sabato 7 novembre 2015

L'OTTO PER MILLE E LE ALLEGRE GESTIONI DIOCESANE: L'ATTACCO DEL 7 NOVEMBRE 2015

LA CHIESA DELLE ALLEGRE FINANZE

L’avvio di questi spunti di riflessioni ci è dato dallo stesso papa Bergoglio. Qualche mese fa, o forse prima, avendo sentore che nella curia romana ci fosse una gestione economica piuttosto allegra e disinvolta, ha istituito una commissione per controllare entrate e uscite del bilancio vaticano. Una delle tante commissioni, diciamo periodiche, che ogni papa ha sempre posto in essere per verificare problemi e trovare soluzioni. Fin qui dunque nulla di straordinario o di “extravagante”. Il problema si complica quando alcuni filoni di questa inchiesta sfuggono al controllo degli stessi componenti della commissione, e grazie ai soliti corvi che in curia romana non sono mai mancati, tali documenti sono stati fatti trapelare (ad arte diciamo noi) e sono finiti in due libri, pubblicati proprio in questi giorni. Ed ecco lo scandalo, che poi scandalo, non è, come lo stesso papa ha tenuto a precisare, utilizzando un paragone ardito ma molto efficace: “sulle ferite va messo l’acqua ossigenata o il disinfettante, che sul momento può anche “soffriggere e far soffrire”, ma è quanto mai necessario, (“non abbiate paura del conflitto”), solo così si possono curare le ferite, altrimenti si rischia il peggio”. E’ in linea con quanto uscirà sul numero di sabato 7 novembre de La Civiltà Cattolica (un caso?) che riporta un discorso di José Mario Bergoglio, allora gesuita argentino, in un convegno di studi sui quattrocento anni di presenza gesuitica in Argentina. Un brano profetico? O piuttosto uno stile conservato coerente, fino ad oggi che quel Bergoglio è diventato papa Francesco? Ecco alcuni brani di quella prolusione: “Il coraggio ha un enorme nemico: la paura. Paura che, nei confronti degli estremismi di un segno o dell’altro può condurci al peggior estremismo che ci possa essere: “l’estremismo di centro”. “Innanzitutto, prosegue Bergoglio, la santità implica che non si abbia paura del conflitto; implica parresia, come dice san Paolo. Affrontare il conflitto non per restarvi impigliati, ma per superarlo senza eluderlo”. Fin qui papa Bergoglio. Anche a Foggia si ha da tempo sentore di una allegra gestione delle finanze locali, fin dai tempi di Casale, per la quale più volte è stata chiesta una commissione d’inchiesta, senza esito alcuno. In compenso, c’è stato qualche vicario generale che è saltato per la sua insistenza nel richiedere i libri contabili relativi all’otto per mille, durante quella tenebrosa gestione. Diciamo un incidente di percorso: libri non in mano all’economo diocesano, ma “custoditi” personalmente dal vescovo nelle sue segrete stanze, e “mai più ritrovati”, parole testuali di mons. D’Ambrosio successore di Casale. Come nebulosa rimane la debitoria da lui lasciata in eredità alla diocesi di Foggia, alla quale sembra far riferimento lo stesso mons. Pelvi, quando afferma, in più occasioni, in maniera piuttosto generica e allusiva: “che tutto l’otto per mille va a coprire i debiti lasciati da mons. Casale, e mai risolti fino a mons. Tamburrino”. Ci siamo fatti prendere dal prurito di andare a verificare queste affermazioni. L’unico modo è stato quello di controllare le “Erogazioni delle somme derivanti dall’otto per mille dell’irpef ”, pubblicate su “Vita ecclesiale”, l’organo ufficiale della diocesi di Foggia-Bovino dal 2010 al 2015. Se l’otto per mille viene speso tutto per coprire i debiti, una qualche traccia pur ci dovrà essere tra quelle carte. Debiti, sia ben chiaro, sempre non dichiarati ufficialmente, sempre tenuti nascosti, e perfino negati, dagli allora collaboratori di Casale, e in parte di Tamburrino. Essi sono almeno tre, quelli di una certa entità. Primo. l’affare Società “San Giuseppe Artigiano”, fatta nascere per “fornire piantine di pomodori” agli agricoltori locali. Spese per macchinari e capannoni vari, in tutto novecento milioni (non c’era ancora l’euro), richiesti alla banca ipotecando i novanta ettari di terreno agricolo, in quel di vado Biccari, donazione della signora Anglisani, dote per la vita del Piccolo seminario diocesano, retto dalle Oblate del Sacro Cuore di Gesù. Fallita come era nell’aria la società, intanto si sono persi i novecento milioni, e si è insolventi verso la banca che fra non molto si prenderà l’ipoteca. Altra donazione della signorina Franchini, una consacrata laica, circa due miliardi dei quali seicento milioni destinati alla costruzione della chiesa dell’Annunciazione, costata alla fine più di un miliardo, con costruttori che ancora aspettano di essere pagati (a dieci anni dalla fine dei lavori): altro buco avviato da Casale, passato per la mani di mons. D’Ambrosio e scodellato pari pari in quelle di mons. Tamburrino. I restanti un miliardo e seicento milioni (lira più lira meno) sono finiti nella costruzione Centro Giovanile di via Napoli, un’opera inutilizzata per anni, per lavori mai completati, affidati alla