sabato 9 gennaio 2016


"SALICE: IL TERZO MONDO ALLE PORTE DI FOGGIA"
Articolo su L'Attocco del 29 dicembre 2015 
tre giorni di buio....ma la bolletta è sempre quella
grazie Enel

La solfa è da sempre la stessa: gli abitanti del Salice vecchio per viabilità, servizi, acqua, luce, gas, sono foggiani di serie “B”, grazie sindaco Landella e amministrazione tutta. Le strade da sempre sono sentieri di guerra: ora si sfasciano per un misterioso tubo color blu (dicono per la rete internet, ma nessuno ci crede), ora per una condotta fognaria mai entrata in funzione: le opere di urbanizzazione a carico del comune, visto che la zona è stata “bonificata”.. Le tremila persone che abitano di fatto galleggiano sulla merda dei loro pozzi neri che quando vengono svuotati, uno fa prima a lanciare un urlo e scapparsene via, vista la puzza irresistibile. L’acqua, non è ancora quella dell’acquedotto pugliese, ma è presa dai pozzi: certamente pura, basta che non va incrociarsi con i i liquami dei pozzi neri, che qualcuno per risparmiare ha pensato bene di bucare, così resta solo la merda ben compatta e i liquami se ne vanno tranquillamente a concimare, meglio sarebbe dire, a inquinare le falde acquifere. Questo è ancora il Salice: il terzo mondo alle porte di Foggia. Ed ecco la sorpresa di Natale, come un regalo sotto l’albero: si sono fregati chilometri di cavi elettrici e tutta la zona da due giorni è piombata nel buio più pesto. Inutile chiamare la segreteria telefonica dell’Enel, una voce femminile preregistrata e accento straniero, forse il loro call center starà in qualche paese dell’est, il primo giorno ha detto che “entro quattro ore, sarebbe ritornata la luce”. È così è stato. Plauso all’efficenza Enel. Il giorno alle otto di sera, va via di nuovo la luce. La stessa vocina femminile imperturbabile ripete che “la luce verrà ripristinata il più presto possibile”. Al che il panico si è diffuso di casa in casa in men che non si dica. Era chiaro a tutti che per le feste di Natale, ci si poteva dimenticare della luce. E nessuno pensi ai poveri alberelli di Natale o ai rudimentali presepi che ogni famiglia ha preparato per l’occasione con colorate luci intermittenti. Spegnere quelli sarebbe il danno minimo. I guai sono ben altri. Senza elettricità non si tira su l’acqua dai pozzi. Senza elettricità non c’è riscaldamento. Senza elettricità non si cucina. Senza elettricità non ci si lava. Senza elettricità non si aprono i pesanti cancelli automatici della FAAC, e neppure si chiudono: i ladri sono avvertiti. Senza elettricità non si riempiono d’acqua gli sciacquoni dei bagni, così che la famosa merda dei pozzi neri nemmeno ci defulisce. Insomma una tragedia è giusto sotto le feste di Natale. Ma la storia non finisce qui. Interpellata direttamente l’Enel, e non più la polacca del calo center, ci si è sentiti rispondere che la colpa non è delle fatiscenti cabine elettriche della zona (vecchie di secoli) ma dei soliti albanesi, affamati di rame, che avrebbero tranciato ben dieci campane di cavo. Insomma per una distanza di tre o quattro chilometri. E relativa alzata di spalle. La gente sempre più incazzata si è radunata in questi giorni per una class action contro l’Enel. La puntualità con la quale richiede il pagamento delle bollette, pari se non più pesanti di quelle di Foggia, non ha alcun corrispettivo, al continuo disservizio. Anche in tempi di pace la luce va e viene, ha sbalzi improvvisi, così da bruciare i delicati apparati elettronici, ormai presenti in tutte le case, rende la luce anche quella dei neon fioca e ballerina come un albero di Natale. E la litania delle lamentele non finisce qua. Ora ci mancava questo scherzo di Natale e 
