giovedì 2 gennaio 2014

10 ANNI DI INCLUDENZA PASTORALE....DANNO DA PENSARE...

ARTICOLO APPARSO SU L'ATTACCO DEL 31 DICEMBRE 2013....
PRIMA PARTE...

LA PROSSIMA PER L'ANNO NUOVO 2014

"Un ricordo personale. Quando ero ancora seminarista a Molfetta, il vescovo Lenotti mi chiese un giudizio sul rettore. Gli dissi “una risposta diplomatica o quello che pensavo veramente?”. “Quello che pensi veramente”, rispose. “E’ un cretino, e prima lo togliete da quel seminario e meglio sarà per i futuri preti pugliesi”. Ne rimase sorpreso. Al che aggiunsi subito dopo: “non si preoccupi. E’ un brav’uomo, con qualche difetto, come tutti”. E’ inutile qualcuno non ama vedersi allo specchio e quando glielo si sbatte in faccia, al massimo afferma: “quello che dice è vero, ma il modo è proprio sbagliato”. A chi viene maltrattato o viene pestato un piede, si chiede anche il fair play. Mi è stato chiesto di descrivere lo scenario della chiesa locale che lascerà mons. Tamburrino, prossimo alla pensione. Diciamo subito che il disastro è grande, anche se non è tutta colpa sua. La colpa più grave è certamente quella di non essere mai entrato veramente nel cuore di questa diocesi: ci è stato mandato per punizione e ha fatto di tutto per farcelo pesare, e questo per lunghi dieci anni. Le altre colpe sono ben distribuite tra un clero, poco preparato, incapace e arruffone, più interessato al potere e ai soldi (anche a quelli) che al bene delle comunità, e lo stesso mondo laicale, cristiano e non cristiano, che come reazione massima, abbandona le chiese, lasciandole in mano a vecchi e bambini. La nostra è e rimane una città di provincia inerte, paciosa e persino cinica, in tanti suoi aspetti: la diocesi ne è solo un’immagine speculare. Le diocesi suffraganee non lo sono di meno. E’ la chiesa intera che Bergoglio sta cercando di svegliare da Roma, che andrebbe scossa e risvegliata in tutto il mondo, specie in Italia. Dal concilio era stato chiesto un rinnovamento radicale: una chiesa più aperta al mondo e più spesa nel servizio all’umanità. Ebbene questo non è avvenuto, e siamo a cinquant’anni dal concilio. Il devozionismo, con i suoi rosari, le sue multicolori processioni, le adorazioni eucaristiche (dalle quarantore alle settantadue) la fa ancora da padrone; la sacralizzazionie, nemmeno troppo compresa nella sua giusta impostazione magica e di “pensiero speculativo” ossia di visione del mondo, resta ancora il fulcro della pastorale cristiana: battesimi, prime confessioni e prime comunioni, matrimoni e funerali, tutto procede e riempie la vita delle parrocchie, esattamente come negli anni ’60. Di servizio alla città, d’immersione nei suoi problemi veri, esisto autentico della sacralità cristiana, neanche l’ombra. Molti cristiani pensano ancora che si salvano l’anima frequentando la chiesa e vivendo di sacramenti, non utilizzandoli al servizio dell’umanità. Cosa lascia Tamburrino? Una chiesa allo sbando, forse peggio di come l’aveva lasciata Casale, non con i suoi contrasti, ma con una generale disaffezione che forse è anche peggio. In ogni suo settore. La curia è praticamente un deserto senza anima. Nel convegno di Verona del 2006 si era detto che la catechesi, la liturgia e la carità, non dovevano più essere rappresentati da tre uffici, spesso autoreferenziali e tutti interni alla realtà religiosa. Bisognava che queste tre elementi fossero intercomunicanti e orientati tutti al “servizio di carità per la vita del mondo”. Non se n’è fatto nulla. Anzi facendo monsignori i tre direttori, non si è fatto altro che acuirne l’autoreferenzialità e spesso la loro supponenza. La caritas, pensata non come strumento della carità di un altro ufficio, spesso, in mano a pochi e con molti soldi (quelli dell’otto per mille) ma come animazione della carità delle parrocchie e dei cristiani, ha fallito la sua missione (anche se nelle mense e nei dormitori qualcosa pur produce). Nel sevizio di carità, il riferimento unico sono le caritas parrocchiali che ne ripropongono il cliché elitario e di ufficio, sono state trascutrate totalmente le confraternite, cosa non avvenuta in altre diocesi del centro nord, lasciate da noi a un cultualismo fuori stagione (si è impedito il rito della settimana santa, ma le si vuole tutte in processione, fanno colore e popolo). Ogni problema in questa diocesi è stato risolto con un ufficio, alla maniera della Conferenza episcopale italiana. Con la non piccola differenza, che forse a quel livello (si fa per dire) le cose funzionano, nel senso che si danno da fare, con molto personale e molti proclami, anche per giustificare la propria esistenza, ma a livello locale diventa una tragedia: molti preti della diocesi hanno più di un incarico per coprire l’organnico CEI governano diecimila istituzioni, praticamente paralizzandole. Così è per tutta la pastorale diocesana: consultorio familiare, pastorale giovanile, pastorale della salute, ecc…Tutti organismi che stanno sulla carta, perché così vuole Roma. Una marea di enti inutili che di tanto in tanto propongono iniziative fine a se stesse, inutili al territorio, proprio perché estemporanee, saltuarie e ancora una volta autoreferenziali. Ma il vero nodo sono le parrocchie e i sacerdoti: il punto più basso della pastorale di Tamburrino. Il legame tra vescovo e preti è stato praticamente inesistente. A parte quel vezzo di dare del lei, che volutamente impone un distacco, e mancanza di familiarità, non c’è colloquio tra vescovi e preti, se per questo non c’è mai stato. I vescovi dopo il concilio si sono investiti di un piccolo potere regale, vivono in torri d’avorio (il nostro con tre stanze d’anticamera). Si isolano sempre più e le comunicazioni avvengono spesso attraverso delazioni: “mi hanno detto che hai detto”. Al clero s’impedisce in tutte le maniere l’incontro e il confronto e lo scambio di idee. I ritiri, mensili, ne sono l’emblema. In quegli incontri tutto è gestito dall’alto: un’ora di ascolto (quest’anno la lettura ripetitiva del documento copia-incolla dell’arcivescovo sulla pastorale familiare), un’altra ora di adorazione eucaristica (devozionismo allo stato puro) e infine gli avvisi (il resto del tempo). Per un anno intero non si sono fatti i consigli presbiterali (perché il vescovo era impegnato nella visita pastorale), negli ultimi mesi se ne sono fatti due (per mancanza di numero legale). Anche quest’organismo di partecipazione clericale, diciamo dal basso, si è fatto di tutto per neutralizzarlo (se ne ha paura) e viene nutrito di argomenti scelti a caso, senza mai andare a fondo sulle problematiche. E’ gestito come una corte, nella quale il re ascolta le lamentele e ne tiene conto. Non si vota mai o quasi. Non ci sono delibere del consiglio in quanto tale: il vescovo chiede al clero e il clero dopo il dibattito gli fa sapere…niente di tutto questo il dibattito è svolto tra chi critica l’operato del vescovo e chi lo difende. E ce ne sarebbero di cose da dire ancora. Mi si dato un preciso numero di caratteri da non oltrepassare. Ma c’è ben altro, se si pensa all’allegra gestione economica, ancora una volta, e alla recente polemica sulla scuola in seminario e a tante decisioni mancate in questi anni. Alla prossima puntata."
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