sabato 1 novembre 2014

DUE ARTICOLI SU DON MICHELE DE PAOLIS: QUANDO A FOGGIA C'ERANO ANCORA I GIGANTI.....e non le quagliette a twittare


L'ATTACCO DEL 31 OTTOBRE 2014




WE NEVER FORGET DON MICHELE
Il personale ricordo che ho di don Michele De Paolis è una sua foto di famiglia, di nobile famiglia napoletana, lui bambino vezzeggiato da una nobildonna e anche mamma, nel grandioso giardino di casa sua, che lui mi mostrò con una certa visibile commozione. Una famiglia nobile e ricca che si è visto sfuggire il più bel rampollo, per inseguire una vocazione incomprensibile, a loro (e oggi forse anche a noi) un tantino, se non proprio tanto: religioso e sacerdote salesiano. E sì, perché si fa presto a dire don Bosco, oratorio, giovani, ma poi ci si dimentica che nell’Ottocento, quel “matto di prete”, come lo definivano i curiali torinesi, si era dato anima e corpo a recuperare quei giovani, che fin dalla più antica tradizione romana, erano considerati meno che schiavi, fino all’età adulta, e schiavi per sempre, se poveri ed emarginati. Oggi questo valore sembra perdersi nei meandri di una religiosità tutta parrocchie e oratori, possibili solo se annessi a parrocchie “ufficiali”. Ebbene don Michele, già dal 1975, la pensava diversamente e lo si è visto da subito. Il primo gesto eclatante assieme a don Giorgio e don Gerardo, altri eroi persi nel tempo, lasciano i locali della canonica alle famiglie sfrattate e si ritirano in una baracca vicina. All’epoca vescovo era mons. Lenotti, che pur faceva visita a quella parrocchia del Sacro Cuore, all’epoca vera periferia, ma non “capiva” pienamente quei preti strambi, né tanto meno il loro gesto, così innovativo e profetico. Ma fu l’inizio, l’inizio di qualcosa sempre ai margini di questa diocesi, che mal sopportava certe aperture, e che ancora oggi preferisce nel suo rinato settimanale, inneggiare sempre e solo al vescovo e le sue perfomance, o di quelle che con lui cinguettano, pardon, twittano, sulla stessa penosa lunghezza d’onda. Insomma un altro stile, un altro mondo. Poco valevano i miei discorsi da conciliare “aggiornato”, “di mostrare maggiormente lo stretto rapporto tra vita religiosa-liturgica e servizio estremo della carità”. Allora non capivo, oggi capisco che aveva ragione lui. Era molto più avanti di me, che pensavo di essere sulla cresta dell’onda conciliare, per giunta in una città che aveva visto il concilio con il binocolo e se l’era da subito fatto scivolare addosso, senza neanche troppi sussulti. E poi hanno cominciato a lavorare sul serio: un’iniziativa dopo l’altra, neanche fossero grani di un nuovo rosario: il primo centro rurale nella contrada Menarini, sulla via interna del mare, a un incrocio non meglio precisato, a mezza strada, indicazione “Amendola”. Là i primi incontri i primi dibattiti su uno sviluppo sostenibile in contrasto con chi oramai si adeguava passivamente agli agi di una società per bene, che abilmente nascondeva razzie e rapine dei paesi in via di sviluppo, succhiati e seviziati e asserviti contro voglia, a un malsano benessere, senza neanche sentirne una qualche forma di rimorso. E la cosa è cresciuta, “lasciata correre” da un’inetta curia e distratta chiesa foggiana, ma vista sempre più di buon occhio dalle istituzioni sociali e politiche. E così nasce Emmaus, un nome per una comunità, che è tutto un programma. Anche la congregazione salesiana “lascia fare”, “tanto prima o poi la cosa si spegne”. Ma la cosa invece cresce e si ingigantisce, grazie al carisma di don Michele, da pochi anni “reduce” in Italia (diciamo pure “rispedito”), da una prima linea di ben altre battaglie in America Latina: “fatto emigrare” per tenerlo almeno in vita, viste le minacce, neanche troppo remote, di fargli la pelle da quelle parti. Emmaus si caratterizza da subito per la cura dei tossicodipendenti ma non solo. C’era pura la prima espressione del “commercio equo e solidale”, per un supporto economico alla nascente opera. Emmaus come spazio per restare in una chiesa, non andando dietro, solo a confessioni, prime comunioni e cresime, ma aperta, sinceramente, a partire dalla messa e dalla cappella (questa volta al centro della comunità), per un servizio concreto, operativo, fattivo