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22 GIUGNO 2016
1' ARTICOLO: CHE FINE FARA' LA SCUOLA DI TEOLOGIA?
BOOOOH
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Si ha sentore di essere alla vigilia di una grande rivoluzione per quanto riguarda gli Istituti Superiori di Scienze Religiose: o si evolvono o scompaiono. Gli Issr hanno una lunga storia che andrebbe raccontata, prima della loro quasi certa estinzione. Sono istituti di livello universitario che sotto la tutela della Pontificia Commissione per l’Educazione Cattolica, e le sponsorizzazione delle Facoltà Teologiche locali, preparano, in cinque anni (tre più due) gli insegnanti di religione, per le scuole statali di ogni ordine e grado. Foggia, almeno in questo è stata pioniera. Si era ai tempi di mons. Lenotti e fin dagli anni ’70 aveva dato vita a una affollatissima scuola per religiose e religiosi (aperta anche ai laici), rivolta alla loro formazione. All’epoca non c’era la norma attuale sull’obbligatorietà della laurea magistrale in Scienze Religiose. Io c’ero e ricordo perfettamente che ci venivano per un certo tempo pure le suore di clausura, quelle del monastero delle redentoriste. Poi qualcuno deve aver fatto notare che essendo aperta ai laici, questo non era consono al loro “status” di clausura. E non sono venute più. In più di quarant’anni di vita è stata una struttura culturale, apprezzata dappertutto eccetto in patria. Ad essa nonostante gli sforzi non hanno mai partecipati i tanti catechisti, liturgisti e operatori pastorali della diocesi di Foggia. Si è preferito, come ancora tutt’ora avviene, le scuolette faidate, con una formazione che almeno i primi anni si esauriva in una decina d’incontri, nel corso dell’anno, finalizzati al settore per il quale si intendeva operare: catechisti, liturgisti, ecc. Vennero poi gli Istituti di Scienze Religiose (Isr: le sigle sono importanti), in quattro anni, di cui tre riservati alla formazione generale e solo l’ultimo alla didattica e legislazione scolastica. La Cei prima e la curia romana dopo ci avevano messo lo zampino, e anche il controllo, visto il pullulare di qeuste scuole per tutta la penisola. I docenti non erano improvvisati. Dovevano avere minino la licenza in teologia, in tutte le varie discipline che venivano impartite, anche se non era ancora necessario la laurea. Poi ai tempi di mons. De Giorgi, la svolta che per lui e tanti altri della Puglia era diventato un punto d’orgoglio. Sono nati così gli Istituti Superiori di Scienze Religiose. Da quattro si è passati a cinque anni (tre più due) e questa volta almeno i membri stabili dovevano avere il dottorato e non più solo la licenza, con tanto di pubblicazioni e articoli scientifici nel curriculum. Insomma una bella impresa per diocesette come quella di Foggia. Infatti dall’interno si contestò non poco questa scelta, a dir poco avventata. I laureati in scienze teologiche all’epoca ci contavamo sulle dita (due o tre per tutta la diocesi), i licenziati qualcuno in più, il resto era fatto da “cultori della materia”, subito messi fuori gioco dalle nuove norma romane. Si plaudi all’iniziativa anche se era chiaro che da soli non potevano sostenere un siffatto peso di docenti di un certo livello. Si fece un giro per tutte le diocesi della metropolia, per cercare professori ma anche aiuti economici. Ricordo benissimo che san Severo rispose picche: “abbiamo il nostro Isr e ci basta” (Isr sta per istituto semplice di scienze religiose), che dopo pochi anni chiuse com’era ovvio. Altri dissero: vi possiamo dare qualche docente, ma scordatevi dell’aiuto economico. Insomma una bella tegola. La scuola ISSR Giovanni Paolo II prese avvio con questi traballamenti, ma vide subito un accorrere di studenti e docenti da tutte le diocesi suffraganee. Ma ancora niente soldi. Ci voleva una sede idonea. Si era all’epoca di mons. Casale, che