sabato 6 febbraio 2016

cominciamo bene....TUTTI GLI ARTICOLI DEL MESE DI GENNAIO 2016: CHI BEN COMINCIA E' A META' DELL'OPERA

Gli articoli del mese di gennaio e primi di febbraio

6 FEBBRAIO 2016
MONS. RENNA: il nuovo che sa di antico


Mons. Luigi Renna non si è fatto attendere a emanare i suoi aut aut: “quelli che si sono messi in politica e hanno ruoli di responsabilità nella chiesa devono decidere, o da una parte o dall’altra”. Detto in maniera chiara e perentoria in un incontro di operatori pastorali e sacerdoti nella chiesa di Cristo Re in quel di Cerignola qualche giorno fa. E fin qui nulla di nuovo sotto il sole, sia nello stile (dire pubblicamente una cosa che tutti sanno, senza fare nomi e cognomi), sia nei contenuti (la vecchia separazione già voluta da Giovanni Paolo II tra incarichi nella chiesa e impegno politico, una separazione da mani pulite francamente inutile). Sparare tanto alto e tanto forte per due, solo due, cattolici eletti nella lista “i Cattolici” nell’ultima tornata elettorale e alleati con il Sindaco Metta, ci pare francamente eccessivo. Insomma il discorso dell’impegno dei cattolici in politica lo si prende dalla coda, invitando non esplicitamente ma chiaramente a una scelta sia Mimma Albanese con la carica di vicesindaco e delega ai Servizi Sociali e al tempo stesso niente poco di meno che Priora di una confraternita, che Salvatore Amato, capo di Gabinetto e addirittura “contabile” o membro del consiglio per gli affari economici della curia. Giudicare male don Luigi per così poco è ancora presto. Ma di cosa stiamo parlando? Finalmente dopo anni di collateralismo vecchia maniera, quando la chiesa mandava i suoi migliori responsabili di AC e associazione varie allo sbaraglio politico democristiano, si è passati a un bisogno di separazione (anche perché la DC stava perdendo consensi!) tra chiesa e mondo politico, per arrivare poi a un, diciamo noi, collateralismo subdolo, alla maniera dell’indimenticato (perché i guai che ha combinato pesano ancora sulla amministrazione e sulla chiesa foggiana) di mons. Casale, che spesso e volentieri invadeva il mondo altrui, tuonando a destra a sinistra, “legalità e trasparenza”, per poi ritagliarsi favori personali per sé e il suo inseparabile “costruttore di Dio”. Un problema tutto “cattolico romano”, si potrebbe dire. Basta solo guardare all’immenso mondo ortodosso, pur sempre cristiano, nel quale preti e vescovi, pope e dirigenti religiosi, siedono tranquillamente negli scranni di tutti i parlamenti e parlamentini, da quelli locali a quelli nazionali o federali (quando la Russia era ancora CCCP), senza bisogno di abbandonare il loro ruolo all’interno della rispettive comunità, anzi facendosene carico. Sembra tanto tuonare per nulla, o don Luigi vuol dire qualcos’altro? Come, ad esempio, rimproverare “i Cattolici”, d’aver fatto un movimento politico con quel nome, con alle spalle gran parte del clero e laici impegnati di quella diocesi, per giunta a sostegno di un tale Metta, di idee non proprio liberali, in una terra che ha sempre visto il netto contrasto tra fascisti e comunisti, fin dai tempi di Di Vittorio prima e della stirpe dei Tatarella dopo. Ecco perché ci pare un intervento a gamba tesa e prendendo il classico toro non dalle corna ma dalla coda. Si può parlare di opportunità del doppio ruolo, lasciando da parte l’esperienza orientale. Anche se lo si indica solo per il campo politico e non per altri campi professionali o di sociali. Un bravo a questi “I cattolici”, almeno per averci provato a rompere un’apatia che da tempo rende subcultura tutto il mondo del volontariato e dell’impegno cosiddetto sociale cristiano. Spero non si voglia proporre un dilemma di stampo antico o una falange cristiana sotto stretto controllo della chiesa o netta separazione a ranghi sciolti. Chi fa politica si può scordare di ogni tipo di rapporto o relazione con la chiesa e le sue strutture. Poi qualcuno dovrà spiegare cosa si intende per “ispirazione cristiana nel impegno socio-politico dei cristiani”, che non si ritorni a rapporti di sagrestia o di incontri fuori orari e lontano da occhi indiscreti tra gerarchia e politicia, come avviene quotidianamente in quel di Roma per i fatti nazionali: family day docet. Buona lavoro mons. Renna. Se sono rose fioriranno. Comunque il toro se lo si vuole dominare dicono gli spagnoli va preso per le corna. Altrimenti gli si fa un solletico o un favore.














