice senza mezzi termini che ci si può salvare anche senza essere cristiani, anche senza credere in Dio e senza mai aver incontrato Gesù Cristo. E’ il messaggio che scaturisce dal giudizio universale, cui molti della chiesa, preti e non preti, sembrano voler mettere la sordina. Invece va gridato a gran voce: ci si salva solo se si fa del bene al prossimo. Perché solo e solamente su questo verremo giudicati.
Allora, da quello che tu dici, non è più necessario andare in chiesa?
A rigor di logica no, se si opera il bene. La religione cristiana è un potente, anzi potentissimo mezzo, per attuare il comandamento evangelico della carità. Ma se a questa carità nessun cristiano e nessuna comunità cristiana ci arriva: meglio sarebbe come dice il vangelo per gli scandali (perché questo è lo scandalo peggiore dell’attuale chiesa di Cristo) legarsi una macina al collo e buttarsi in mare. La carità non è un optional della religione ma è il suo scopo, il senso di tutta l’azione nata dalla morte e risurrezione di Cristo. Ci ha salvati per renderci servitori dei nostri fratelli. La lettera di san Giacomo che i protestanti fanno fatica a ritenere canonica proprio questo dice: “lavorate solo per i ricchi? Per chi viene in chiesa, per chi sta bene? E trascurate i poveri? Ma a che gioco giochiamo?".
Applicando queste teorie alla chiesa di Foggia, cosa vorresti aggiungere?
Non è la peggiore chiesa del mondo. Certo non abbiamo avuto vescovi, dopo mons. Farina, forse all’altezza del loro mandato. Personalità a volte perverse, a volte inette, spesso equilibristi tra varie tensioni e lobby. Un contentino da una parte e un cazziatone dall’altro, così giusto per restare a galla e in equilibrio tra varie tensioni. Un governo del tirare a campare. Mons. Farina faceva della cura del clero il primo impegno del suo essere vescovo. Altri hanno fatto altre scelte e i risultati mediocri, se non disastrosi sono sotto gli occhi di tutti. Che fare allora? La chiesa di Cristo non scompare certo per i suoi inetti pastori. Ma come dice la bibbia, lo Spirito soffia dove vuole e può far nascere figli di Abramo anche dalle pietre. L’analisi è forse troppo realistica, ma la speranza non di certo, per costituzione guarda sempre in avanti e vive di parousia: cioè di attesa già che tutto questo può e deve pur sempre cambiare.