per un problema, tra i tanti dell’umanità. Emmaus, come faro, come meta per tanti foggiani, i “cattolici impegnati” del post concilio, delusi dalla vacuità di una ripetitiva e astratta pastorale parrocchiale. Laici che proprio non ne potevano più di preti, suore e processioni. In tre lasciano la parrocchia del Sacro Cuore, in mano a “tradizionali salesiani”, che continuano a dire messe e “fare oratorio”: attività nobili e forse anche meritorie, ma non altrettanto incisive sul territorio come ai tempi di don Nicola Palmisciano, prime e don Michele dopo, parroci. Non si abbandona il primo progetto rurale, ma qualcosa cresce e cresce ancora. Grazie all’infaticabile azione di don Michele: ecco il centro giovanile in via Candelaro, per un “oratorio diverso”, che sia soprattutto scuola pratica di vita, e di sostegno (dopo scuola e quant’altro) per giovani da sempre ai margini di tutto: famiglie, società, scuola, chiesa. E poi l’ultimo grandioso sforzo: il villaggio don Bosco, sulla via di Lucera, Località Vaccarella. Una serie di palazzine, con famiglie ospitanti, ragazzi, ancora una volta in difficoltà, extracomunitari, senza famiglia, senza patria e senza casa, vomitati sulle nostre spiagge da un Mediterrano, cimitero di tanti disperati naufraghi. Un altro colpo messo a segno dalla sagacia e dall’impegno di don Michele. Come non ricordare l’altra grande battaglia vinta, una battaglia di alta diplomazia: un confronto tra giganti (del bene don Michele e le sue opere) e del male (un povero untorello di provincia che utilizzava la chiesa, per piccole e datate ideologie del confronto, che nascondevano inespresse volontà di potere). Due modelli di chiesa al confronto, e allo scontro evitato. La capacità di imbrigliare il manipolatore per eccellenza, per salvare le sue opere di carità, viste come fumo negli occhi. E’ stato un grande don Michele anche in questa “diplomazia” alla don Bosco, che fa salire sulla carrozza per lui destinata al manicomio di Torino, i curiali venuti per accompagnarcelo Oggi siamo attoniti: questa faro si è spento, almeno momentaneamente. Una chiesa ufficiale, assente, nessun prete è stato avvertito della sua morte, e che se ne va dietro ai pianti isterici per un inetto vescovo che finalmente ci lascia. Oggi si piange un suo paladino, vero, e sono lacrime autentiche. Si è fermato un motore. Si tratta di schierarsi di nuovo, di ricomporsi, perché non vada dispersa la sua eredità. Cosa resterà di don Michele? Tutto: la sua tempra, il suo impegno, le sue opere, la sua tenacia, la sua fede incrollabile, il suo coraggio e la sua forza morale, culturale e spirituale, utilizzati al servizio degli ultimi. Resterà il suo gregge, quello dei suoi collaboratori, a volte generosi, volenterosi quanto basta, altre volte anche scombinata e allegra “doroty’s family”, da Alice nel paese delle meraviglie (dal leone codardo, all’uomo di paglia, all’uomo di latta). Grande anche in questo: far emergere il meglio da tutti, senza chiedere prima il segno di croce o la professione di fede. Ha guidato, da grande, quella barca, tenacemente costruita con le sue sole forse, e fino a tarda età. Solo un fulmine a ciel sereno, ha potuto fermare, come nelle grandi tragedie greche, un gigante di tale fattura: assunto in cielo come un Teseo, nel bel mezzo della vittoriosa battaglia. Grazie don Michele, per tutto quello che hai fatto per questa città e per noi. Un solo rammarico, ma siamo due spiriti diversi: non aver partecipato direttamente alle sue imprese, non essersi schierato apertamente al suo fianco, come tanti laici foggiani e come aveva pur tentato a suo tempo don Teodoro Sannella, scoraggiato dalle accorate preghiere di mons. Lenotti. Operazione pienamente riuscita, invece, con tanti altri sacerdoti, impediti anche solo di avvicinarsi a tale rivoluzionaria fucina di vita cristiana. E le conseguenze si vedono. Una diocesi di chiacchiere autoreferenziali, in tutti i settori, caritas compresa, che vive di beghe di sacrestia e di rancori mai sopiti, da “borghesi piccoli piccoli”. We never forget dicono gli americani nei momenti che contano. Almeno questo possiamo dirlo oggi apertamente. Mai potremo dimenticarti don Michele. Grazie.