5 FEBBRAIO 2016
DON ANTONIO SACCO: 
la parrocchia è mia è me la pappo io 


L’evento è quello di sabato 6 febbraio. Con tanto di pompa magna viene dato l’annuncio dell’apertura dell’”aula liturgica”, cioè della chiesa, per i profani, di san Filippo Neri. E fin qui nulla da eccepire, se non fosse per una dimenticanza, un lapsus freudiano, diremmo, ma  che la dice lunga sulle relazioni, non certo amichevoli, all’interno del clero di questa scombinata chiesa foggiana. Ed ecco la frase. Nel fare la cronaca di questi anni dal 1999 al 2016, l’estensore del comunicato stampa dice che “nel dicembre 2003 vengono allestiti dei locali provvisori, in un box della zona, dove la comunità ha iniziato a crescere e a formarsi”. Tutto qui? E chi era il parroco di quella comunità? Don Tonino Intiso, diciamo noi, che conosciamo i fatti. Cancellato dalla storia senza un motivo plausibile. Un lapsus appunto o una dimenticanza voluta. Una “cassazione”, insomma, come quella degli imperatori che ordinavano di cancellare perfino dalle tegole dei tetti di Roma il nome di chi li aveva preceduti. Se questa non è barbarie. Del parroco dell’epoca è proibito fare memoria. La comunità aveva dunque “iniziato a crescere e a formarsi da sola”. Si sa, a dire il vero, di una lettera, “un accorato invito della comunità” (sarebbe il termine utilizzato da don Antonio Sacco), che inviterebbe don Tonino alla cerimonia in questione. Per il lettore ignaro è necessario stabilire date, fatti, padri e padrini di tutta questa vicenda che il 6 febbraio vedrà la sua conclusione. Incominciamo con i principali protagonisti: Mons. Antonio Sacco e l’Architetto Eugenio Abruzzini, di Roma, docente di "Architettura dei luoghi di culto" a Sant’Anselmo fino al 1993 e successivamente alla Pontificia Università Gregoriana, consultore dell'Ufficio Liturgico della C.E.I. e pubblicista. In quegli anni don Antonio, mio viceparroco a san Giuseppe Artigiano, era studente del corso di licenza in teologia liturgica all’Anselmiano. E tra i due ci furono da subito affinità elettive, visti gli eventi successivi.  A questo punto le date acquistano importanza. Siamo al 1 gennaio 1999. Mons. Giuseppe Casale emana il Decreto di Erezione canonica della nuova parrocchia con il titolo di San Filippo Neri. Il progetto è di Abruzzini e il consulente ecclesiastico è don Antonio Sacco, ancora insieme per un grande sogno: costruire la “masseria di Dio”. Quasi a compensare lo smacco che Abruzzini aveva avuto per il suo progetto della nuova chiesa di Padre Pio a San Giovanni Rotondo, all’ultimo minuto sostituito con quello del più famoso Enzo Piano. Sembrava cosa fatta: erezione canonica della parrocchia, progettista Abruzzini, parroco designato, da mons. Casale, don Antonio Sacco, all’epoca parroco a santo Stefano. Ma qualcosa non va. Casale proprio alla fine del 1999 viene sostituito, per raggiunti limiti d’età, da mons. D’Ambrosio, il quale vuole a tutti i costi don Antonio Sacco quale cerimoniere nella cattedrale, addio sogni per San Filippo Neri. Ed ecco il primo giro di valzer. Don Antonio, lascia santo Stefano e diventa parroco-canonico della cattedrale. Al posto di don Antonio ci va don Rocco Scotellaro (un nome che ritroveremo anche nei prossimi valzer), rimane appesa la neonata parrocchia di san Filippo Neri, destinata inizialmente a don Antonio, e ora senza pastorale. Il 2 dicembre del 2002 viene nominato prima il diacono Pino Rossetti, quale collaboratore parrocchiale, e poi il 6 gennaio 2003 don Tonino Intiso come amministratore, non propriamente parroco. La vera e propria attività di parrocchia, quando ancora l’iter burocratico per l’edificanda chiesa sta in alto mare, prende avvio con una celebrazione presso i locali dell’En.A.I.P. il 26 maggio del 2003. In piena estate le messe domenicali vengono celebrate addirittura all’aperto. E siamo al terzo giro di valzer: il 2 agosto 2003, mons. Tamburrino diventa vescovo di Foggia-Bovino in sostituzione di mons. D’Ambrosio trasferito a Manfredonia. Primo atto di Tamburrino è quello di approntare, il 20 dicembre del 2003, dei box in via Spera da adibire provvisoriamente a locali parrocchiali. E poi, colpo grosso, il 19 giugno don Tonino da amministratore parrocchiale viene fatto parroco di san Filippo Neri con l’espresso invito a lasciare il suo servizio di vicario per la pastorale. Una fava due piccioni. Per don Antonio Sacco il suo sogno di diventare parroco di san Filippo sembra allontanarsi ancora una volta. Si dovrà giungere all’11 dicembre 2008 per porre la prima pietra, segno che i lavori della chiesa si possono finalmente avviare. Un dato curioso: nella pergamena che solitamente si mette nel primo blocco di cemento della futura costruzione, ampie lodi ad Abruzzini, a don Antonio Sacco (sempre consulente ecclesiastico), menzione per il parroco don Tonino Intiso, ma nessun accenno a mons. Casale che quella chiesa aveva voluto fin dal principio. La nemesi storica dovrà pur far il suo corso prima o poi. I progetti delle nuove chiese ora hanno un fondo stabilito dalla CEI, traendolo dall’otto per mille. Ma solo per metà. L’altra metà deve essere a carico della diocesi e della parrocchia stessa. E qua cominciano i guai per il neo parroco don Tonino. Malumori e rimbrotti di Tamburrino sono sempre più frequenti. Lo si accusa di essere indolente e “distratto parroco”, che “butta i soldi dalla finestra” e poco fa per raggranellare la parte spettante ai parrocchiani. Da parte sua i progetti economici del parroco vengono sistematicamente elusi dalla curia, così si difende don Tonino. Per la cronaca va ricordata la battaglia contro i palazzi, di cinque piani l’uno, della ditta Mongelli proprio a ridosso della parrocchia, nell’indifferenza generale non solo del duo in questione ma dell’intera curia di Foggia. Nel frattempo i malumori raggiungono il culmine. Ma nulla si può fare, anche se mons. Sacco da tempo freme per una parrocchia che “gli spetterebbe di diritto” per tutti i trascorsi appena raccontati. Occorre aver pazienza e attendere la scadenza naturale di don Tonino, e i 75 anni suonati come vuole il CJC. Siamo così giunto al 2013. Finalmente Mons. Sacco e Abruzzini possono vedere realizzato il loro sogno comune, durato ben 15 anni. A favore della nomina di Sacco giocano alcune dicerie circa un’eredità milionaria (si sa che i soldi “fanno aprire gli occhi ai cecati”, come si dice da noi, e aprire anche i cuori più duri) e la sua ben nota capacità, di cui va dato atto, di saper “raggranellare” donazioni contrariamente a don Tonino Intiso, come l’aiuto di uno sconosciuto medico torinese, che offre l’intero impianto elettrico della chiesa. Ed ecco un valzer che sa di antico: finalmente don Antonio Sacco è fatto parroco a san Filippo Neri (il sogno che diventa realtà), don Rocco Scotellaro, lo stesso di qualche valzer fa, da san Ciro viene spostato in cattedrale, per far posto a don Roberto Pezzano, reduce da disavventure molfettesi, sulle quali si preferisce stendere un velo pietoso. Siamo giunti al 6 febbraio 2016. Al comunicato stampa, che per un lapsus freudiano, per essere benevoli, fa dimenticare tra i parroci fondatori di quella parrocchia proprio don Tonino Intiso, che  ha detto che non parteciperà (non pensiamo per quest’affronto ma per ben altri cento motivi) alla festa della dedicazione della chiesa. Alla quale sono stati invitati in pompa magna i vescovi emeriti mons. Casale (ritrovatosi arzillo novantenne amante dei gay “ricchezza della chiesa”, sono parole sue)  e mons. Tamburrino (esiliato-reggente in quel di Bovino). Ci saranno anche le “Pastorelle” di don Alberione, che si sono fatte carico della preparazione del lieto evento, e che vivono (pagate da chi?) sotto lo stesso tetto parrocchiale. Volendo chiudere questa storia-farsa occorre mettere in riga i personaggi: prima di tutti il duo Abruzzini-Sacco, un connubio durato quasi ventanni, poi mons. Casale, che erige la parrocchia, ma poi se ne va, D’Ambrosio, che preferisce don Tonino a don Antonio Sacco (che per quella parrocchia ci sbava per anni), a mons. Tamburrino che rimette le cose al suo posto, ma solo nel 2013, qualche mese prima della sua felice messa in pensione. Ed infine mons. Pelvi, che non può che raccattare i tanti stracci di una storia per lo meno balzana e altalenante. Lo dicevano gli antichi, quando c’è la passione c’è tutto e si raggiunge quello che per altri diventa impossibile. E con un pizzico di malizia, noi aggiungiamo: se si olea con un po’ di money, tutti i conti tornano.  Lunga vita (gli restano solo 7 anni di parrocato) a mons. Sacco. Questa parrocchia se l’è proprio meritata. 







