giovedì 15 dicembre 2016

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OTTOBRE-DICEMBRE 2016  


LA BANDA BASSOTTI ALL'OPERA NELLA CHIESA DI FOGGIA-BOVINO


LA BANDA BASSOTTI DELLA CHIESA DI FOGGIA-BOVINO
Da ragazzo, come tutti i miei coetanei, divoravo ogni numero di “Topolino”, un giornaletto settimanale, multicolore e pieno di storie e di figurine, del mondo animale, che vivevano in un mondo a parte, a Paperopoli: una vera e propria città, popolata di tanti personaggi, che vivevano e agivano come persone del mondo reale, con gli stessi vizi e le stesse virtù. Un giornaletto per noi mitico, straordinario, anche se prodotto del mito americano, scodellato pari pari a noi, ignari bambini dell’epoca (erano gli anni 50-60). Ma questo l’abbiamo capito solo più tardi, quando anche quel mito cominciava ad andarci un po’ stretto. Ricordo che per godermelo di più non leggevo subito le nuvolette con le parole, ma seguivo le storie attraverso le immagini fino alla fine. Solo se non le capivo ci davo una seconda lettura. Un gioco e niente più. Tra i tanti personaggi di quel fumetto mi faceva impazzire la Banda Bassotti, una scalcinata banda di ladruncoli, copia dei famosi cagnolini beagles, pelle beage, nasone nero pronunciato e orecchie grandi, con le quali inciamparsi a ogni corsa. Era una banda di “fratelli”, tutti uguali, senza identità, un’associazione a delinquere, alla quale non gliene andava bene una: ogni striscia li vedeva puntualmente dietro le sbarre. Insomma una banda di sfigati. Perché tanta reminiscenza? Perché la banda bassotti è, nostro malgrado, ritornata di moda, diventando icona del nostro tempo. Una Banda Bassotti ha chiesto in questi giorni l’ennesima fiducia a camera e senato, dopo che la precedente fotocopia ha fallito miseramente. Ma visto che tratto spesso di cose di chiese, anche in quel contesto la Banda Bassotti colpisce alla grande. Ed ecco la storia, fuori dal fumetto. Avendo chiesto un anno sabbatico per motivi di studio e altro ancora, ho dovuto lasciare con un certo rammarico, sapendo benissimo in che mani di scombinati sarebbe finita la loro gestione, sia le Suore del Piccolo Seminario, in via Napoli, che la Confraternita di Santa Monica, in via Arpi, ubicata presso la chiesa di Sant’Agostino. Come era fin troppo prevedibile, entrambe sono state lasciate senza prete. Alle suore del Piccolo Seminario ne è stato promesso uno, in verità, il quale ha fatto subito sapere che si farà vivo dopo le feste di Natale (troppo lavoro per lui che è anche viceparroco da qualche parte di Foggia, oltre che cappellano presso la confraternita di san Giuseppe, in via Manzoni). Per la chiesa di sant’Agostino il percorso si è da subito fatto più tortuoso. Il parroco della cattedrale ha fatto sapere ai richiedenti che preti per “coprire” quella confraternita non ne ha, e che in ogni caso, ha aggiunto minaccioso: “nessun altro prete potrà dire la messa in quella chiesa, senza il suo esplicito permesso”. A Foggia si dice “curnut’e e mazziet’e”. Andate dal Vicario Generale, è stata la risposta alle loro insistenze. “Niente preti”, ha detto mons. Filippo Tardio, il vicario. “Come niente preti?” Si sono detti i questuanti “cappello in mano”. “A San Giuseppe Artigiano (la parrocchia del Vicario) ci sono ben tre preti che nei giorni feriali addirittura concelebrano. Don Orazio (uno dei tre, da sempre amico della confraternita) potrebbe venire a celebrare da noi”, hanno fatto notare. “Non se ne parla proprio. Andate dal vescovo”, è stata anche questa volta la risposta un po’ piccata del Vicario Generale. Si sono arresi, vista come il vescovo Peli ha trattato quelli della chiesa di san Luigi. Insomma quanto più volte denunciato dalle colonne di questo giornale, a Foggia, qualcuno una