L'ATTACCO DEL 1 NOVEMBRE 2014





"Mi sono recato di buon mattino a Emmaus, per cogliere dal vivo quello che i ragazzi ospiti e i loro animatori stavano vivendo in quel momento. Ho preso qualche appunto.

L'ISCHEMIA

Tre giorni fa’ don Michele si è sentito male. Portato di corsa all’ospedale, prime cure e verdetto che non faceva prevedere il peggio. Lieve ischemia cerebrale. All’apparenza. Poi complicazioni cardiovascolari e terapia intensiva. Don Michele sempre lucido ha chiesto ai dottori di poter morire tra i suoi ragazzi, rifiutando ogni accanimento terapeutico. E’ stato dimesso, controvoglia. E’ sopravvissuto un giorno solo, spirando serenamente tra le braccia del suo collaboratore più stretto don Vito. All’ultimo istante ha chiesto don Vito: “Padre mi benedica” e don Michele ha fatto il cenno con la mano alzata e poi è stata la fine. Sacerdote fino in fondo.

LA COMUNITA'

Ho trovato una comunità raccolta attorno al feretro, scuri in volto, sconforto generale, poca voglia di parlare. Mi avvicina uno dei collaboratori per una domanda che mi suona strana: “a chi appartiene la salma di un sacerdote defunto?”. “Ai famigliari” rispondo. “Cioè a noi”. “Non proprio, ma quelli più stretti”. “Hanno detto: fate voi”. “Nel suo testamento olografo c’è scritto che vuole che sia cremato. Sarà possibile?”. “Certo. Oggi la chiesa non pone alcun divieto alla cremazione, anche se si tratta di un sacerdote”. “Ha voluto che le ceneri fossero conservate nella sua Emmaus. Le pompe funebri ci hanno detto che tutto questo è possibile”. “Non vedo ostacoli alla sua volontà testamentaria”, concludo, “anche perché la povera cappella riservata ai preti di Foggia è non solo misera e abbandonata a se stessa, ma ormai colma in tutti i settori”. Per i preti oggi ci sono le cappelle comunali.

I "SUOI" RAGAZZI

Mi rivolgo ai “suoi ragazzi”. Nessuno ha voglia di rilasciare dichiarazioni, ma qualcosa pur riesco a trascrivere: “ci è morto un padre”, “un faro si è spento”, “siamo sereni perché sentiamo che sarà sempre con noi”. Emozioni rotte dal pianto. Entro nella chiesetta, dove c’è la bara, aperta, il volto segnato dalla morte, ma sereno e disteso come forse non l’avevo mai visto in vita. Una stola sudamericana, colorata e piena di ricami, gli scende lungo il corpo, dando solennità sacerdotale al feretro. “Era la stola che amava di più”. E attorno non molti fiori (sua espressa volontà), un cesto con delle candele spente, una gigantografia del papa Francesco che benedice don Michele, e tanti manifestini con frasi ricordo, scritte dai bambini (sono i figli delle famiglie che vivono a Emmaus, adibite ai lavori di casa e di assistenza). Frasi semplici e toccanti: “grande per tutto quello che hai fatto per noi”, “che fortuna averti conosciuto”. E frasi di adulti: “Grazie per avermi insegnato ad amare i più piccoli e i giovani. Grazie per avermi donato la certezza che Dio mi ama”, “Ciao don Michele….tu mi hai insegnato a perdonare…a liberare l’anima…e a non avere più paura! Tu sei per me vita”, “Ciao “Re della Daunia” per sempre, “i tuoi principi della Daunia”, “Tu sei eterno, tu non finisci mai, tu sei vero amore”, “Tu sei il dono più bello che la vita ci ha potuto donare”.

MONGELLI E D'URSO

Esco anch’io colto dall’emozione e incontro nel piazzale antistante la cappellina l’ex sindaco Mongelli che proprio non riesce a trattenere le lacrime, confortato da Peppino d’Urso, anche lui visibilmente commosso. Parliamo del più e del meno, di una città che sta sempre più sprofondando nella palude, di una politica che sembra aver perso ogni riferimento, ma il pensiero torna a don Michele: “è stato un grande”, “un secondo padre per me”, “che fortuna aver goduto della sua amicizia per tutti questi anni”, “ci ha insegnato cosa vuol dire essere veramente cristiani”. Rita, l’animatrice della comunità si dà un gran da fare per preparare la veglia che precederà il rito funebre previsto per le 15,30, nella parrocchia dei santi Guglielmo e Pellegrino. “Perché non in cattedrale?”, chiedo. “Pare che ci siano i lavori di sistemazione interna. Speriamo che la chiesa possa contenere tutti coloro che vogliono rendere l’estremo saluto a don Michele”.