4 febbraio 2016

"Non si può essere soli...."
a Foggia lo si è e ci avanza pure
sono sempre più convinto 
che i miei cani sono più solidali dei preti


Negli anni ‘65-’70, a quindici-ventanni, uno non immaginava proprio di doversi trovare un domani tutto solo, ultimo, o quasi, sopravvissuto a una famiglia che affonda le sue radici nell’ottocento, e trovarsi solo a combattere vecchiaia, malattia, allontanamento di amici, emarginazione. A quell’epoca si viveva di amicizia e di spensierata allegria. E si cantava di tutto. Era la stagione delle famose “messe beat” di Marcello Giombini, con tanto di chitarra e batteria, e relativa reazione dei soliti preti sclerotici (famosa quella avvenuta fisicamente  a san Giovanni Battista, quando don Antonio in un impeto d’ira buttò fisicamente fuori della chiesa tutte quella strumentazione, considerata diabolica, “che invitava più alla baldoria che al raccoglimento”, Osservatore Romano dixit. Per noi quelle melodie e quei testi semplici ci facevano sognare, pregare, e al tempo stesso pensare. Uno dei canti ripetuti all’infinito aveva un titolo addirittura profetico, visto i tempi che corriamo: “Non si può essere soli”. La recente morte, in clericale solitudine (se non fosse stato per fratelli e parenti), di alcuni sacerdoti senza che gran parte del clero ne fosse adeguatamente informata, me lo ha fatto ritornare alla mente. Già “non si può essere soli”, cantava Giombini e noi con lui, “meglio in due che uno solo. Se uno cade l'altro lo aiuta. Se due dormono insieme, insieme si riscaldano. Non si può essere soli, meglio in due; se uno è cieco l'altro lo guida. Non sembra nemmeno fatica il duro lavoro di sempre. Se due camminano insieme la strada sembrerà più bella. Non si può essere soli, meglio in due, se uno chiama l'altro risponde”.  Brano tratto di sana pianta da Qoelet 4,19-21, che a pessimismo contro ipocrite facciate di fraternità a buon mercato, ne ha da vendere. Sono diventati imperanti nelle nostre chiese locali, il clerical-funzionalismo e il piacerismo pastorale, per il quale vengono affidati incarichi a “cordate di amici degli amici”, per un risultato a dir poco risibile da pastorale della seduzione, mentre le chiese paurosamente si svuotano come pure i seminari, tanto da far gridare tutta la sua angoscia a papa Francesco, in un recente incontro di clero a Roma. A noi che tanto vecchi poi non siamo, ma non lontani da una vecchiaia ormai prossima e da una pensione (se mai ce l’avremo, con i tempi che corrono) fatta di tanti spiccioli e sacrifici, la paura di restare soli, non fa che aumentare lo scoramento. E’ diventata qualcosa di palpabile e hai voglia a farti riecheggiare quelle note di Giombini. Di quelle parole restano fisse alla mente solo i lemmi negativi: se uno cade..se uno dorme da solo...se uno è cieco...se uno cammina da solo...se uno chiama e nessuno risponde. Allora sì che la solitudine pesa. Meglio sarebbe stato farli sposare. E poi, a conferma o a sconforto, ecco come tante stelle cadenti, snocciolarsi i nomi di sacerdoti pur noti un tempo in città e morti in quasi totale solitudine,  come don Pasquale Gasparrini, don Matteo Francavilla, don Pasquale De Troia, circondati dal solo affetto dei parenti, non certo dei suoi confratelli preti. In altre diocesi si nomina qualcuno che faccia da raccordo tra i rampanti giovani tutto chiesa e gruppi giovanilistici e questi preti anziani, al crepuscolo, altrimenti si rischia, come è già successo, per ben tre volte, che li si perde, nell’assordante silenzio della comunità cristiana e di confratelli, alcuni volutamente tagliati, da ogni tipo di comunicazione, per un sistema quasi artigianale di connessione. E così rischiano di lasciarci senza traccia alcuna. E penso ai vari don Giorgio Mazzoccato (finito a Maria Grazia Barone) e don Tonino Intiso (accolto dalla sorella), a don Michele Genovese (anche lui da qualche parte ricoverato). Altri certamente mi sfuggono, o forse sono già morti e nessuno me l’ho fatto sapere. Nelle famiglie vere questo non accade, nella vita religiosa questo non accade, ma nel funzionalismo clericale delle nostre diocesi questo non accadeva un tempo ma oggi si, perché stupidamente funzionalisti e fraternamente divisi, da qualche tempo sta accadendo. Chi cura i sacerdoti anziani? I malati? Certo, bisogna dare atto a questo vescovo, ai precedenti un po' meno, che una volta messo sul chi vive, pur si muove, va a visitarli, propone soluzioni dignitose (anche se non sempre accettate dagli interessati), ma sono appunto episodi del tipo “quando viene avvertito”. Manca l'istituzione. Il clero si sta riducendo di numero e quello che c’è sta diventando sempre più anziano e solo. E Qoelet dice che non si può essere soli. Ma è ancora, la Bibbia, il libro di riferimento in questa scombinata chiesa foggiana? 