volta messo a posto la propria pancia, diventa insensibile ai problemi altrui. Tutti gli ufficiali di curia, o quasi, hanno uno o due viceparroci al servizio. Loro in effetti sono multitasking dai molteplici incarichi, da aver bisogno non di uno ma spesso di due viceparroci o collaboratori, diaconi compresi. This is the end. Questo è solo l’avvio della fine. Quello che sta succedendo a Santa Monica, presto avverrà anche per le altre confraternite, che se trattate così non potranno che chiudere. Mentre quella di san Giuseppe Artigiano, quella del vicario generale, è assunta alle cronache cittadine per gestioni non proprio trasparenti dei nuovi loculi al cimitero. Ma questa è un’altra storia semmai per un altro articolo. La faccenda di oggi è chiara: saranno sempre i più deboli, come i confratelli di santa Monica, a dover abbozzare. Loro caparbi si sono mossi a cercare altri preti disponibili, ma il dictat del parroco della cattedrale è stato come una condanna a morte e un taglio di gamba: “nessun prete...senza il mio permesso”, manco fosse una riserva di caccia, o una riserva indiana, e senza alcun riferimento al diritto canonico, ad usum delfini: sono ormai legge a se stessi questi della cattolica Banda Bassotti. Un ripensamento di tutto il sistema clericale a servizio delle comunità, che non siano sempre e solo quelle parrocchiali non è dato sapere, non si fa né si ipotizza, preferendo convegni su famiglie e giovani (che novità?). Sarebbe chiedere troppo a questa banda bassotti, ritrovatisi fratelli beagles, cui, purtroppo, è toccato in sorte la gestione di questa delicatissima situazione, della scarsità di clero. Mostrando solo incapacità e incompentenza: un male non solo foggiano ma di tutto l’orbe cattolico. Da noi non si va oltre la punta del naso, troppo grosso da coprire ogni altro orizzonte, e, da sempre, si fa figli e figliastri. E’ questo che a volte fa l’amara differenza.


LA LENTA AGONIA DI UNA CHIESA CHE NON VUOLE CAMBIARE...

L'ATTACCO DEL 3 DICEMBRE 2016
Nella storia dell’umanità, si sono succeduti, profeti o cassandre annunciatori di imminenti catastrofi, puntualmente inascoltati. Un testo biblico di riferimento è quello di Luca 17: “Come avvenne al tempo di Lot: mangiavano, bevevano, compravano, vendevano, piantavano, costruivano: ma nel giorno in cui Lot uscì da Sodoma piovve fuoco e zolfo dal cielo e li fece perire tutti. Così sarà nel giorno in cui il figlio dell’uomo si rivelerà”. Cui fa eco quello di Matteo 25: “Come fu ai giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’Uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio, mangiavano, bevevano, prendevano moglie e marito, fino a quando Noè entro nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e inghiottì tutti, così sarà anche alla venuta del figlio dell’Uomo”. Anche profeti “laici” non si sono sottratti al genere catastrofistico biblico. Così Ciai profeta in Assisi: “La città si svuoterà. Le notizie scemeranno e di disperderanno al vento la stampa si inaridirà e sparirà. Si lamenteranno e faranno lutto i pescatori di notizie e si lamenteranno e rimarranno desolati i pescatori di uomini. Industriali, commercianti e disegnatori di moda saranno confusi e impallidiranno. L’economia crollerà e gli operai resteranno sgomenti”(da Profetizza, Marcello Ciai, 1995). Applicare questo catastrofismo di maniera alla nostra epoca, alla nostra città e alla nostra chiesa locale, è un gioco fin troppo facile. Ci cimentiamo lo stesso. Troppi sono i segnali di una fine ormai prossima. Essere inascoltati fa parte dello stesso gioco. Ci cimentiamo ugualmente a partire da un settore della vita umana a noi più vicina e meglio conosciuta: la vita della chiesa. A Foggia, a dire il vero, anche quella laica, del versante