la cosa che fa più rabbia è proprio l’alzata di spalle di quelli dell’Enel, impotenti dicono loro, a fronteggiare i ladri che fanno quello quello vogliono e come vogliono. Una spiegazione che non convince gli abitanti della zona. Ogni traliccio dell’Enel riporta la scritta “chi tocca i fili muore”. E com’è che questi non solo toccano i fili, ma se li fregano senza che nessuno di quelli dell’Enel, eccetto gli abitanti del Salice, se ne accorgano. Qualcosa non torna. E’ come quando in banca si ripetono furti, o qualcuno elude la vigilanza e scappa dalle carceri. Nessun magistrato degno di questo nome pensa che non ci sia dentro qualcuno che fa da supporto. E per banca e carcere si trova sempre il connivente. All’Enel evidentemente il sistema è così aperto e disponibile a quattro rubagalline dell’est europeo che nel giro di un attimo, riescono a rubare ben dieci campane di rame. Insomma per staccare e arrotolare questi chilometri di filo ci vorrà pure il suo tempo, o il sistema è così primitivo che occorre andare di persona a vedere ed esclamare: “toh qui ci dovevano essere dei cavi sopra i tralicci, ora sono nudi come vermi, chi sarà stato mai?”. Se questo non è segno di totale impotenza, la gente del Salice si domanda allora cos’è? Intanto vatti a sostituire dieci campate di cavo elettrico, e per giunta sotto le feste di Natale. Rimane solo l’impotenza e la considerazione: siamo un paese da terzo mondo. Un avviso ai foggiani: “non scambiate auguri troppo intimi con quelli del Salice: non si lavano più neanche le mani, manca l’acqua, non vanno di corpo, manca l’acqua, non cucinano, manca l’acqua, sono irrigiditi dal freddo, non funzionano i riscaldamenti, non cambiano d’abito, le lavatrici non sono più in azione. Insomma ogni cantato con loro è a vostro rischio e pericolo”. Grazie Enel, qui tutti sperano in uno sconticino nella prossima bolletta di gennaio. Un Natale così sarà difficile da dimenticare.


A FOGGIA NON SIAMO COSI' INSENSIBILI: QUALCOSA PUR SI FA. MA E' SEMPRE TROPPO POCO
DA L'ATTACCO DEL 7.1.2016


Quando le smentite arrivano ben vengano. Dicevamo ieri che le parrocchie di Foggia fanno poca accoglienza di profughi e sfrattati, quelle della provincia addirittura aspettano che siano loro a bussare alla porta delle parrocchie. Ma non era la chiesa che li doveva andare a cercare? Ed ecco la gradita sorpresa. Oggi mi sono ritrovato nella parrocchia della Madonna della Croce in viale I maggio, quella a due passi dalla stazione. Più di cento erano i bisognosi che si sono alternati nell’improvvisata mensa del giorno dell’Epifania, quando tutte le altre mense cittadine erano chiuse, diciamo per “riposo settimanale”. E’ stata anche l’occasione per recensire il numero delle mense parrocchiali a Foggia: ben 5. S. Pio X, Immacolata, Sant’Anna, Conventino, Annunciazione. Più due dormitori al Conventino, gestito dalla Caritas Diocesana, e all’Immacolata, dei padri Cappuccini. Bella e piacevole sorpresa: a Foggia non siamo così insensibili e disattenti: qualcosa pur si fa. Da smentire subito: è sempre troppo poco. “I poveri li avremo sempre con noi”, è la condanna di Gesù all’ultima cena. Si dirà la classica storia del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Rimangono i dati: 5 parrocchie su 55 della diocesi. Che fanno le altre cinquanta parrocchie: solo messa, sacramenti e iniziazione cristiana, e qualche oratorio, abborracciato alla bene meglio? E poi un pasto al giorno, come se i poveri mangiano una sola volta al giorno, o alla settimana, la domenica e feste comandate, per capirci. Però va detto che si tratta di un segnale e di un segnale forte. Dio sia lodato! Giustamente faceva notare il parroco della Madonna della Croce, che “non sono solo queste le povertà”. Del resto basta guardare le prostitute a cielo aperto, nei pressi della stazione e nelle varie case limitrofe, e i tanti neri che ci passano e vanno a prendere il treno per non si sa quali sperdute campagne della nostra provincia: anche quella è povertà. La gente entrava, mangiava e se ne andava, sotto i miei occhi increduli, senza neanche salutare, senza neanche un grazie: “questa è perfetta letizia”, verrebbe da dire. Ma le riflessioni sono altre. Per loro è un diritto, quello di essere