31 GENNAIO 2016

MONS. CASALE = MONS. S.P.A.
l'antesignano

Verrebbe proprio voglia di dire “l’avevamo detto noi” e fin dai tempi di mons. Casale: “la gestione dell’otto per mille ha dato la stura a personaggi senza scrupoli, per maneggiare soldi, non guadagnati, ma assegnati alla chiesa dallo stato, attraverso la firma sulla dichiarazione dei redditi” degli italiani. L’avevamo denunciato assieme a tanti altri sacerdoti e uomini di cultura, fin dai primi giorni dell’apparire di questo “curioso sostegno” alla chiesa cattolica, che rinunciava alla congrua per i parroci, ma in cambio si prendeva molto di più. Uno strumento apparentemente innocuo: “sono in fondo i cittadini che decidono che l’otto per mille dell’Irpef vada in beneficienza alla chiesa cattolica e ad altre confessioni religiose”. Ma c’è sempre un “ma”. Poco meno del cinquanta per cento va direttamente alle opere di carità (in Italia e all’estero), e Dio sia lodato, la beneficenza è manna per i poveri, in Italia sempre più in aumento. Ma,  poco più del restante cinquanta per cento è destinato al sostegno economico del clero (una trasformazione della vecchia congrua, utilizzata solo per i parroci un tempo e ora per tutti i preti) e per le opere religiose (costruzione di chiese e attività di natura pastorale ecc.). E qui che si è data la stura ai tanti maneggioni e filibustieri di lungo corso, che pur si intrufolano nelle pieghe della santa chiesa di Dio, con mire non proprio evangeliche e non sempre a servizio della chiesa, ma più smaccatamente personali e di famiglia. Lo si era detto all’indomani (1984) dell’entrata in vigore di questa intesa stato-chiesa che “nella chiesa sarebbero mancati tutti i necessari controlli perché delinquenti  sotto mentite spoglie non facessero man bassa di quella restante parte dell’otto per mille. Ci ammansirono allora. rassicurandoci che il sistema di controllo era già in atto nella chiesa attraverso gli economi e i relativi consigli d’amministrazione e dal neonato organismo dell’Istituto Diocesano Sostentamento Clero (IDSC). Peccato che i membri e relativi presidenti non erano affatto elettivi ma tutti “nominati” dai vescovi. “Ah davvero?”, dicemmo in coro. Ma il nostro sarcastico risolino forse non fu capito: “come? Chi deve essere controllato “nomina” i suoi controllori? Si dice in filosofia che la ragione non può in alcun caso dimostrare o criticare se stessa. E’ un cane che si morde la coda. Cartesio docet. Ci sembrò allora una battuta da “Vittorioso”, il supplemento del giornale di AC, con il suo squinternato detective il “Signor lo supponevo”. Quel famoso plico giunto in redazione, nel settore “fotocopie di Protagonisti”, è stracolmo d’inchieste fatte da quel settimanale (e puntigliosamente raccolte e conservate da mons. Casale, non si sa bene perché), su “fatti e fattacci” amministrativi della diocesi di Foggia, lungo tutto il suo periodo di espicopato. Raccogliendoli in volume, in un istant book, si potrebbe dare man forte e corroborare con altri esempi, colti in tempi non sospetti, quanto riportato dal numero de L’Espresso in edicola questa settimana. De Giorgi aveva fatto venire nel 1984 lo stesso Mogavero o Nosiglia se non ricordo male, allora non ancora vescovi o arcivescovi, a parlarci della meravigliosa situazione che si sarebbe venuta a creare per le diocesi con il gettito annuale dell’otto per mille. Peccato che anche lui, intendo Mogavero, non sia finito sotto processo proprio in questi giorni per una allegra gestione di quel malloppo. Alla nostra domanda su come sarebbe stata gestita “la trasparenza” e soprattutto il controllo su questa manna dal cielo, visto l’inconsistenza di tante diocesi sgangherate, come la nostra, ci fu risposto con un candore che ancora oggi al ricordo ci fa malignamente sorridere: “Verrà pubblicato ogni anno, preventivo e consuntivo, da inviare alla Cei e consultabile da chiunque”. “Ah, davvero?”. E’ bastato scorrere Vita Ecclesiale, del solo periodo a noi più vicino di mons. Tamburrino, per costatare che ogni anno appunto veniva pubblicato il solo preventivo e mai il consuntivo. Chissà poi per quale motivo. E torniamo all’Espresso di questa settimana. La prima sensazione è che davvero mons. Casale sia stato un antesignano di questa diciamo bonariamente “allegra gestione” delle finanze della chiesa e che abbia fatto scuola a molti vescovi e prelati d’Italia, più giovani di lui. Spregiudicato e maneggione quanto basta, ha anellato dal 1978 al 1999, una serie infinita d’imprese e di attività economiche, non proprio sul terreno dello spirituale e del caritativo, e peggio non sempre alla luce del sole, come la SGA, fallita in due anni, e con un retaggio di novecento milioni di ipoteca sui terreni di Vado Biccari, dote Anglisani per il Piccolo Seminario di via Napoli, un debito ancora oggi tutto da onore (se è vero quanto detto da mons. Pelvi all’indomani del suo insediamento a Foggia, che “l’otto per mille va tutto a pagare i debiti lasciati da mons. Casale e mons. Tamburrino); accordi alla luce del sole, questa volta, con la ditta Zammarano & Co, i famosi “costruttori di Dio”: le nuove chiese del periodo Casale, quasi tutte, portano la sua impronta, la sua firma, o la sua tentata partecipazione, come per la chiesa dell’Annunciazione, alla quale la ditta di Bologna rispose sonoramente picche, ecc.; l’affaire 47 milioni dell’eredità Schiattone con i suoi trenta milioni svaniti nel nulla, come documentato dal nostro giornale nei giorni scorsi; e via di questo passo. Casale è stato l’inventore, bisogna dargli atto, del “Monsignor S.p.A.”. Ha certamente fatto scuola agli altri prelati maneggioni della nostra penisola. Ho ancora ben chiaro alla memoria quanto mi confidò mons. Filippo Tardio, oggi vicario generale, circa uno stile di ricatti con i quali “gestiva a modo suo” i soldi dell’otto per mille, dati a pioggia alle parrocchie, e solo a certe parrocchie, o a enti o solo a certe sue congregazioncine religiose. Sarà una diceria, non c’è stato modo di appurare, ma la frase ricorrente a me riferita, “viva voce”, era questa: “quanto hai chiesto alla diocesi per i lavori parrocchiali: 100 mila euro? Te ne do 50, ma devi attestare lo stesso 100, o non se ne fa nulla”. E molti hanno abbozzato e sottoscritto. Trapela dall’articolo in questione quello che era già a suo tempo il puntum dolens: “chi controlla i vescovi?”. Finalmente la magistratura si è svegliata dal suo antico sonno “religioso” (“gli unti di Dio non si toccano” come diceva mons. Luigi Nardella) per chiedere conto e ragione di come vengono spesi i soldi dell’otto per mille. E così si snocciolano i nomi dei nuovi maneggio, Casale docet, e cioè i vari Micchiché ,Vittorelli, Mogavero, e tanti altri ancora (e l’elenco sarebbe molto più ampio se solo si scoperchiasse veramente la pentola. La domanda è ancora una volta semplice: tremila euro al mese, lo stipendio dei vescovi, non giustificano case, ville, palazzi, partecipazioni in holding ecc. C’è un peccato originale nella chiesa: l’assoluta e risibile mancanza di autentici controlli. Sia dal basso, quando i controllori vengono nominati dai “controllati”, e sia dall’alto, da una curia romana che per principio rispedisce al “controllato” ogni denuncia inviata da parte di laici e clero locale: e il circo di fantocci, colorati di porpora e lino, si mangia così da sempre la coda. Roma non fa inchieste, non ha forse né la forza morale né gli strumenti per fare quel ripulisti che da quando è stato eletto papa Francesco chiede a gran voce. Il sistema è bloccato al suo interno. Questo si sa, e ci vorrebbe uno di quei miracoli come al tempo di Gesù. Lo evidenzia bene l’Espresso di questa settimana: Francesco ha le mani legate e prossimo oramai alla fine del suo mandato, poche sono le speranze che qualcosa veramente possa davvero cambiare in questa scombinata chiesa del XX e XXI secolo: “La conferenza italiana è ancora in mezzo al guado: Bagnasco – scelto da Benedetto XVI – nonostante sia da tempo inviso al gesuita argentino è rimasto al suo posto, mentre Nunzio Galantino, la quinta colonna che il papa ha voluto come segretario della Cei, è osteggiato ogni giorno dall’asse del Nord, la cordata di estrazione ruinina composta dall’arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia, da quello di Milano Angelo Scola e dal veneziano Francesco Moraglia. Una fronda potente, cui Bergoglio non verrà facilmente a patti”. E così sia.  