politico-sociale-economico non da meno da pensare, di una prossima fine di questo sistema di cose. E’ dai tempi di De Giorgi, per poi scivolare a quelli di oscuri di Casale e proseguire con quelli insignificanti di Tamburrino e finire a quelli di Pelvi, che si nota un continuo lento inesorabile scivolare verso la fine di un certo sistema di cosa, e un certo sistema di chiesa. Il concilio è stato uno scossone per la Chiesa, ma i vecchi volponi, abituati a terremoti ben peggiori, sono sobbalzati per un po’ per poi ritornare alle loro abitudini, a vivere proprio come ai tempi di Lot e di Noè: mangiavano, bevevano, prendevano moglie e marito e la fine perirono tutti senza scampo. E quali sono i segni di questa imminente fine di un certo tipo di chiesa? L’estinguersi della casta sacerdotale, per iniziare da una qualche parte. Possibile che nessuno si accorga che il numero dei preti sta sempre più scemando? E questo non solo nei seminari nei quali entrano sempre meno giovani ma anche a riguarda dell’età del clero sempre più anziano se non demotivato. Come si risponde a questa provocazione? A Foggia, con mons. Pelvi (e non solo) si risponde con la politica del “tappabuchismo” parrocchiale, della serie basta che le parrocchie siano coperte pur che sia. Per il dopo? “Apré moi le deluge” disse un altro grande della storia. E’ il presente che va salvaguardato ad ogni costo, per il futuro “dio provvede”, dice anche la Bibbia. E per fare questo rattoppo si manda allo sbaraglio, come già Hitler alla fine del secondo conflitto mondiale, preti freschi di ordinazione, con troppe teorie e poca pratica pastorale, poca solidità psichica e religiosa. Ma poco importa “the show must go on”, dicono gli americani, cioè che la farsa continui, diciamo noi più mestamente. Non un momento di ripensamento, un guardare oltre la punta del naso, un colpo di reni e un fermarsi per ragionare a freddo e scegliere la strada migliore per uscire da questo empasse. Più semplicemente l’empasse non viene percepito o lo si considera troppo traumatico o troppo impegnativo per questi vestali da fine impero o monsieur travet da impiegati comunali . Proprio come ai tempi di Lot e di Noè, si preferisce andare avanti, pur che sia, ignorando il problema. Meglio dire che non è malato, che preoccuparsi di curare. Un caso emblematico: in tutto il mondo cattolico i seminari minori si chiudono, vista la loro quasi assoluta inutilità. A Foggia no. Si tiene aperto uno stabile immenso, semivuoto (e i poveri e gli sfrattati dove li mettiamo?), pensato per duecento seminaristi che ne contiene sei o sette, dei quali, negli ultimi dieci anni, nessuno, ma proprio nessuno, è andato oltre le scuole medie, o al massimo il liceo, senza mai approdare al seminario maggiore (quello di Molfetta, strapieno in verità per un sud che vuole sempre e in ogni caso emergere e risalire la penisola: solo un altro segnale di una fine imminente: motus in fine velocior dicevano gli antichi. Il movimento alla fine se fa persino più veloce). Un altro segnale della fine imminente sono le tante confraternite, dai vestiti sempre più simili a un triste carnevale, abbandonate a se stesse e la cui agonia è sotto gli occhi di tutti. Eppure sono le uniche realtà ancora ferme a conservare quello che è e rimane l’essenziale della vita cristiana: “sacralità e servizio”, senza ulteriori fronzoli di sapore socio-pastorale. Alle agonizzanti confraternitesi preferiscono le parrocchie, non meno malate e prossime alla fine, ridotte come sono al raccatto di vecchi e bambini, considerando tali, anche quei ragazzini delle scuola medie, inferiori e superiori, che pur vi soggiornano come utenti di uno spazio di socializzazione, in attesa di un prossimo e inesorabile esodo, o fuga che meglio si