LA VEGLIA PRIMA DELLA MESSA

Arrivano le 15,00. Lo scenario cambia. Siamo in chiesa, un breve veglia improvvisata con il coro che scandisce le varie testimonianze, una più toccante dell’altra. La più sentita: un gruppo di colore che legge una lettera rivolta a don Michele, in un italiano impossibile, ma che si fa capire chiaramente, con un “grazie” che scandisce ogni capoverso. E poi un bambino, Giovanni, che legge e si commuove e riesce a dire sommessamente grazie, almeno quello sono riuscito a carpire dalla sua emozionante lettura di un’altra letterina di commiato. E poi i “suoi ragazzi di Emmaus”, che ripetono “la tua opera non morirà con te”. E la responsabile di Shalom, un gruppo voluto espressamente da don Michele, perché l’impegno per la pace non sia solo risolto con la preghiera e l’invocazione. E ancora i giovani adolescenti del Centro giovanile di via Candelaro, anche loro a leggere frasi di ringraziamento, riconoscenza e d’impegno. A ogni intervento un battimani scrosciante di una folla che diventa sempre più numerosa, con il passare dei minuti.

SALESIANI, SCALABRINIANI, E TRE PRETI DI FOGGIA (DUE "OBBLIGATI")

Arrivano i sacerdoti, i suoi confratelli salesiani, distinguo nettamente don Giuseppe Ruppi, parroco fino a non molti anni fa del Sacro Cuore, l’Ispettore della provincia italiana, ma nessun prete della diocesi di Foggia. Forse non sono stati avvertiti, o forse quella chiesa profetica e al servizio del mondo che tanto amava don Michele, non è proprio la stessa chiesa. L’ho fatto notare a qualcuno: “sai da quanti anni non sentiamo più vicina la chiesa di Foggia”, mi ha risposto. “Non è di molti mesi fa una sfuriata del vescovo a don Michele, reo di celebrazioni “poco ortodosse” nella sua cappellina di Emmaus, come qualcuno dei soliti bene informati “gli avrebbe riferito”. IL mondo dei ruffiani vince sempre in questa paludosa diocesi. Il solito rubricismo liturgico, riesumato in questi anni, che pretende anche dopo il concilio di dettare legge e sostituirsi alla vita vera, di chi ama Dio con tutte le sue forze, che a volte possono essere davvero povere e se si vuole rudimentali, ma autentiche di sicuro e che Dio da sempre ascolta. C’è l’ex vicario generale, che forse non ne poteva fare a meno e il parroco, don Antonio Menichella, in rappresentanza di un’astratta e disattenta chiesa locale. Una scusa già pronta: “ma nessuno ci aveva avvertiti, altrimenti saremmo venuti”. Poi oggi venerdì c’è stato anche il ritiro dei preti, in mattinata, e “per oggi sufficit’”, avranno pensato. C’erano un paio di diaconi, di quelli immancabili che fanno corona al vescovo. Mancava il cerimoniere ufficiale. Una scusa pur ci dovrà essere: mica era un pontificale, era solo un funerale. E poi nessuno, ma proprio nessuno degli altri sacerdoti diocesani.

LA MESSA FUNEBRE: LE AUTORITà

Inizia la messa. Il coro canta il salmo d’ingresso e mons. Tamburrino, con la solita voce flemmatica che legge un testo lungo che parla di san Francesco e della povertà (?). L’ispettore salesiano tiene l’omelia, ripercorrendo la vita e le opere di don Michele. Ai primi banchi l’europarlamentare Elena Gentile, il prefetto, le autorità civili, polizia, carabinieri, forze dell’ordine, il sindaco Landella. La gente a capo chino e qualcuno non riesce proprio a trattenere le lacrime, si tiene il capo tra le mani e piange sommessamente. La messa prosegue come al solito.

QUELLI "FUORI"

Esco dalla chiesa altra folla sugli scalini, chi chiacchiera, chi fuma, chi proprio non riesce a entrare o forse perché neanche questa volta riesce a sentire “suo”, un ambiente che proprio non gli appartiene, e che don Michele sapeva avvicinare e con il quale pur intesseva discorsi importanti, vero “ponte” tra mondi che altrimenti avrebbero continuato a ignorarsi. Anche questo ha reso grande don Michele.