30 GENNAIO 2016 
ULTIMO CAPITOLO (PER ORA)
DELLA SAGA CASALE


Ed eccoci arrivati al terzo capitolo della saga mons. Casale & Co. Come già detto nei giorni scorsi, siamo entrati in possesso di un voluminoso plico, giuntoci anonimo in redazione, con tanto materiale su mons. Casale. Il voluminoso plico, presumibilmente messo assieme dallo stesso prelato, e forse trafugato dal suo archivio o volutamente lasciato sulla sua scrivania, durante il frettoloso trasloco di fine mandato (attorno agli anni 1998-1999), contiene lettere personali, firmate e non firmate (delle quali si è fatto ieri un dettagliato resoconto), una decina di pizzini delle sorelle Pera (primo capitolo della saga), all’epoca perpetue di mons. Casale, con i quali si comandava a bacchetta il povero portinaio della curia, per lavori fuori contratto, di cui presto parleremo, e tantissimi ritagli di giornale. Un materiale prezioso utile a riscrivere laa storia di quegli anni, per gettare luce sui tanti punti oscuri e controversi, e dare qualche risposta a tante domande inevase, che da quasi trentanni aspettano risposta. Il capitolo odierno riguarda l’eredità Schiattone, ammontante a inizialmente a 160 milioni, e sui restanti 47.952.750 milioni di vecchie lire, oggetto del contendere tra mons. Casale e don Paquale De Troia. All’appello mancherebbero 30 milioni. Un mistero che cerchiamo qui di ricostruire. Ma di quei soldi nessuna traccia da nessuna parte, finora. Il punto è stato ben stigmatizzato da un articolo di Protagonisti del 17 aprile 1999, che parla di un’assegno girato da Casale a don Rocco Scotellaro, parroco subentrato alla “cacciata” del resistente don Pasquale de Troia, nonché esecutore testamentario del lascito in questione. Chiudeva l’articolo una frase che la dice lunga sulle manovre di allegra gestione del denaro di mons. Casale: “Di un terzo della volontà della vedova Schiattone, non si è saputo più nulla”. Purtroppo don Pasquale De Troia è morto la settimana scorsa, di fatto ignorato da quasi tutto il clero, per un sistema volutamente arcaico di comunicazione, che trascura i non parroci o non residenti in parrocchia, cioè i preti di serie B. Da lui ancora vivo, sarebbe stato interessante far ricostruire l’intera vicenda. Ci proviamo lo stesso. Il parroco della nascente chiesa nel rione Martucci, diventa, dunque, esecutore testamentario dell’eredità Schiattone, a occhio e croce, ammontante a centocinquanta/centosessanta milioni, ricavati da uno stabile della donatrice messo in vendita. Si era nel 1982, vescovo ancora mons. De Giorgi. Di questi i primi cento milioni vengono spesi da don Pasquale (il resoconto è contenuto in un verbale di passaggio di consegne tra i due parroci): 36 milioni per la pavimentazione e lo zoccolo della chiesa; 5 milioni e mezzo per l’impianto elettrico, 755 mila per la lumiera; 6 milioni per l’impianto di riscaldamento; 5 milioni e duecento mila per l’impianto di amplificazione; 18 milioni per la pavimentazione esterna; 26 milioni e trecento mila per i banchi; 2 milioni per il legato delle messe; 10 milioni per tabernacolo, via crucis e battistero; 879 mila per i progetti della sala confessioni e del teatro. Restano dunque circa 50 milioni. Siamo nel 1990. Cosa è successo dal 1982 al 1990? A De Giorgi sopraggiunge Casale, il quale evidentemente non gli pare vero di poter mettere mano alla restante parte della donazione circa 50 milioni. Don Pasquale ovviamente si oppone. Quei soldi servivano per la costruzione del teatro parrochiale. Per prima cosa cambia il parroco: a don Pasquale subentra don Rocco Scotellaro che in una lettera del 19 gennaio 1990, per lavori “diciamo di rifinitura” chiede di poter accedere a 20 milioni dei 50 ancora in mano di don Pasquale, in quanto unico esecutore testamentario. Dopo tante insistenze, o meglio dire vessazioni, e minacce di non poco conto, come quella di cacciare dalla diocesi il Movimento Sacerdotale Mariano, del quale don Pasquale era responsabile regionale; e l’intervento dello stesso vicario generale dell’epoca don Mario Paciello, don Pasquale decide di versare in un assegno circolare precisamente 47.952.750 milioni intestandolo a mons. Giuseppe Casale. Il quale con un normale assegno della Banca del Monte li passa a don Rocco. Tutti? No ovviamente ma solo i 20 milioni richiesti. E qui la domanda: e gli altri 30 milioni che fine hanno fatto? Non sarà mai dato saperlo. Svaniti nel nulla. Inutile cercarli negli archivi dell’economato della curia: non c’è traccia. Nel frattempo ben tre economi diocesani erano saltati. Questi “affari” li gestiva direttamente il vescovo in persona, non fidandosi evidentemente dei laici. Ci rimane la fotocopia dell’assegno circolare. La lettera di don Rocco di richiesta di 20 milioni per lavori urgenti e solo il “retro dell’assegno” relativo al versamento di parte dell’eredità, con la firma di Casale e controfirmato da don Rocco. Inutile descrivere l’amarezza di don Pasquale che aveva destinato quei restanti 50 milioni e più alla costruzione del teatro parrocchiale. Mai più realizzato. Un’amarezza che si è trasformata in rabbia, da fargli abbandonare la nostra diocesi per andare a fare il parroco ad Alberona. Ecco un’altra perla di don Peppino u’ tranese, come l’avevano a suo tempo bollato i bovinesi. La domanda è sempre la stessa da anni oramai: “chi era vicario in quegli anni, intendo prima don Mario Paciello e poi don Luigi Nardella, non si è mai accorto di nulla?” Si sa per certo che sia don Mario che don Luigi e poi il sottoscritto erano “saltati” per aver chiesto ragione di certe disinvolte operazioni commerciali e amministrative del tranese. E forse anche gli altri economi devo aver fatto la stessa fine per lo stesso motivo. Ma tutti gli altri, preti e laici, erano ciechi? Intendo i suoi fans. O si deve pensare che si accontentavano fin troppo facilmente di qualche briciola caduta dal tavolo del padrone? La storia continua. Anche perché il plico riserva ancora molte altre sorprese.