addice alla situazione. Non è un caso che il piano pastorale diocesano sia ancora il ripetitivo “famiglie e giovani”. Ad esso fa da supporto uno stanco parrocchialismo, o tappabuchismo. Mancano i preti? In vece di chiudere e ripensare l’intero sistema, si accorpano parrocchie e le si dà l’altisonante e vuoto titolo di “unità pastorali”, una parola che dice tutto e niente. C’è sempre e solo un prete, un parroco, che prima aveva una chiesa da accudire e ora ne avrà tre o quattro, come per l’unità pastorale del centro storico di Foggia. La cattedrale, che ingloba la vecchia parrocchia di san Francesco Saverio e San Tommaso (chiusa ab immemorabili). Alla stessa povera persona dovrebbero far capo anche una decina o poco meno di confraternite che hanno le loro cappelle nel territorio parrocchiale. Un altro segnale dell’ormai prossima fine di questo genere di cose è l’impostazione elefantiaca delle curie diocesane: diecimila uffici autoreferenziali e spesso del tutto inutili al territorio, modellate sull’altrettante elefantica curia della Conferenza Episcopale Italiana. Meno c’è vita è più ci s’illude che l’organizzazione la possa supplire o far rivivere. Anche in questo campo un ripensamento andrebbe proposto, per impedire che la macchina, ancora gestita da un clero che non molla un briciolo del suo potere clericale, vada a folle velocità contro un muro che è la storia futura. Si dirà che siamo al catastrofismo di maniera. Come non dar loro torto? Concludiamo con l’ultima citazione biblica non meno catastrofica: “«Quando il Figlio dell’uomo ritornerà, troverà ancora la fede sulla terra?» (Lc 18,8): chi ha orecchi da intendere intenda.


VECCHI RICORDI CHE RITORNANO

ho avuto tra le mani un vecchio pc con la possibilità di leggere anche i dischetti da 3 pollici e mezzo....così ho rivisto foto e articoli che pur ricordo ma dei quali avevo perso il testo...
ECCONE UNO SCRITTO 16 ANNI FA...AVEVO SOLO 50 ANNI E MI SENTIVO Già TANTO VECCHIO E DELUSO, IMMAGINATE ORE CHE NE HO 66...SUCCEDE AD ALCUNE GENERAZIONI DI PERDERE TUTTI, MA PROPRIO TUTTI I TRENI....

DELLA SERIE: SIAMO REALISTI ABBIAMO VOLUTO L'IMPOSSIBILE
Durante gli anni di formazione vissuti presso i Giuseppini del Murialdo, per intenderci quelli dell’opera S.Michele, una straordinaria congregazione religiosa dedita alla formazione dei giovani, sentivo spesso ripetere una frase che mi è rimasta a lungo impressa: “Guai a perdere “educativamente” una generazione di giovani, è difficilissimo ricuperarla”. L’invito che veniva fatto a noi giovani, che ci preparavamo allora al difficile mestiere di educatori, era fin troppo esplicito, nel campo formativo non si può rinviare a domani ciò che è oggi urgente fare, temporeggiare è sempre deleterio: quella generazione viene irrimediabilmente persa, meglio pensare alla successiva. Se ripercorro la storia della mia generazione, quella dei cinquantenni, sento questa frase attualissima. Siamo figli di una generazione cresciuta senza padri ed educativamente persa. La nostra è una storia di occasioni mancate e di amari flash che si rincorrono a ricuperare l’irricuperabile di una infanzia e di una adolescenza malcurata e malservita. Siamo nati all’incirca attorno a quel famigerato ’48, che oggi tanto si vuole esaltare da parte dei partiti del centro, quale avvio della vera libertà…(che vizio ottocentesco datare la storia!) E l’eco di quella battaglia tra bene (la democrazia cristiana) e male (il comunismo) ce la siamo sentita addosso per tutti gli anni dell’infanzia, senza crederci più di tanto. Quante falce e martello ci siamo divertiti a fare sui muri di S.Michele o nei bagni della scuola! Già allora irridenti contestatori di una facilona e bigotta dicotomia. Siamo poi cresciuti male in una città, coperta