ditta Zammarano, e mancato decreto di agibilità. Ritornando alla frase sibillina di Pelvi ci siamo dati la briga di aprire le pagine relative all’otto per mille di Vita Ecclesiale. E le sorprese sono cominciate a fioccare, come deve essere stato per Bergoglio nei confronti della curia romana. Intanto non si tratta di rendiconti, ma di semplici “impegnative di spesa” (simile a un bilancio preventivo su conti certi), si tratta cioè del futuro utilizzo dei quasi novecento mila euro che ogni anno vengono erogati dalla CEI, alla diocesi di Foggia. Puntualmente alla fine di ogni bilancino, pubblicato nel numero di gennaio-giugno di ogni anno, si legge testualmente: “il “Rendiconto sarà pubblicato nel bollettino ufficiale della Diocesi n°2, secondo semestre”. E puntualmente non è mai stato pubblicato in tutti gli anni presi in esame. Il motivo non è dato sapere. Non sono solo queste le sorprese. Alcune sono diciamo piacevoli: dei novecentomila euro, per legge, circa il 40% sono destinati “per interventi caritativi”, gli altri per “Esigenze di culto e pastorale”. E qui iniziano le sorprese. Spicca al punto “A”, ogni anno, quota fissa, ventimila euro circa, per i “Sussidi liturgici”, per un totale nei sei anni presi in esame della bellezza di sessantottomila euro. Il che vorrà dire che non c’è celebrazione diocesana che non abbia un suo lussuosissimo libretto quattro colori. Altra spesa al punto “B” piuttosto elevata per “la curia diocesana e i centri pastorali”, circa duecentocinquantamila euro l’anno, per un totale di un milione novecentomila euro in sei anni. Una cifra esorbitante, nella quale non è dato sapere se entra anche la casa del Vescovo, le sue utenze e relative suore impegnate, o solo l’impiegato di curia e utenze varie. Sorge spontanea la domanda, prima dell’otto per mille come faceva ad andare avanti la curia diocesana? Non è che l’elefantiaca organizzazione, per giunta non sempre puntuale ed efficace (parola di mons. Pelvi), di questa curia vada di pari passo con la barca di soldi a disposizione? Altro dato al punto “B” riguarda gli euro destinati ai “mezzi di comunicazione sociale a finalità pastorale”: la bellezza di circa trentamila euro l’anno, quota fissa. Immaginiamo si tratti di pubblicazioni come “Voce di Popolo”, a pacchi depositati sugli ultimi banchi delle chiese e altrettanti pacchi di lettere pastorali, decisamente multi colori, anch’esse finite al macero nei cassonetti posti ai lati delle chiese. Fa specie sempre in questa carrellata lo zero fisso per voci che invece avrebbero dovuto avere un qualche sussidio: “Studio e rinnovamento delle forme di pietà popolare”, “parrocchie in condizioni di straordinaria necessità”, “clero anziano e malato”, “cura pastorale degli immigrati presenti in diocesi”, e così via. Intanto non si sa, perché mai pubblicati i rendiconti, che fine effettivamente abbiano fatto questi soldi. Tra l’altro per quanto affermato da mons. Pelvi non c’è traccia di pagamenti di debiti in quegli elenchi, piuttosto generici delle “erogazioni”. Mentre altre cose si sanno per certo, per conoscenza diretta, relative a un sistema piuttosto maldestro adoperato in certi anni diciamo bui di questa diocesi, durante i quali si metteva il milione dell’otto per mille, per sei mesi, bloccato in banca e poi lo si erogava, senza contare gli utili nel frattempo maturati, evidentemente evaporati senza lasciare traccia. Oppure cosa ancora più incredibile, raccontato da chi in quegli anni era un signor nessuno, e poi salito agli onori delle cariche curiali: “tu quanto hai chiesto alla diocesi per lavori in parrocchia? Centomila euro? Te ne dò cinquantamila, solo se mi segni come ricevuta l’intera somma, altrimenti neanche un euro”. Lui ha dichiarato, e gli credo, di non aver mai abboccato a tale ricatto, ma non poteva giurare lo stesso per altri. Insomma un sistema da lestofanti per scopi non sempre chiariti. Intanto restano i debiti di Casale, D’Ambrosio, Tamburrino, il quale nel frattempo ha pensato bene di metterci anche l’incompiuta scuola di teologia sempre in via Napoli, la cui donazione o proprietà finale non è stata mai chiarita, tra chi donava e chi riceveva. E pensiamo abbia fatto benissimo mons. Pelvi a rispedirla al mittente, o a congelarla in attesa di chiarimenti, finora mai giunti, e i lavori sono fermi da un anno quasi, e anche, tra l’altro, per l’infelice ubicazione fuori città di una struttura che serve più agli studenti della provincia che non a quelli del capoluogo.Che sia giunto il tempo di una commissione d’inchiesta che faccia luce una volta per tutte sui debiti dei vescovi precedenti e relativi apparati di curia? Papa Bergoglio l’ha proposta per la curia romana e sappiamo com’è andata a finire. In tutti questi anni, la paura del conflitto ha giocato al “caghe e accummugghie”, o al “citte citte in mizze a chiazze”, o al “tutti sanno ma nessuno parla”. Pelvi promette bene e speriamo che proceda alla maniera di Bergoglio. E’ da anni che aspettiamo fiduciosi.