 



29 gennaio 2016
quel malandrino di Casale...


Come promesso ieri, ecco ancora lo spulciare del dossier, raccolto certamente dallo stesso mons. Casale, ma perso forse nel trasloco. Ora questo dossier fatto per lo più di ritagli di giornali e qualche lettera anonima e firmata, e i già famosi pizzini delle sorelle Perra, ordini dati al portinaio della curia di Foggia, prova inconfutabile di “servizi imposti e quindi prestati fuori contratto”, materiale per una prossima vertenza sindacale, è nelle mie mani e qualcosa resta ancora da pubblicare. Intanto due lettere di tenore diverso: una polemica del “popolo bovinese” e un’altra più tenera di una certa M. di Bari. Iniziamo con quella de “il popolo bovinese”, rigorosamente anonima. Il titolo è già tutto un programma “le malefatte di don Peppino Casale”. Si fa un lungo elenco abbastanza dettagliato di “domande rimaste inevase” e che ancora attendono una risposta: “che fine hanno fatto gli oggetti di valore rimossi dall’episcopio di Bovino, durante il suo restauro e mai rimessi al loro posto?”. “Solo il cielo lo sa”, è la risposta dello scrivente. La polemica prosegue rintuzzando un giudizio piuttosto pesante, che avrebbe espresso il presule foggiano riguardo la festa della Madonna di Valleverde, definendo “business di bancarelle e feste di quartiere” una tradizione che risale addirittura al 1266, secondo inconfutabili documenti ufficiali custoditi nell’archivio della cattedrale. Parole testuali. Così si rimprovera l’apertura di una “pizzeria” nel giardino del castello sempre di Bovino, data in concessione a un nipote di un prelato locale, di cui non si fa il nome, ma si sa che ha fatto pesanti accuse al vescovo presso la cura romana. Questo locale sarebbe stato concesso con “un comodato gratuito per ben 15 anni”. Fa cenno la lettera anonima anche a una trattativa di cessione del castello e locali annessi alla Provincia, in cambio di non si sa bene quali altri favori. La conclusione della lettera è quanto mai eloquente: “posa l’osso e giù le mani da Bovino, Peppino u’ tranese”. Una seconda lettera è stranamente finita in questo dossier, non si capisce bene perché visto i toni davvero intimi con la quale è stata redatta. La lettera è manoscritta e firmata. Il timbro postale data 13.5.99 a firma di M.M. (c’è anche l’indirizzo e numero civico oltre la città di provenienza). E’ qualcosa di più di una lettera di convenevoli o di interessamento per l’incidente accaduto a Casale. Questa M. si prende libertà, piuttosto ardite, come parlando di sue personali problemi sessuali afferma: “E non venirmi a dire che un arcivescovo non avverte certi stimoli…”. Il tenore della lettera è decisamente amichevole, forse anche troppo. Non sappiamo se corrisposto. Per pudore non trascriviamo certi passaggi decisamente osé. L’occasione delle due lettere, mal fotocopiate a dire il vero, è una caduta di Casale nel suo studio in episcopio e il suo ricovero in ospedale per sospetta emorragia cerebrale. Su questo episodio piovvero immediate le smentite ufficiali della curia e l’accusa al sottoscritto d’aver divulgato una falsa notizia, che alla luce di questa lettera tanto falsa non doveva essere. Prosegue: “ho saputo che la tua caduta è stata rovinosa e hai avuto una emorragia cerebrale”…”è anche vero che tu la testa ce l’hai molto dura”. “Ma che ti frega”, si potrebbe aggiungere tanto a te “campare ti piace, perché no, e pure bere e mangiare e respirare, e provare ancora qualche brivido della carne”…”E non venirmi a dire che un arcivescovo della tua età non avverte più certi stimoli”. “Anche Padre Pio ha dovuto combattere per tutta la vita contro i diavoli della sua stessa carne”. Anche se ben più gravi sarebbero i peccatucci di Casale: ”come l’orgoglio, il senso del potere, la collera che sia pure giusta sempre collera è”. Si direbbe una lettera tra due persone che ben si conoscono. Resta il dubbio amletico. Come mai, Casale, non si è mai disfatto di queste due lettere, così audaci e procaci? E come sono finite nel plico delle sue polemiche giornalistiche? E’ certamente un altro dei filoni di questo ambiguo e controverso personaggio, quanto basta per dar consistenza a tante altre leggende metropolitane sulla sua persona, come proprietà sparse per l’Italia, o incidenti alla frontiera con la Svizzera per un non dichiarato trasporto di quadri e ingenti somme di denaro. Dicerie appunto, leggende metropolitane, falsità continuano a sostenere i suoi fans. Ma poi qualcosa qua e là pur emerge. Foggia ha visto tante di queste storie, passate sulla testa di preti, a volte silenti e consenzienti, altre volte solitari oppositori, emarginati, che ora vorrebbero tirar fuori la testa, anche se a tempo scaduto. Fatti la cui verità forse non si potrà mai appurare. Intanto però ci restano i tanti suoi buchi neri, amministrativi e i debiti milionari, come per terreni, ancora sotto ipoteca, in quel di Vado Biccari, ed eredità svanite nel nulla (di cui presto si parlerà). Forse a queste “non più dicerie” si riferiva Pelvi qualche tempo fa, a proposito di debiti da pagare con l’otto per mille, all’indomani dell’apertura degli archivi dell’economato di questa bistrattata diocesi di provincia.