di macerie e non ancora ricostruita, senza spazi per noi bambini. Quanti racconti strani in quelle sere di maggio, quando, più spesso di oggi, i giovani facevano i loro crocchi agli angoli delle strade e amavano raccontare storie incredibili: “alla villa è apparso un tedesco, senza un braccio, che stava cercando il suo, tra le rovine…In quella casa, sbarrata e pericolante, è apparsa la malombra…”. E i nostri capelli di bambini si rizzavano su dritti, peggio degli steli del grano, e la pelle d’oca non era un eufemismo. I giochi, fatti alla buona e in autonomia, erano per strada, tra case diroccate e blocchi di tufo ammonticchiati qua e là, a catasta, per la ricostruzione, con la calce viva sempre in agguato, dove giocare agli indiani o a nascondino e tendere imboscate era facilissimo e assai divertente. E quel bambino accecato dalla calce, o quella bambina, schiacciata da una camonion, perché s’era andata a nascondere in cartone lasciato lì in mezzo alla strada? Altro che il bambino di Vermicino, finito in un pozzo artesiano, sono cose che si stampano nel subcosciente e ritornano spettrali nelle notti insonni. Quante scritte sui muri rabberciati, in una lingua allora sconosciuta, l’inglese degli yankee “nostri liberatori”, che per liberarci avevano raso a suolo la nostra città, uccidendo ventimila foggiani, cosa che già allora ci pareva da matti. Era quasi un rincorrersi di scritte, tese a sostituire quelle ancora ben leggibili e non sbiadite dal tempo, degli anni ruggenti, che non ci era stato concesso vivere ma per Foggia non si tingeva di tutto quel nero che in futuro ci hanno voluto descrivere: “credere, obbedire, combattere”… “meglio un giorno da leoni e cento da pecore”…”VIVA IL DUCE”. Quanto ci parevamo incredibilmente buone quelle dure gallette al cioccolato della POA che i padri di S.Michele, distribuivano ai bambini bravi, in cambio di una messa, alla quale correvamo allegramente tutti, non so per fede o per fame, vestiti a nuovo con la roba americana, che il mercato del venerdì allora svendeva per pochi spiccioli, sciogliendo cataste grandi quanto case, e che le nostre mamme prima di farceli indossare lavavano e rilavavano molte volte con il sapone “SOLE” o il detersivo TIDE, un prodotto americano che leggevamo all’italiana. Siamo cresciuti male, in balia di miti americani, che un generoso cinema Garibaldi, ci spiattellava ogni sabato, con gli indiani, i tedeschi o i giapponesi sempre dalla parte dei cattivi e i visipallidi e i marines sempre buoni e liberatori. Quanta “cingomma” ci siamo masticati in quegli anni, con cura e continuamente, per far dimenticare la fame. Venne poi il boom economico “dei favolosi anni sessanta”, che per molte famiglie foggiane segnò l’inizio di una triste emigrazione, a Milano e a Torino o in Veneto, dove la nostra formazione umana e culturale continuò, incattivendosi, per una stupida avversione antimeridionale che in quegli anni si tagliava a fette nelle regioni del nord, tra l’indifferenza dei nostri politici socialisti e democristiani di terza mano, perché di terza generazione, fannulloni e ingordi da fare ribrezzo. Venne poi il Concilio Vaticano II che impedì a molti di noi di lasciare una chiesa ottusa e sagrestana, rendendo possibili e a portata di mano speranze e attese a lungo sopite. Quanto terzo mondo nei nostri temi, quante nuove frontiere che un Ghandi, un giovanile Kennedy o un Martin Luther King ci facevano sognare. Quante canzoni dei rampanti cantautori, strillate fino a perdere la voce. E poi il sessantotto, la contestazione globale, come si diceva allora, versante laico, delle istante innovative della Chiesa, soffocata nel sangue di lì a poco. Speranze ancora deluse e frustrate per l’ottusità della borghesia e dei “nostri