I PRETI DI STRADA E LA PASTORALE DELLA SEDUZIONE: L'ATTACCO DEL 31 OTTOBRE 2015

I PRETI DI STRADA....


Papa Bergoglio continua a stupire la cristianità non solo per i suoi decisi interventi in materia di dottrina e morale cristiana (lo si è visto, prima e durante le giornate dell’ultimo sinodo dei vescovi, schierarsi decisamente a favore della comunione ai divorziati risposati), ma anche per i suoi gesti controcorrente (dalla nomina di mons. Galantino, ultimo della lista dei candidati alla segreteria della CEI, alla recente elezione a vescovo di Palermo di don Corrado Lorefice, “parroco di strada”, della diocesi di Noto e a quella di Bologna di mons. Zuppi, della comunità di sant’Egidio a Roma). Un nuovo e inedito sistema di selezione della “classe dirigente” della chiesa cattolica, che stenta a penetrare episcopati tradizionalisti e paciosi come quello pugliese, tanto per fare un esempio: siamo al decimo vescovo scelto tra i sussiegosi rettori del seminario regionale di Molfetta o tra i suoi professori, e non si contano neanche più, visto il numero rilevante, gli ex vicari generali, in pectore il nostro compreso. Forse hanno ragione in Puglia, anche perché di “preti di strada” da noi non è che si riesce a contarne molti, e se ci sono, come vedremo, sono da cercare più tra i religiosi e qualche prete isolato e in discredito, come si conviene in questi casi. Per capire chi sono i “preti di strada”, bisogna farsi aiutare da wikipedia: sono ”presbiteri, normalmente cattolici, che esercitano il loro ministero pastorale a diretto contatto con la strada, intesa come terra di missione”. Gli esempi più classici sono addirittura San Filippo Neri e don Giovanni Bosco. Ma non meno famosi sono i vari don Andrea Gallo di Genova e il comboniano Alex Zanottelli, don Oreste Benzi e lo stesso Don Puglisi, ucciso dalla mafia nel ’93, e don Ciotti da tempo sotto scorta. “Preti di strada”, vuol anche dire, troppo spesso (ahimè), preti non organici a programmi pastorali, di quelli solo sulla carta, senza seria programmazione e mai un briciolo di verifica, che molte diocesi sfornano a cicli continui e forzati per inerzia. “Preti di strada” in questi casi vuole anche dire essere fuori dai paludati palazzi del potere clericale, curie e organismi di varia e spesso pilotata partecipazione. Sono fuori, in molti casi, anche da parrocchie e parrocchiette delle nostre città, troppo spesso chiuse in se stesse e autoreferenziali, tutte preghiere e devozioni popolari, novene e pellegrinaggi a Medjugorie. Sono i preti che, finita la mesa e toltosi in molti casi, non solo gli abiti liturgici, ma anche la lunga e femminile tonaca nera, retaggio ottocentesco difficile a morire, e toltosi anche quel collettino bianco, la cui provenienza nessuno della chiesa sa spiegare, su rigorosa camicia e pantalone nero, mentre i più giovani lo mescolano a blue jeans, semmai un tantino scoloriti, come moda impone, ed escono semplicemente per strada, laddove è la missione del cristianesimo, per impegnarsi nei vari campi dell’emarginazione: dal carcere alla cooperazione e allo sviluppo, dal sostegno ai tossicodipendenti, a dipendenze varie, disabilità, orfani, minori abbandonati, prostituzione (tratta, violenza, sfruttamento), migranti. In molti casi i preti di strada hanno fondato gruppi, associazioni o comunità nei quali si è dato ampio spazio al laicato (sempre fonte wikipedia). Ce ne sono dalle nostre parti? O anche in questo siamo il fanalino di coda in Italia? A dire il vero noi, a Foggia, possiamo vantare la comunità di Emmaus, merito loro, sempre avversata dalla curia locale e preti benpensanti. Opera dello scomparso don Michele e tutti gli altri che in questi anni l’hanno accompagnato sostenuto. L’eredità l’ha presa un certo don Vito, sempre salesiano. Ci sono i padri Scalabriniani della diocesi di Manfredonia, in prima fila per l’accoglienza degli extracomunitari, lavoratori stagionali, schiavi del ventunesimo secolo, sotto padroni spesso cristiani e cattolici, e che nessuno o quasi protegge. Ci sono i preti di Libera a Cerignola, don Pasquale Cotugno e a Lucera, don Ciro Miele. E l’elenco a memoria finisce qui. Ce ne saranno anche altri, non citati per mia personale ignoranza, ma ciò che li accompagna è l’assordante silenzio delle istituzioni diocesane. Certo vanno capiti i pretini delle nostre diocesi, che si sentono rivoluzionari, per il solo fatto che rispetto agli anni passati, ormai tutti procedono con programmazioni in ogni settore della vita pastorale. Per noi è una terribile illusione organicistica. A guardare l’organigramma della diocesi di Foggia, tutto o quasi rigorosamente e saldamente in mano al clero, non si può che restare meravigliati. Non manca proprio niente. Leggo dall’ultimo numero di Vita Ecclesiale, solo i titoli: “organismi di curia”, “enti e organismi diocesani”, “settori e coordinamento dei vicari”, “organismi complementari”, “Vicario generale”, “Moderatore di Curia”, “Vicari episcopali di settore”, “settori pastorali”, “Ufficio catechistico”, “ufficio liturgico”, “ufficio per la pietà popolare e i pellegrinaggi”, uffici per gli “stati di vita”, sezione caritas, e ufficio amministrativo e mi fermo qui, sempre con la paura di annoiare il povero lettore, che si sarà perso nei meandri della curia, che forse non ha neanche tutte le stanze disponibili per tanta faraonica e inutile organizzazione, sempre più modellata su follie organicistiche e spendaccione di una CEI nazionale (tanto c’è l’otto per mille che foraggia). Insomma per una diocesi che conta cinquantacinque parrocchie sì e no, e un centinaio di preti diocesani, dei quali l’ottanta per centro oltre i sessantanni, e qualche decina di preti religiosi, molta forza si spreca per organismi sulla carta. Molti di quei preti impegnati in curia, a cominciare dal vicario generale l’intramontabile e coriaceo mons. Filippo Tardio, sono anche parroci, per non contare il parossismo di essere al tempo stesso incaricati su più uffici, come l’annuario diocesano tristemente nota. Meglio stendere un velo pietoso a tanta baldanzosa organizzazione, e guardare con simpatia a questi “preti di strada”, spesso neanche nominati in questi faraonici organigrammi diocesani e neppure coordinandosi con essi, che testimoniano la carità per il prossimo, che “sola”, e va ribadita, “sola”, può dare la salvezza e giustificare il senso della presenza nel mondo di una religione, come quella cristiana. Verrebbe da dire: “meno male che ci sono loro”. Purtroppo anche noi come lo sconsolato Abramo non siamo riusciti a raccoglierne nemmeno cinque nella nostra diocesi e ci siamo fermati a uno solo: i bravi ragazzi di Emmaus. In provincia qualcosa pur si muove. Dobbiamo e possiamo non solo consolarci ma prendere anche respiro e rinnovata fiducia quando lo straordinario papa Bergoglio ci sorprende e fa vescovo di Bologna mons. Zuppi, al posto dello spento e tradizionalista (in tutti i sensi) mons. Caffarra, e vescovo di Palermo don Lorefice, appunto un prete di strada, amico di don Puglisi e don Ciotti. Se a questi nomi si associano i neo cardinali, non più legati alla residenza cardinalizia, come Gualtiero Bassetti (Perugia), Edoardo Menichelli (Ancona) o Francesco Montenegro (Agrigento), allora si è difronte non più a casi isolati ma a una teoria. Lunga vita a Bergolio che non succeda, che morto lui si torna indietro, come troppo spesso avviene nelle nostre scombinate chiese cattoliche. 