27 gennaio 2016
il plico che compromette venuto dal nulla 


Questa mattina mi è arrivato per posta un pacco, non di quelli sospetti, ma abbastanza strani e soprattutto inatteso. Una busta grande da A4, contenente fogli di varia natura, a una prima sbirciata. Il plico aveva una lettera di accompagnamento: “questo materiale era nel cestino dello studio di mons. Casale. Penso le possa interessare”. Nessuna firma, se non il timbro postale di Bari con la data di qualche giorno fa. Si può immaginare con quanta avidità è stato aperto questo plico, che da sospetto e inatteso, in pochi attimi era diventato fonte di mille curiosità. Tanti, tantissimi ritagli di giornale, con il solo protagonista di mons. Casale e le tante, tantissime, polemiche che hanno accompagnato il suo episcopato foggiano; alcune lettere anonime, circa affari poco chiari in quel di Bovino e relativo castello, altre firmate, una addirittura manoscritta, ancora più piccanti e circostanziate delle prima, e ricche di particolari inediti. Unico dubbio per quelle firmate: se davvero i nomi poi corrispondono a persone reali della nostra città. Un buon calligrafo arriverebbe facilmente alla sorgente. Faremo la relativa indagine. Di queste lettere ovviamente nessuno ha mai saputo niente in diocesi. Di solito le lettere anonime si stracciano e si buttano, quelle firmate no. In ogni caso per nessuna di esse si è fatto alcunché. Completa il plico un cospicuo numero di foglietti voltanti, veri e propri “pizzinni”, spesso a firma della signorina Anna Perra, perpetua di Casale, rivolti al portinaio, con ordini volanti su cosa da fare o non fare o per annunciare l’arrivo, “fuori orario”, di personaggi e relative buste…”da consegnare personalmente all’Arcivescovo”. Il che non può che spingere verso sinistri pensieri. Le domande si sono moltiplicate come tanti fiocchi di neve: come mai Casale non ha distrutto un materiale tanto compromettente? La fretta, la distrazione? Sono forse cadute, per caso, nel cestino vicino il tavolo di lavoro, o ce le ha messe di proposito perché qualcuno le raccogliesse, con la solita spavalderia che ha caratterizzato tutto il suo operato dalle nostre parti? E una domanda più inquietante delle altre: perché viene fatto recapitare per posta questo plico, a distanza di anni da quegli eventi? A cosa potrà mai servire, se non ad arricchire un’agiografia sinistra, puntigliosamente raccolta, di un Casale ormai prossimo alla sua resa personale dei conti con Dio? Gli articoli in parte sono materiale noto. L’unico particolare che quelli di “Protagonisti”, un settimanale che tanto gli ha dato da torcere, tutti rigorosamente in fotocopia, non si degnava di comprare il giornale, per gli altri tutti in originale da La Gazzetta del Mezzogiorno, spesso supinamente ossequioso verso l’autorità quando non smaccatamente elogiativo del prelato foggiano, il Quotidiano di Foggia e addirittura del Messaggero di Roma, per una balzana intervista a gogò tra bicchieri di vino e altro ancora. Chicca finale una pagina intera, sempre di Protagonisti, relativa a un’eredità Schiavone, svanita nel nulla. Anche se un retro assegno postale (solo il retro) riporta la firma congiunta di mons. Casale e don Rocco Scotellaro. Ma dei 47 milioni, poco o nulla si è saputo per davvero. Il protagonista di questa ennesima triste vicenda è stato proprio don Pasquale de Troia, recentemente scomparso, che di segreti su l’operato di mons. Casale aeva un’intera biblioteca, anche a proposito di certi ricatti posti verso l’associazione sacerdotale mariana di cui faceva parte e un ordine di suore, costrette a vendere al solito Zammarano il suolo in rione Martucci per un palazzone che fa bella mostra di sé in viale Fortore, zona sottopassaggio della ferrovia. Tante storie che riemergono, grazie a questo compromettente plico e del quale presto si parlerà diffusamente. Mi hanno colpito, invece da subito, i pizzini, in tutto cinque, ma forse in realtà molti di più, davvero gustosi, per il loro dictat perentorio e allusioni non sempre chiare che le due perpetue di mons. Casale erano soliti appendere al portone del portinaio della curia con ordini di varia natura. Eccone alcuni: il 7-8-98 le signorine Maria e Anna Perra, ringraziano il portinaio “per la cura che ha avuto per il piccolo PELE’”. Chiunque abbia messo piede nell’atrio dell’episcopio di via Oberdan 13, in quegli anni, non poteva non inciampare in questo peloso, nevrotico, piccolo chiwawa a pelo lungo di proprietà del vescovo. La cura del piccolo Pelè era compito specifico del portinaio: lo portava in giro per i suoi bisogni, ogni santa mattina e ogni santa sera. Finché proprio alla vigilia del trasloco, dicono i maligni, sia “morto di crepacuore”, che “poi tanto vecchio non era”. Un altro: “telefonare al signor…., in casa non c’è nessuno. Alle quattro e mezza viene l’architetto….per portare una busta per il vescovo- metterla in ascensore. Grazie”. Un altro ancora: “per favore bisogna pulire la macchina deve andare all’Incoronata per l’incoronazione. Grazie”. Sempre a richiesta di favori: “Per favore…telefoni al signor….per mettere a posto l’allarme. Appena apre…mi prenda i giornali- Grazie. Bisogna poi dare un bel po’ di acqua alle piante così cominceranno a fiorire”. E già perché tra le incombenze di Vincenzo il portinaio, oltre a portare a spasso Pelè c’era anche quello di portare il plico di giornali (una decina e tutti i santi giorni, a spese della curia ovviamente), dare l’acqua alle piante (una ventina, disseminate per il cortile dell’episcopio). Basterebbero questi pizzinni per aprire una vertenza sindacale. Tutte mansioni non previste dal contratto e imposte…”per favore”. Prima di lui altri due portinai erano saltati: uno per aver dato un calcio al povero Pelè che gli aveva addentato la caviglia e l’altro perché aveva fatto inaridire le piante. Misteri della gestione Casale e delle sorelle Perra. Per il mistero dell’eredità svanita nel nulla alla prossima occasione. Ma c’è dell’altro ancora.