grandi”, da cui trapelava solo apprensione e incapacità a comprendere e paralisi educativa . “Siamo realisti, amavamo ripetere in quegli anni di amara delusione, abbiamo voluto l’impossibile”. E poi il tempo della formazione è passato. Siamo diventati adulti, nonostante tutto e tutti. I nostri educatori ci hanno perso, non hanno capito e certo non siamo stati proprio docili a quei discorsi formativi che sembravano vuoti miti, sopravvissuti a se stessi. Siamo cresciuti male, tra speranze e delusioni, tra mistificazioni e frustrazioni. Siamo una generazione persa e senza padri, con un forte senso di rammarico. E il rammarico si fa ancora più grande quando ci siamo accorti che la nostra è una storia infinita. A vedere lo spettacolo che la droga, la delinquenza organizzata, le morbose fantasticherie delle ragazze di Castelluccio ci stanno offrendo, pare che la storia educativa del nostro tempo si ripeta al peggio. E c’è ancora oggi, come c’era allora, il sedicente alfiere, autentico interprete del mondo giovanile, che si inventa mauselei alla memoria. Le strutture al posto della formazione. Un mito tardi a morire. Ma la formazione, quella personale, di chi comprende, di chi si fa compagno di strada, di chi segue con fiducia e da vicino, senza inutili spaventi, di chi coinvolge e si fa coinvolgere dalla storia è ancora vista con sospetto…I settantenni, nostri educatori di un tempo, hanno ancora ben saldo il potere tra le mani e non danno spazio. La storia, quella nostra e quella a noi successiva, non ha insegnato loro proprio nulla. Vuoi vedere che con il duemila tutto questo mondo veramente cambierà?

ARTICOLO DEL 26 OTTOBRE 2016

L'articolo che vi mancava: E GUERRA SIA....
CHI PUNZECCHIA E BACCHETTA CHI?
Il contesto è stato quello dell’inaugurazione dell’anno pastorale della Diocesi di Foggia-Bovino, la ricorrenza quella della consacrazione della cattedrale di Foggia, la folla delle grandi occasioni. Un’omelia, breve, e molto apprezzata dall’attento pubblico in chiesa. Quando si è avuto modo di leggere il testo nel sito della diocesi, alcune puntualizzazioni che nell’ascolto erano sfuggite ai più, sono balzate subito agli occhi. In particolare una frase, un caldo invito alla “riconciliazione”, almeno all’apparenza: "con voi vorrei non sentire mai parlare male degli altri, che si evitassero giudizi cattivi e che non si offendesse, da parte di qualcuno, con volgari menzogne scritte, la diocesi e il presbiterio". (http://www.diocesifoggiabovino.it/index.php? pag=arcivescovo& sub_pag =omelie &id=24). Un monito generico forse con un peccato d’origine che è proprio quello di “cogliere nel mucchio”, un dire e non dire, che permette ad alcuni di pensare quel che si vuole, mentre ad altri può lasciare l’amaro in bocca, come ci tiene a far sapere don Faustino Parisi, dai più considerato come il referente delle succitate frasi. Peccato, fa notare l’interessato, che l’eccellentissimo si dimentica molte cose che andrebbero, invece, ricordate. E che cioè al tribunale di Foggia c’è una causa pendente per diffamazione nei confronti di mons. Tamburrino e altri sacerdoti della diocesi, rei d’aver scritto e detto “cose davvero cattive” e “volgari menzogne” a proposito dell'ex-dirigente scolastico della scuola paritaria ubicata nel Seminario di Foggia, accusato ingiustamente e senza prove, d’aver “posto in essere e gestito”, all’insaputa di tutti, “una scuola parallela e seconda”. Accuse tanto inconsistenti da far perdere alla Diocesi ben tre cause con i dipendenti, messi alla porta con questa motivazione, e conclusesi con il reintegro immediato di uno dei tre e il pagamento (si dice parecchie migliaia di euro) per il risarcimento del secondo e altri ancora per la terza, il cui iter processuale è ancora in corso, ma