LA PASTORALE DELLA SEDUZIONE


Dice il vangelo “Guardate che nessuno vi seduca”(Mc 13,5). E’ un monito del Signore, che evidentemente pur conoscendo l’altro detto dell’Antico Testamento “Mi hai sedotto Signore e mi sono lasciato sedurre” (Ger 20,7), intende mettere in guardia i cristiani dall’usare la seduzione come metodo pastorale. E’ una tentazione come le tante che la chiesa attraversa quasi ogni giorno. Basta osservare da vicino le cosiddette pastorali messe in atto dai preti, catechisti e collaboratori, fino a non molto tempo fa. Si va dalla “pastorale della paura”, molto utilizzata durante la mia infanzia: “se non fai così”, tuonavano i preti dall’altare o nei confessionili, “andrai certamente all’inferno”. “Il Signore ti punirà", facevano eco i catechisti, "se non obbedisci ai suoi comandamenti e alle leggi della chiesa, mentre se li metti in pratica, andrai certamente in paradiso”. Per poi passare alla “pastorale dell’evento”. E sono gli incontri oceanici a piazza san Pietro, le varie giornate mondiali della gioventù, i raduni spesso multicolori e con milioni di persone nelle varie visite papali, ai cinque continenti, "ricopiati" e pedissequamente "riproposti" da tanti vescovi locali, in piccole e grandi diocesi che siano: una prova di forza che neanche le tradizionali processioni riuscivano a dare sul territorio. Nulla da dire su queste attività pastorali, che diventano problema quando si vive solo in funzione di esse, o diventano di fatto l’unica attività pastorale per una diocesi. Ma la peggiore di tutte è proprio la “pastorale della seduzione”. Mal interpretando il passo biblico, s’intende "affascinare", se non “forzare”o “manipolare” l’uditorio, con strumenti che non puntano sui contenuti o sulla formazione e sua maturazione, ma sulla teatralità, spesso forzata per "emozionare", che va da una voce suadente, spesso ammiccante, al capello giovanilistico, spinto all’indietro, anche se ingrigito dall’età, e relativo sorriso ammaliante, pacche sulle spalle e "via di nuovo verso il vento". E’ la pastorale dell’entusiasmo, spesso poggiata sulla personalità del prete o del “catechista” che la impersona. Si tende a suscitare emozioni più che a spingere l’uditorio all’azione di servizio e di carità. Su quest’onda si capisce, forse, l’ascesa di un Mucciarone o Roberto Pezzano, e il declassamento di un mons. Trotta e un mons. Identi. Motivo? Avranno esaurito la loro portata di entusiasmo e di seduzione. Questi emergenti invece saranno più capaci di “attirare gente”. Quando si muove certa pastorale giovanile, o giovanilistica come diciamo noi, le chiese e le piazze si riempiono, alta à la partecipazione come pure il senso di soddisfazione. Il dubbio è lecito. E’ il monito antiseduzione del vangelo di Marco (il più diretto e “rozzo” dei quattro evangelisti): “Guardate che nessuno vi seduca”. Marco sembra voler dire, in coerenza con l’Antico Testamento, che è “Dio che deve sedurre”, e quindi “ che è Gesù Cristo che ha questo potere”, nessuno può prenderne il posto. Sarà triste per alcuni: ma al bene nessuno può essere forzato. L’entusiasmo da solo (come la fede senza le opere) non funziona non porta alla salvezza. Dopo gli incontri i giovani ritornano a casa, forse anche più contenti e felici, ma la città avrà fatto spallucce e continuerà a sprofondare nei suoi problemi. Più che la seduzione o la pastorale dell’entusiasmo ne andrebbe impostata un’altra, quella che opera sulla formazione (lenta e in progress) e che ha come esito il servizio e "la carità per la salvezza del mondo”, come ci ha detto chiaramente il Concilio Vaticano II, avendo sempre il mondo, come concreto punto di riferimento e di verifica. Lo abbiamo già notato: sono ben otto gli uffici per l’evangelizzazione, e solo due, se si esclude la Caritas diocesana, quelli riservati al servizio di carità. La cosa andrebbe semplicemente invertita. Si dice che la lingua batte dove il dente duole. E a vedere le attività di questa diocesi, è evidente che la lingua batta su un datato giovanilismo. “Ognuno si droga come vuole” disse una volta mons. Tonini. E noi lo ripetiamo. Ognuno segua il metodo pastorale in cui crede di più o gli è più congeniale, che sia ancora quello della paura, largamente utilizzato nell'iniziazione cristiana o quella dell'evento giovanilistico, che spesso si va a sostituire o a supplire un inconsistente cammino parrocchiale o una vita piuttosto chiusa in se stessa delle varie associazioni, ma guai a farsi prendere la mano dalla pastorale della seduzione dagli esisti disastrosi, in ogni caso. A noi, osservatori disincantati e forse anche un po' avanti negli anni (e se si vuole "sperimentati") si lasci almeno il dubbio o il timore che quando il primo povero sbatterà in faccia a questi giovani entusiasti e osannanti, il proprio bisogno o il disappunto per una carità, pelosa e di facciata o anche solo inefficace, l’entusiasmo non lasci il posto alla delusione e il giovane non si scoraggi o si ritrovi con l'amaro in bocca.