poveri: “sono loro i poveri” e per noi un dovere aiutarli, “così ci guadagniamo il nostro bravo posticino in paradiso”. Resta l’altro bicchiere mezzo vuoto e relativo amaro in bocca, e sono le chiese date per 20 anni al Gruppo Maria, Rinnovamento nello Spirito, e il Centro Giovanile, mai utilizzato in diocesi, e dato “gratis et amore Dei” all’altro gruppo di carismatici, di cui manco ricordo il nome, tanti ne proliferano ogni giorno sotto lo stesso Spirito, e lo stabile del seminario, quattro palazzine a croce, utilizzato per sette seminaristi, dal futuro sacerdotale ancora incerto, con annessa palazzina di 3 piani, un tempo utilizzato, a pagamento per i professori dell’università di Foggia, e oggi vuota e silente peggio di un cimitero. C’è la futura scuola di teologia, ferma al rustico. C’è la casa del clero, quella di via Vittorio Emanuele, chiusa da anni. Insomma le strutture, quelle indicate da Papa Francesco da destinare ai poveri, ci sono tutte a Foggia, ma o non vengono utilizzate o concesse per religiosità, bigotte e ancora di dubbia teologia. Pazienza le parrocchie con locali utilizzati totalmente per l’iniziazione cristiana o la formazione dei giovani, ma che dire delle 15 confraternite, e locali annessi, utilizzate solo per il culto domenicale e qualche incontro formativo una volta al mese? Piacevole la sorpresa che qualcosa pur c’è ed è degna di rispetto e di evidenziazione. Sempre l’amaro in bocca per i tanti luoghi, sepolcri imbiancati, di una pastorale bigotta e troppo spesso di facciata. Buone Epifania poveri. Almeno oggi si mangia. Domani si vedrà.

CARO PAPA FRANCESCO TI SPIEGO COME FUNZIONANO LE PARROCCHIE NEL SUD ITALIA
DA L'ATTACCO DEL 6 GENNAIO 2016

I messaggi nella chiesa spesso s’incrociano e danno da pensare. Il primo: papa Francesco invita le parrocchie a un gesto di accoglienza verso gli immigrati, dando loro vitto e alloggio. Le parrocchie hanno fatto orecchie da mercante. “Ma sa il papa come vengono utilizzate le stanze nelle parrocchie?”. Tra aule di catechismo per prima confessione, prime e secondo anno di comunione, primo, secondo e terzo anno di cresima, aule per i ragazzi dell’ACR, per incontri giovanili e le associazioni varie, stanze per i gruppi di preghiera di Padre Pio, stanze per carismatici per ogni soffio di Spirito, stanze per i vari gruppi neocatecumenali (che quando vi entrano loro, con la prima, la seconda, la terza, la settimana comunità…agli altri gruppi non resta che emigrare). Forse il papa che viene da lontano non sa come funzionano le parrocchie da noi. Vanno pur capiti questi poveri parroci. Di stanze in più neanche l’ombra. Al massimo qualche parroco (e solo qualcuno) si dà da fare per un pasto caldo giornaliero (e non tutti i giorni, o se si dà a mezzogiorno, non si ridà la sera). “Stanze per dormire?”, non se ne parla proprio. “E chi li caccia più?”. Tantissimi anni fa, ai tempi di mons. Lenotti, i salesiani del Sacro Cuore andarono ad abitare in una baracca per ospitare in canonica 3 o 4 famiglie di sfrattati, tra le critiche di tutti i parroci di Foggia e provincia. Ma quelli erano tempi eroici. Oggi qualcuno in parrocchia ci abita con l’intera famiglia e parenti a carico, semmai mettendo a reddito la casa di proprietà. Cambiano i tempi. Quindi spallucce per l’invito del papa. Se lo sono fatto scivolare addosso. Ed eccoci al secondo punto: mons. Castoro, della diocesi di padre Pio, manda una lettera ai cristiani di quelle parti, invitando, ancora una volta, le parrocchie, ad “adottare” uno dei 27 seminaristi di quella diocesi: con la preghiera, con l’accoglienza e con “il sostegno economico”. Come “con il sostegno economico”? Ho letto più volte il messaggio e dice esattamente così. La domanda è lecita: ma finora non ci pensavano le famiglie dei seminaristi da una parte e per il resto ci pensava la diocesi? A Foggia per 7 seminaristi, dico 7, si tiene occupato un intero stabile, di non so più quanti migliaia di metri quadri, che potrebbe