dall’esito fin troppo scontato. Per queste cause perse, l’intera diocesi di Foggia, sta sborsando migliaia di euro e altrettanti, quasi certamente ne dovrà sborsare ancora, a riparazione dell’onore e del buon nome, (se non la diocesi certamente lo stesso mons. Tamburrino), quando fra non molto si arriverà alla conclusione della citata causa per diffamazione intentata da don Fausto. C’è anche dell’altro da leggere tra le righe di quell’omelia, suggerisce l'interessato, onestamente di più ampio respiro e non era centrata solo su questo dettaglio. Ricorda che non più tardi di qualche settimana fa, il nuovo avvocato della curia, nominato dallo stesso Pelvi, non ha esitato a reiterare le accuse di sempre nei suoi confronti, nel processo d’appello della causa già vinta, in prima istanza, dal signor Berardi. Ed è, infine, cronaca di questi giorni la richiesta di una delega da parte dell’Arcivescovo all’ex-dirigente del Liceo Sacro Cuore, “per il pagamento di arretrati INPS”, per contributi dovuti ai dipendenti, sempre di quella “scuola parallela e seconda”, all'origine di tutto lo sciame processuale cui si è fatto cenno. Insomma una bega che non sembra vedere la fine, per ilmomento




ARTICOLO DEL 19 OTTOBRE 2016
ed ecco l'articolo che vi mancava....
incontriamo e tappabuchismo.....la nuova linea pastorale della diocesi di foggia....SIAMO ALLA FRUTTA

Mi è stata recapitata, forse per errore, una lettera a firma del vicario generale, mons. Filippo Tardio, indirizzata “ai Direttori degli uffici di Curia, ai parroci, ai superiori degli istituti di vita consacrata, ai responsabili dei gruppi, movimenti e aggregazioni laicali”. Quindi ne sono esclusi tutti i viceparroci e i sacerdoti senza incarico, e chi come il sottoscritto non partecipa di alcuna delle suelencate catogorie. E nonostante tutto mi è stata inviata ugualmente, con il solito metodo artigianale, del corriere che se la lettera è stata scritta di lunedi, la posso leggere solo la domenica, quando mi reco alla chiesa di sant’Agostino, luogo dove solitamente mi viene recapitata a mano. Ma questo sarebbe il meno. E’ una lettera di accompagnamento con annesso “calendario delle attività pastorali della diocesi di Foggia”, e questo è il peggio: il nulla fatto sistema pastorale. Un documento fitto di appuntamenti, e di incontri, di attività, impressionante. Peccato che si tratta di un cliché, ogni anno sempre uguale, a fotocopia, senza fantasia e senza alcuna voglia di cambiamento, sia per le persone cui sarebbe rivolta (sempre gli stessi operatori del settore liturgia, catechesi e caritas, fedele a uno schematismo vecchio e desueto che solo la diocesi di Foggia ancora continua a perpetrare) e sia per gli interessati: operatori pastorali e spesso solo loro. L’unica preoccupazione dell’estensore è che “non si accavallino iniziative concomitanti”: praticamente non c’è mese e non c’è settimana che non venga fatta un’iniziativa di livello diocesano. Anche qui lo schema è sempre lo stesso, verticistico e dirigistico: il vertice ( sia esso il vescovo, gli ufficiali di curia, i vicari di zona, o chi per loro) “incontra” la base, i referenti, simili a sudditi in attesa del gran momento, che hanno il solo dovere di "andare all'incontro". L’”incontrite cronica” sembra la malattia che caratterizza questo calendario pastorale diocesano 2016/2017, in verità perfetta fotocopia di quello del 2015/2016, a sua volta stancamente fotocopia di quello del 2014/2015 (e nonostante il passaggio dal vecchio al nuovo vescovo). Gallina vecchia fa buon brodo dicevano gli antichi cui fa eco l’altro proverbio: chi lascia la via vecchia per quella nuova, sa cosa lascia ma non sa cosa trova. Sarà per questo che qui a Foggia non cambia mai nulla, neanche i calendari