Una precisazione: don Tonino Intiso si è giustamente lamentato che tra i preti di strada di Foggia non abbia fatto il suo nome
Una mancanza che non ci costerà fatica recuperare quanto prima.
Si pensava a preti di strada ancora all'opera....meno a quelli che in passato come lui si sono distinti per impegno e disponibilità verso il territorio e attualmente come nella migliore tradizione foggiana posto nel dimenticatoio e in quiescenza.
Ripeto una mancanza facile da colmare.

UNA CURIA CHE HA SEMPRE VISSUTO A PROPRIA INSAPUTA: L'ATTACCO DEL 17 OTTOBRE 2015

LE RESPONSABILITA' DELLA CURIA FOGGIANA: IL PELVI PENSIERO
DA L'ATTACCO DEL 17 OTTOBRE 2015

l'articolo he vi mancava....scrocconi
il Pelvi pensiero: colpevoli i vescovi, scusati i lecchini, e ve li rimetto in gioco
Il carattere schietto e diretto di mons. Pelvi è certamente una novità per questa nostra diocesi, abituata fin dai tempi di mons. De Giorgi a un sussiego di modi e di parole, da barocco leccese, che proprio non ci appartiene. Dirette sono pure le sue sparate a zero verso chi l’ha preceduto: “in questa diocesi tutto l’otto per mille va per pagare i debiti contratti da mons. Casale e mons. Tamburrino”; “la diocesi di Bovino è totalmente in mano ai religiosi e dei suoi beni patrimoniali poco o nulla è rimasto”; “la scuola di teologia è un peso economico e di personale docente non più sopportabile dalla nostra diocesi”; “non riesco a capire come sia stato possibile affidare a due gruppi ecclesiali per i prossimi ventanni la chiesa della Mercede e il centro giovanile di via Napoli in Foggia”; “le cause perse con i dipendenti del liceo sacro Cuore stanno ancora di più affondando economicamente la nostra diocesi, e non si capisce chi le abbia posto in essere e peché”;; “ho dovuto chiudere il liceo sacro Cuore perché gli studenti si erano ridotti a 27, di cui otto seminaristi, tra l’altro di sola scuola media e qualcuno della superiore”; “stessa sorte, sembra dire, presto toccherà al seminario: un immenso stabile ad uso di solo otto ragazzi, tre preti e personale di pulizia e di cucina: un buco nero dal punto di vista economico”; “non si capisce come si sia potuto far costruire la nuova sede della scuola di teologia così lontana dalla città, senza tra l’altro definire chiaramente chi ne fosse il proprietario o il beneficiario; “l’idea di una scuola di teologia orientata a produrre solo professori di religione oggi sembra essersi esaurita, sia per il numero di docenti prodotti e sia per la scarsa incidenza che essa ha sul territorio diocesano, che ha ben altre priorità pastorali”. E la litania potrebbe continuare per molto tempo ancora, se non si avesse paura di annoiare il lettore. Quello che sorprende in mons. Pelvi, non è tanto la lucidità delle sue analisi e la sua franchezza nello spifferarlo ai quattro venti: grazie a Dio uno che le cose non le manda a dire, ma il suo “dire e non dire”. Chiara pare l’accusa rivolta ai vescovi che l’hanno preceduto: “hanno lasciato un mare di debiti”, meno chiara e meno esplicita l'assunzione di responsabilità di chi, come ad esempio mons. Filippo Tardio, vicario generale per quasi tutti gli anni di mons. Tamburrino, e dell'intero consiglio episcopale, che quelle cose hanno lasciato fare. Ormai la manfrina è più che consolidata tra gli ex collaboratori dei vescovi passati. I vescovi di turno si sono sempre difesi dicendo che per certe decisioni (quella della SGA – cooperativa voluta da mons. Casale, che ha dato in pegno i terreni di Vado Biccari, ex-dote del piccolo seminario di via Napoli, o quelle del centro giovanile, della chiesa della Mercede, della scuola di teologia, volute da mons. Tamburrino) “hanno sempre ascoltato e ricevuto il parere favorevole dei vicari episcopali”. Questi ultimi a loro volta, dopo e sempre molto dopo, a disastri avvenuti, si sono affrettati a dire “che a Casale non si poteva certo dire di no, senza incappare nelle sue ire”, “che Tamburrino, invece, faceva tutto lui senza comunicare loro alcunché, e che peggio alcune decisioni, come quelle relative alla scuola in seminario, venivano prese al di fuori del consiglio”. Insomma i più stretti collaboratori di Casale e di Tamburrino, hanno vissuto questi anni da "impotenti" o "a loro insaputa”: un ritornello imparato evidentemente dai politici nostrani. Una scusa che non regge e soprattutto è un modo di ragione che non regge. La storia andrebbe completata con chi in quegli stessi anni ha alzato forte la voce contro sprechi e allegre gestioni, ma è stato messo da parte. E' la parte di storia che sembra sfuggire a mons. Pelvi: quella di chi più apertamente attraverso gli organi di stampa o di chi nel segreto delle sagrestie o dei vari coetus consultorum o uffici amministrativi ha spesso manifestato il proprio dissenso e disapprovazione, e ne è stato estromesso o ridotto al silenzio: “a te non ti va bene un vescovo”, “anche tu sei come quel tal prete, che hai sempre da ridire su ogni cosa”, “se il vescovo ha deciso così, noi non possiamo farci nulla: è lui il vescovo”. Ecco a mio avviso le parti monche delle sorprendenti esternazioni di mons. Pelvi: lucida osservazione del disastro, nel quale versa questa scombinata diocesi di provincia, esplicita l’attribuzione delle colpe, meno chiaro il richiamo per chi in quei frangenti, abbastanza colpevolmente, ha pensato più al proprio “particulare”, semmai appagato di “monsignorati” di turno, che al bene presente e futuro della diocesi, sempre pronti a un pilatesco lavaggio di mani, per un defilarsi di responsabilità davvero sorprendente. In una cosa però rimane coerente l’azione del nuovo prelato rispetto al passato, continuare a neutralizzare il dissenso fino a confermare parte della vecchia guardia, che di quei disastri si è fatto corresponsabile. Ecco allora far capolino la domanda dei primissimi giorni: “sei tu quello che deve venire (a riparare i disastri dei vescovi tuoi predecessori, da De Giorgi a Tamburrino), o dobbiamo aspettarne un altro?”. Al lettore la risposta.