contenere 50 famiglie di sfrattati, per non parlare di profughi senza vitto e alloggio. Son passati i tempi eroici. E di don Tonino Bello ne nasce uno per secolo. Lui se non ricordo male, viaggiava in cinquecento, con la croce di legno e per anello episcopale la fede di sua madre, gli altri vescovi in Mercedes o BMW, e dava ospitalità agli estracomunitari, addirittura, nelle lussuose sale del palazzo vescovile di Molfetta. Quelli erano tempi eroici. A noi è toccato vedere una stanza per l’amato Pelè, un chihuahua dal pelo lungo che guaiva come un canarino se coccolato a dovere, e con tanto di bagno a lui riservato (proprio così!), perché il poverino poteva buscarsi una bronchite se costretto a fare i suoi bisogni al freddo e al gelo, come un gesùbambinello qualsiasi. Sorprende queste richiesta di mons. Castoro, che da qualche parte pure un senso ce l’ha: infondo i seminaristi (in percentuale sempre minore) sono a servizio, una volta divenuti preti, delle comunità parrocchiali, quindi è più che giusto invitare queste ultime a sostenerli, non solo con l’affetto e la preghiera, ma anche mettendo mano al portafoglio. E prima come si faceva? Questa la domanda. Non è come ampiamente dimostrato dai rendiconti di spesa preventiva della diocesi di Foggia, che si attingeva a piene mani dal famoso tesoretto dell’otto per mille? Oggi la magistratura, era ora, ha cominciato a ficcarci il naso in certe allegre gestioni di quell’introito, che ogni giorno di più rischia di far asservire la chiesa allo stato, altro che il cavouriano “libera chiesa in libero stato” (ma forse non era proprio di Cavour la frase, ma va bene lo stesso). Vorrei vedere dopo i fatti dell’ex abate di Monte Cassino e del vescovo di Trapani Mogavero, se non si muoveva la magistratura: c’è un limite a tutto, quando è troppo è troppo. Qualche altro per reati simili se l’è scappotata dalla nostre parti, per il semplice fatto, che all’epoca forse la magistratura aveva ben altre gatte da pelare (bande mafiose proliferate come mosche nella bella stagione), che stare dietro alle spesucce incontrollate delle diocesi locali. Forse qualche vescovo farebbe bene a tremare (e sarebbe ora) quando vengono utilizzati i soldi dell’otto per mille “per pagare i debiti dei vescovi precedenti”, o per sostenere inutili convegni pastorali, o settimanali multicolori, rimasti non letti a pacchi agli angoli delle chiese. E via discorrendo. Troppi soldi per diocesi come la nostra che in tempi d’oro (ai tempi sempre di mons. Lenotti) non riusciva a racimolare non più di duecento milioni vecchie lire (centomila euro di oggi), e ora si trova con un milione di euro tondo tondo, e senza alcun sforzo per procurarseli. Ecco che giustamente Santoro chiede ai propri fedeli di smetterla di pensare che “tanto c’è l’otto per mille”, sia perché fra poco, grazie a qualche altro scandalo, potrebbe esserci tolto, sia per un utilizzo, spesso troppo disinvolto e spensierato di una manna troppo a buon mercato. Stessa fine per il famigerato sostentamento clero. Dice bene Wikipedia: “Con la firma del nuovo concordato (18 febbraio 1984) tra l'allora presidente del consiglio italiano Bettino Craxi e il segretario di stato del Vaticano Agostino Casaroli si stabilì che il sostegno dello Stato alla Chiesa avvenisse nel quadro della devoluzione di una frazione del gettito totale IRPEF (l'otto per mille, appunto) da parte dello Stato alla Chiesa cattolica e alle altre confessioni (per scopi religiosi o caritativi)”. Appunto “scopi religiosi” (non stipendio ai preti) e assistenziali (la caritas e quant’altro). C’era un’altra fonte da utilizzare allo scopo ed era la detrazione delle tasse, da parte dei cittadini per contributi dati alle varie religioni operanti in Italia, fino a due mila euro. Ora sembra che mons. Pelvi voglia porvi rimedio, incaricando qualcuno per la relativa pubblicità. Era ora o il terreno scotta troppo sotto i piedi di questi vescovi (non penso a Pelvi) spendaccioni?