7 GENNAIO 2016
LA PRIMA VOLTA DI MONS. RENNA
E LA LOBBY OLTRE OFANTINA


Mons. Luigi Renna, nato il 23 gennaio 1966 a Corato, provincia di Bari ed arcidiocesi di Trani-Barletta-Bisceglie oggi entrerà ufficialmente a Cerignola come vescovo. Il curriculum è di tutto rispetto soprattutto per la sua laurea in Teologia morale, conseguita nel 2003 a Roma. Ha insegnato a Molfetta morale e qualche anno fa ha dato vita a un interessantissimo convegno su “neuroscienze e comportamento umano”, di cui si è avuta una certa risonanza nazionale. Fin qui le lodi. Per non perdere la buona abitudine di dire le cose come stanno, ecco le pecche del nuovo prelato: non proprio sue, ma certamente della lobby alla quale bene o male appartiene. Prima fra tutte è “barese”, come il suo predecessore, mons. Di Molfetta. Anche se nativo di Corato, e della diocesi di Andria, oltre l’Ofanto per noi foggiani, si va in un’altra regione, in tutti i sensi. Si entra nella terra di Bari, levantini e predatori per lunghissima tradizione da san Sabino a san Nicola (due santi nati e vissuti altrove, ma trafugati da mercanti baresi). E di risentimenti non tanto religiosi ne abbiamo da vendere. Di là provenivano i soliti crumiri pronti a sostituire i nostri braccianti in sciopero contro i padroni. Sarà un caso, ma intanto sono anni che dal nord della Puglia non esce un vescovo. L’ultimo è stato don Mario Paciello della Diocesi di Foggia, ai tempi di mons. Casale, che è tutto dire, cioè più di venti anni fa. Oggi compiuto i 75 anni è a riposo come santa chiesa romana comanda. Evidentemente le cinque diocesi di Capitanata non riescono a fare lobby, tant’è che anche nel seminario di Molfetta, i foggiani sono rara avis, mosche bianche. Lo strapotere, l’asse Bari-Taranto-Lecce, ne detiene saldamente il bastone del comando. L’altra pecca è quella che ancora una volta viene scelto un rettore del Seminario di Molfetta. E’ il seminario regionale e da sempre luogo degli incontri di tutti i vescovi di Puglia per il loro mensile meeting. Ad accoglierli c’è sempre in pompa magna il rettore del seminario. E dagli oggi e dagli domani, ‘sti vescovi, accolti con tanto amore e onore, dovranno pure disobbligarsi. E non si contano più i vescovi usciti da quella, che dovrebbe essere soprattutto una fucina di buoni preti. Un tempo pieno di trecento seminaristi, oggi un po’ meno, ma sempre tanti, o per vera vocazione o, perché no, per mera carriera. Chi parte da Santa Maria di Leuca (Lecce), dopo c’è solo lo Ionio e le porte sul nulla per i nostri antichi, è pur sempre un salire su, un emergere, un crescere di status sociale: il prete da quelle parti è ancora una istituzione, alla don Camillo e don Peppone. A vocazioni ci battono solo gli africani e gli asiatici, e una volta i sudamericani (ora un po’ meno). Il che è tutto dire. Vi è mai capitato di vedere quante suore bellocce e colorite girano per i nostri conventi, anche solo a Foggia? Poche le italiane: hanno già dato. Il subappenino dauno ha più suore in giro per il mondo che abitanti ormai. E forse si sonoe esaurite le scorte. Non ci restano che le africane e le asiatiche, appunto, poi andremo a cercare vocazioni sugli altri pianeti. Queste pecche lobbystiche non tolgono nulla ai meriti di mons. Renna, un “giovane” del ’66, che se anche non sa nulla del ’68 e neppure del ’77, dell’uccisione di Aldo Moro, e casini vari nostrani, ha fatto la sua brava, onesta, carriera nel seminario di Molfetta, prima come studente, e poi come docente ed infine come rettore. Intelligente e buono, lo sottoscrivo per averlo conosciuto di persona. Una brava persona che ha già deciso di disfarsi di tutte quelle regalie che il clero, con una manovra d’altri tempi, gli ha preparato ancor prima che mettesse piede in diocesi, tra lo sconcerto generale. E’ stato amato dai suoi seminaristi di Molfetta, come forse nessun altro prima di lui (oggi tutti, o quasi, vescovi consacrati). Le pecche, sono pecche e rimangono: è barese e viene dal seminario di Molfetta. Un altro della serie. Di vescovi di strada in Puglia neanche l’ombra: da noi se li scelgono tra di loro, mica interviene papa Francesco. Nella generale insignificanza e totale mancanza di incidenza sul territorio di cui danno quotidiana prova, fatta eccezione di don Tonino Bello (ne nasce uno per secolo ed era pure mal visto dai suoi), vogliamo solo sperare che le premesse culturali e umane, che lo contraddistinguono, producano un benefico effetto su quella diocesi, non proprio fortunata da qualche anno a questa parte, e sul resto della Capitanata. Good luck e good job, buona fortuna e buon lavoro, direbbero gli americani. Più semplicemente “buon lavoro don Luigi”. Piace ancora chiamarlo così, visto che una volta siamo stati pure colleghi. Di moralisti che fanno carriera ce ne sono pochi in giro e se ne vedono gli effetti. Gli altri stanno ancora con il cappello in mano, sottoutilizzati quando non emarginati: tanto per gli inutili sensi di colpa e i peccatucci d’altri tempi, ci pensano da sempre parroci e catechiste mamme.