CHIESA E OMOSESSUALITA': L'ATTACCO DELL'8 OTTOBRE 2015

CHIESA E OMOSESSUALITA'

Monsignor Krzysztof Charamsa, 43 anni, sacerdote polacco e teologo di primo piano nella Congregazione per la dottrina della fede, ha fatto coming out: “sono omosessuale e sono felice di esserlo”. Se la cosa fosse fatta in tempi non sospetti, cioè non a ridosso dell’apertura del sinodo sulla famiglia, avrebbe suscitato un certo scalpore ma non più di tanto. Invece l’occasione colta non può che far arricciare il naso. E ha ragione padre Lombardi, che a onor del vero non sempre mi convince nei suoi interventi da sala stampa del Vaticano e da portavoce del papa, a dichiarare il gesto “grave e non responsabile, nonostante il rispetto che meritano le vicende e le situazioni personali e le riflessioni su di esse”. Il sospetto è fin troppo lecito: per conto di chi e a favore di chi ha agito questo monsignore di curia? Di papa Francesco, che vuole sui divorziati e sui gay maggiore apertura da parte della chiesa cattolica, o da quelli che gli remano contro? Sarà troppo facile, per questi ultimi, ribattere al papa che le sue apertura portano a gesti così eclatanti e fuorvianti per la comunità cristiana. Anche per noi, con mille distinguo, rimane un’uscita ambigua e intempestiva. E’ bene che la “Chiesa apra gli occhi di fronte ai gay credenti e capisca che la soluzione che propone loro” e che “l’astinenza totale dalla vita d’amore, è disumana”, ha detto mons. Charamsa, e siamo tutti perfettamente d’accordo, ma perché dirlo proprio ora, alla vigilia di un evento tanto delicato della storia della chiesa, come il sinodo sulla famiglia (già fonte di contrasti fin dal suo preludio vaticano)? A chi giova veramente una tale sortita: “non penso, ha detto Yayo Grassi, il discepolo gay di papa Bergoglio, che abbia fatto alcun favore alla causa dei gay o a Papa Francesco. La sua tempistica è stata sbagliata, il modo in cui ha parlato è stato sbagliato. Parlare di omosessualità in questo momento serve solo a distrarre la gente dagli altri temi importanti sollevati da Bergoglio: l’ambiente, la famiglia, la povertà, condividere quello che abbiamo con chi non ha niente”. E noi stiamo con papa Bergoglio e le sue battaglie, avviate all’indomani della sua elezione, un po’ meno sulle posizioni del teologo dell’ex sant’Uffizio, che, purtroppo per lui, pagherà a caro prezzo un tale gesto e di questo sinceramente ne siamo dispiaciuti, perché, ha prestato il fianco a una chiesa e un mondo cattolico “ottuso e retrogrado”, che mentre “commette tante porcherie quando ruba e quando imbroglia, e poi diventa 'di naso fine' quando si entra nel campo della sessualità” come ha ben chiosato mons Casale, che di maneggiamenti e imbrogli se ne intendeva parecchio. “La grazia di Dio non alza la voce” ha detto Bergoglio. E “se non sappiamo unire la compassione alla giustizia, finiamo per essere inutilmente severi e profondamente ingiusti”. E’ proprio contro questa chiesa “inutilmente severa e profondamente ingiusta” che spesso e volentieri ci si trova in contrasto. Una chiesa che oggi non sembra capire né accetta l’amore omosessuale, che persino san Tommaso difendeva proprio in quanto nella linea dell’amore. Ci siamo forse dimenticati le sue lezioni sui “peccati per troppo amore” da comprendere e perdonare ancor prima e molto di più dei peccati dettati dall’odio e dalla violenza? Qualche altro si è anche dimenticato il detto evangelico: “misericordia voglio e non sacrifici”? Oggi nella chiesa, purtroppo, c’è ancora troppa gente che scherza con il fuoco “della verità e della giustizia”, utilizzati sempre più in senso filosofico e stoico, quando non giuridistico, anziché evangelico. “Verità di amore” non è quella astratta definizione che fino a non molti anni (1982) il diritto canonico “concedeva” al solo matrimonio celebrato in chiesa, primariamente finalizzato alla sola procreazione e concepito “come rimedio alla “concupiscenza, conseguenza del peccato originale di Adamo ed Eva. C’è voluto il nuovo diritto canonico, bontà sua, a richiamare l’amore sponsale (e sessuale) tra due persone che si amano, come scopo primario del matrimonio oltre alla procreazione. E qualcuno vorrebbe che si aggiungesse: “indipendentemente dalla propria tendenza sessuale, pur sempre dono di natura, etero o omo che sia”. Ecco perché ci pare fuori luogo l’intervento intempestivo del prelato romano: rischia di bruciare tappe, di forzare tempi, di creare scalpore e eccessiva attenzione mediatica, per temi che come dice Bergoglio hanno bisogno di una chiesa “che è famiglia e sa porsi con la prossimità e l’amore di un padre, che vive la responsabilità del custode, che protegge senza sostituirsi, che corregge senza umiliare, che educa con l’esempio e la pazienza. A volte, semplicemente con il silenzio di un’attesa orante e aperta. Soprattutto, una Chiesa di figli che si riconoscono fratelli non arriva mai a considerare qualcuno soltanto come un peso, un problema, un costo, una preoccupazione o un rischio: l’altro è essenzialmente un dono, che rimane tale anche quando percorre strade diverse. È casa aperta, la Chiesa, lontana da grandezze esteriori, accogliente nello stile sobrio dei suoi membri e, proprio per questo, accessibile alla speranza di pace che c’è dentro ogni uomo, compresi quanti, provati dalla vita, hanno il cuore ferito e sofferente”. Noi stiamo con Bergoglio. 