pastorali. La parola “incontro” viene ripetuta almeno 45 volte esplicitamente (e per sei/sette mesi di attività pastorale è davvero un record difficilmente eguagliabile). Per un’altra ventina di volte la parola incontro è sostituita con “aggiornamento”, “formazione”, “uscita”, “raduno”, ecc. Ed ecco un paio di mesi presi a caso, settembre-ottobre: 20 settembre, incontro degli insegnanti di religione con l’Arcivescovo; 14 ottobre incontro dei preti giovani; 15 ottobre incontro di formazione per ministri istituiti e straordinari della Comunione, 16 ottobre incontro ministranti, 17 ottobre incontro vicari di zona, 24 ottobre incontro dei diaconi e aspiranti al Diaconato permanente; 26 ottobre incontro parroci….e via di questo passo: ogni mese si ripetono con qualche piccola variante gli incontri del mese precedente. La fa da padrona la liturgia, a seguire la catechesi e sono solo quattro “gli incontri della caritas diocesana”. E questo sarebbe un programma, dicono gli estensori. Per noi, disincantati osservatori, è solo un pretenzioso, pomposo, ripetitivo, scolastico programma sempre uguale, vistosamente malato di “incontrite acuta”. Tra le tante amenità resta sempre l’incertezza sul luogo di questi 45 e più incontri. Mancando il luogo si deve pensare che siano tutti fatti a Foggia, al centro diocesano. Ipotizzare che un ministro straordinario dell’Ecuarestia ogni mese si muova dal suo paesello (Accadia, per fare un esempio) per incontrarsi a Foggia a un orario comodo per i foggiani (attorno alle quattro del pomeriggio), fare la riunione, di solito una o due ore e poi trovare un pulmann per rientrare in tempo, è veramente irrealizzabile: di fatto nessuno lo fa, neanche dalla vicina san Marco in Lamis, che di pulmann ne ha molti di più a disposizione. Come è impensabile che l’incaricato diocesano vada in provincia (ma gli incaricati in questione, cioè i vicari episcopali, sono per la maggior parte parroci oltre ad avere altri mille incarichi). In ogni caso questo non è previsto dal programma pastorale diocesano, il fotocopiato ogni anno uguale. Quello che sempre manca a questa scombinata diocesi di provincia sono le “verifiche”. Si è mai chiesto mons. Tardio se questo sistema, a parte il più classico riempimento di bocca, per dire che le cose in questa diocesi pur si fanno, riesce davvero a dare impulso alla pastorale di questa chiesa locale? Ai più pare uno stanco tirare a campare, di chi non riesce a pensare a nient’altro che all’eterno uguale. L’altro difetto vistoso che neppure il nuovo prelato è riuscito a cambiare è la pastorale “tappabuchi”, un difetto di tutta la chiesa italiana, se non universale, ma a Foggia è proprio abbiamo raggiunto il top. Una volta dato per scontato che la parrocchia è l’unico e il solo strumento della pastorale della chiesa, la preoccupazione che si nota è quella di “coprire i ruoli", di "tappare i buchi delle parrocchie”, Ma vista la scarsità di preti, questi parroci sono sempre più giovani, inesperti, impreparati, visto che l'altro pomposo sistema di preparazione clericale, il seminario di Molfetta proprio non riesce a fare di meglio. Se all’incontrite si accompagna il tappabuchismo pastorale davvero siamo giunti alla fine di questo tipo di chiesa, cioè alla frutta. Sarebbe troppo chiedere all’attuale dirigenza foggiana uno sforzo di fantasia? Abbandonare le pastorale dell’incontrismo e del tappabuchismo per una pastorale che centri tutto sulla sacralità e sul servizio al mondo, è chiedere una cosa dell’altro mondo? Evitando strutturazioni forti che come si vede ogni giorno nessuno è più capace di reggere. Immaginarsi in diocesi dimenticate da Dio e dagli uomini come quella foggiana? Dobbiamo farcene una ragione: siamo realisti stiamo chiedendo l’impossibile.