in quattro e quattr’otto, mise su la sede attuale, oggi fatiscente e inadatta, svuotando la biblioteca diocesana e aprendo porte e finestre su muri portanti e cancellate su giardini interni. Insomma all’uso suo. Ma la scuola si fece e fu riconosciuta a livello di CEI e di Vaticano. Ed eccoci all’ultima capitolo della storia: il più drammatico. Ordine-dictat da Roma, gli ISSR in Puglia devono essere solo 4: Foggia, Bari, Lecce, Taranto. Si chiudono quelli di Trani e di Brindisi, troppo limitrofi ai grandi centri e scarsi a studenti. Gli istituti dovranno avere necessariamente un carattere metropolitano, ossia sostenute economicamente da tutte le diocesi di un dato territorio, con una sede idonea. E qui sono incominciati i problemi per l’ISSR di Foggia. Bene che sia metropolitano (la diocesi da tempo faceva fatica a sostenerlo con i 25mila euro l’anno, tolti sempre dall’otto per mille, oggi ridotti a 10mila), bene che sia a gestione collegiale (a turno ogni vescovo fa da moderatore), impensabile vista la conformazione del nostro territorio, dislocarla in provincia. Avrebbe detto l’Arcivescovo di Foggia-Bovino, “in città non ho locali per voi, posso mettervi a disposizione quelli del seminario minore in via Napoli al km 3,5 dalla città”. Una sistemazione che è una condanna a morte: fuori mano e mal servita in fatto di autobus. Si stanno cercando locali (laici) in città, ma entro 2017, altrimenti a tutta questa bella storia, che non a caso abbiamo voluto minutamente raccontare, si dovrà apporre la parole “fine”. Non si vuole dare la croce addosso ad alcuno, ma chiudere questa scuola o anche solo sportarla di sede (da Foggia in provincia) sarebbe una iattura. Chi sopravviverà vedrà.
2. UNA STORIA PASTORALE CHE POCHI CONOSCONO O SANNO LEGGERE
“La storia pastorale del sud Italia e in particolare della Puglia è davvero tutta ancora da scrivere e da raccontare”. Così ci diceva mons. Salvatore Palese, professore di storia al seminario regionale di Molfetta. Perché solo raccontandola si possono spiegare fenomeni come la crescita delle vocazioni mentre calano dappertutto, in Italia e non solo. Fenomeno fin troppo sociologicamente spiegabile, visto l’attuale crisi economica. Da noi “quelli che non sono preti, sono carabinieri”, cantava il pugliese Mimmo Cavallo. Da noi si può solo risalire, dalla “finis terrae”, ultimo porto per la Terra Santa, e chissà poi se si faceva ritorno: i santi Guglielmo e Pellegrino docet. Ma c’è dell’altro nelle nostre realtà ecclesiali e parrocchiali: una specie di frenesia che sembra aver preso tutti, preti, vescovi, persino i sacrestani. Francesco lo definisce “martalismo” (da santa Marta), riferendosi all’eccessiva operosità” e “l’eccessiva pianificazione e funzionalismo”: una malattia pastorale. Programmi (triennali, quinquennali, annuali, semestrali) sono il nuovo vangelo della pastorale d’oggi. Chi tutto manovra è il “grande fratello”, la Conferenza Episcopale Italiana, con i suoi mille e più uffici che mandano missive a pioggia, del tenore: “questo si deve fare”, “questo è urgente”, “questo non può mancare”. Così anche le diocesi, piccole e insignificanti come la nostra, scarse a clero e non meno a laici, hanno dovuto fare buon viso a cattivo gioco. E si sono dovuti dotare: dell’ufficio della pastorale del lavoro, della famiglia, della salute, della cultura, delle missioni, della caritas, dei giovani, catechistico, liturgico, e chi più ne ha più ne metta. La frustrazione è l’esito finale di tanto bailamme: con vescovi che sognano di fare i preti di campagna e preti che nelle loro parrocchie si sentono papa e re. Un carrozzone, che va avanti da sé, irrefrenabile, alla fine barocco e inefficiente. La soluzione? Boh? Un’invasione di barbari come al tempo dell’impero romano sarebbe la soluzione, per un medioevo prossimo futuro.
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