sull'Omosessualità nella chiesa
Il tema dell’omosessualità è da sempre un prurito nella chiesa, e non solo cattolica: anche se nella chiesa valdese sembra essere oramai pacificamente accolto. La lettura più benevola considera l’omosessualità una malattia (per lo più congenita, se non conseguenza della caduta dei progenitori), quella più gretta la considera un peccato. I primi pensano che si debba e si possa curare. Non si sa come. I mezzi finora posti in essere sanno di museo degli orrori. I secondi dicono che se anche c’è la tendenza, e può essere un fatto naturale, in ogni caso diventa “peccato” quando dalla pura tendenza (come del resto quella eterosessuale) si passa alla pratica sessuale, peccato prima e fuori del matrimonio e peccato in ogni caso se omosessuale. Lasciando agli esperti il giudizio finale su questa importante diatriba un dato è incontestabile l’omosessualità è molto diffusa anche tra il clero, di sempre e non solo di oggi, ed è una cosa risaputa. Qualche prete, a dire il vero, confonde ancora omosessualità e pedofilia. "La pedofilia posso capirla, l'omosessualità non so", ha detto don Gino Flaim in quel di Trento: “purtroppo ci sono bambini che cercano affetto perché non ce l’hanno in casa e magari se trovano qualche prete può anche cedere. E lo capisco". E via con la sospensione a divinis della curia: siamo alla paranoia. La pedofilia è per lo stato italiano un reato, l’omosessualità no, almeno non ancora, contrariamente a chi vorrebbe, invece, considerarla tale. Dalle nostre parti più di un sacerdote è stato condannato per tale reato. Per altri casi simili le famiglie hanno preferito soprassedere e ritirare la denuncia. E non erano casi isolati. Come non ricordare l’eccessiva affettuosità di certi prelati per i piccoli ospiti del locale seminario: sublimata pedofilia dice qualche maligno, può darsi ma la scena non era certo edificante. Mons. Ruini ha detto a proposito dei preti disumanizzati da una sessualità repressa che: “come prete ho anch’io l’obbligo di tale astinenza e in più di sessant’anni non mi sono mai sentito disumanizzato, e nemmeno privo di una vita di amore”. E contento lui, contenti tutti. Non tutti, però, vivono l’astinenza sessuale alla maniera di mons. Ruini, che forse è riuscito a sublimarla con l’esercizio spregiudicato del potere, sia esso religioso che politico. La storia vera è invece un’altra ed è condita di allusioni e ammiccamenti del più classico “io so che tu sai che io so”, e così tutti stanno coperti e ben allineati, sotto un’ipocrisia diffusa e rigorosa consegna del silenzio. E perché dell’utilizzo di “siffatte notizie” qualche vescovo passato è pur riuscito a tacitare chi osava contrastarlo più del dovuto. La storia è fatta perciò di “si dice” e nulla più. Ma se si dice forse qualcosa e più di qualcosa sotto sotto c’è. E il percorso inizia con preti di curia, che si accompagnano con l’amico fisso, l’”amico del cuore”: è troppa la frequentazione tra i due e da molti, anzi moltissimi, anni, per non far sorgere il sospetto. Si sa anche di vacanze fatte assieme, di viaggi eccetera, ma qui finiamo nel pettegolezzo. Se poco si fa il giro per la zona off limits dei “cavalli stalloni”, luogo poco illuminato e molto congeniale a incontri ravvicinati del terzo tipo, non è raro incontrare a tarda notte preti, rigorosamente in borghese, che ci fanno quattro passi da quelle parti, oppure in macchina, così a rimorchiare: “e che è proibito ai preti fare quattro passi da quelle parti?”, è stata la difesa di uno sgamato da quelle parti, attorno alle due di notte. Si sa di altri da poco assunti agli onori degli altari (nuovi incarichi offerti da un vescovo evidentemente poco informato), che hanno dovuto lasciare in fretta e furia, si direbbe seduta stante, seminari e parrocchie, perché colti in flagranza di reato, per frequentazioni poco congeniali all’”astinenza sessuale” di ruiniana memoria. I maligni parlano di “trenini”, da non confondere con i giocattoli per bambini. Altri parlano di amicizie morbose con ragazzi, che se non necessariamente macchiate di pedofilia, per svincolarle si è dovuto ricorrere a mezzi drastici, con l’uscita dal seminario di entrambi: uno a casa, l’altro in parrocchia sotto stretto controllo. Così pure si sa, nel senso che tutti lo sanno, che qualcuno abbia prima ospitato l’amico del cuore in canonica, e al primo litigio sia stato lui invitato ad andarsene con tanto di carabinieri, perché si trattava di una casa popolare, e si sa che chi vi risiede stabilmente ne diventa proprietario. E’ successo anche questo. Qualcuno potrebbe dire: “ma come, la curia sapeva di queste cose e non è mai intervenuta?”. La risposta è semplice: tutti sanno ma forse nessuno ha interesse a parlarne. Si preferisce sorvolare. La pedofilia, si è detto, è un reato, mai giustificabile, checché ne dica il prete tridentino. Non lo è l’eterosessualità e l’omosessualità. E i figli di preti pur si sprecano da queste parti. E’ forse giunto il tempo di smetterla di combinare sacerdozio e astinenza sessuale, che tanto piace a mons. Ruini, lasciando libertà ai preti di sposarsi, e perché no anche di avere relazioni omosessuali. Forse vedremo qualche prete sorridere di più e, semmai, masturbarsi di meno, o fare surfing per le pagaie proibite di internet. Per buona pace di chi li vorrebbe casti come angeli. Sembra che sulla terra si possa essere angeli senza essere necessariamente casti. 


Sulla sortita di mons. Casale 


Mons. Casale non smette di stupire per la lucidità delle sue analisi. Il vizio è pur quello di sempre: predicare bene e “aver razzolato male”, anzi “malissimo” quando viveva da queste parti. Nessuno ha mai negato la lucidità a volte delle sue analisi e affermazioni, si è molto dubitato della linearità di certe sue scelte e prese di posizione come per il piano regolare di Foggia, l’amicizia neanche troppo nascosta con la ditta Zammarano e figli, e altre amenità del genere. Ma questa sua ultima intervista merita attenzione per il tema scelto e le cose dette. “Bisogna creare una mentalità nuova in un mondo cattolico chiuso, retrogrado, che commette tante porcherie quando ruba e quando imbroglia, e poi diventa 'di naso fine' quando si entra nel campo della sessualità, che è la bellezza di Dio in noi”. Ben detto. Chiara mi pare anche l’evidenziazione del puntum dolens del catechismo della chiesa cattolica, che “ai paragrafi 2358 e 2359, afferma che “l'omosessualità non è indicata come un male, come un peccato, bensì come una realtà che bisogna accettare. Però, allo stesso tempo, è considerata una tendenza che non va esercitata. Il Catechismo è rimasto fermo su questa posizione e secondo me qui c'è una contraddizione evidente”. Piace pure la sua visione della sessualità che non può essere solo genitale e finalizzata alla procreazione, ma è fatta di relazioni, amicizie, amplessi”. Finalmente anche una parola positiva sull’omosessualità che per Casale è “un diverso orientamento sessuale che mette in evidenza un rapporto affettivo, di stima, tendenzialmente duraturo nel tempo. Un rapporto che consente di affrontare in comune i problemi della vita e che spesso riesce a non cadere in quella sessualità esasperata che oggi colpisce tanti matrimoni eterosessuali, che purtroppo falliscono.”. Anche mons. Casale sa che il mondo cattolico non è pronto a queste affermazioni e che “La Chiesa non deve mettere il naso tra le lenzuola delle persone. Lasciamo che le persone vivano la loro sessualità come credono, nell'affetto, nello scambio di un abbraccio, di un bacio, di quello che vogliono. Anche questo è sessualità”. Fa impressione la lucidità di questo ultranovantenne, che ha da dire la sua pure sui divorziati risposati: “dire che un divorziato è in stato di peccato per me è una cosa che non sta né in cielo né in terra”. Libero a tutto campo, come non lo è forse mai stato prima. Anche se il suo tradizionale andirivieni, di matrice gesuitica, non si smentisce neanche questa volta: “monsignor Charamsa, come prete, era tenuto a osservare il celibato. Lo aveva scelto e quindi, indipendentemente dal suo orientamento, non avrebbe potuto vivere una vita sessuale normale”… C'è una differenza. Io penso che sia sbagliato vietare la sessualità a chi può legittimamente esercitarla. Vale a dire, a un omosessuale che non ha promesso il celibato, che non ha fatto voto di castità, e che oggi se volesse potrebbe sposarsi”. Ma forse l’intervista andrebbe ripresa per intero, per i tanti punti stimolanti in essa